
Secondo Mario Draghi, che ha parlato oggi a Francoforte, la bassa crescita dei salari, “ben al di sotto delle medie storiche”, rallenta l’inflazione nonostante l’espansione monetaria della Bce. Su questa bassa crescita salariale – ha spiegato Draghi – pesano tre componenti: innanzitutto il sottoutilizzo di capacità produttiva con un “tasso di disoccupazione ancora alto” che ha un effetto sulle contrattazioni, con i sindacati che “potrebbero preferire dare priorità alla sicurezza del posto di lavoro al costo di qualche perdita in termini di salari reali”. In secondo luogo “nei paesi dove l’indicizzazione formale dei salari è scesa fortemente durante la crisi, il trasferimento dell’inflazione ai salari potrebbe essersi indebolito”. Terzo, secondo Draghi, “la negoziazione salariale in molti Paesi è già stata in gran parte conclusa per quest’anno, con la conseguenza che qualsiasi impatto di una maggiore inflazione attraverso la negoziazione salariale probabilmente sarà ritardato”.
“Il contributo della crescita nominale – ha sottolineato il Presidente della BCE – è sempre stato decisivo per il successo del deleveraging, cioè della necessaria riduzione di un debito eccessivo”.
Draghi ha voluto così rispondere a Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e membro del consiglio Bce, secondo il quale “date le prospettive di ripresa continua e robusta nell’Eurozona e di un aumento delle pressioni inflazionistiche, è legittimo discutere di quando il consiglio direttivo debba normalizzare la politica monetaria e come possa modificare la propria comunicazione in anticipo”.
Quanto dice Draghi è ben noto ai nostri lettori: l’inflazione è guidata dai costi (salari e materie prime in primo luogo) e la quantità di moneta è guidata dall’inflazione. Se si vuole quindi aumentare l’inflazione non c’è modo migliore di aumentare i salari, come sa bene il collega giapponese di Draghi. Migliore di svalutare per creare inflazione importata, che è recessiva.