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L’impossibile uscita “da sinistra” dall’euro

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di Guido Iodice

Questo articolo è un commento critico all’intervista a Emiliano Brancaccio pubblicata da Micromega. Ho scelto di prenderla come spunto proprio perché stimo Brancaccio e credo che le suej tesi siano ispirate da una riflessione seria. Come premessa devo chiarire che non sono un difensore dell’euro: credo anzi che la moneta unica sia stata un errore. Ma questo non implica che uscirne riparerebbe l’errore commesso. Al contrario, il rischio è che la cura sia peggiore della malattia. E su questo siamo confortati da analoghe analisi (GallegatiBiasco, Visco, Halevi)

Il presente articolo è una versione estesa dell’intervento pubblicato da MicroMega qui

L’euro non è più quello di una volta…

Il punto di partenza di Brancaccio è l’impossibilità politica di riformare l’unione monetaria. E’ una posizione che però sembra non temere conto di quanto successo a partire dal 2012. L’euro di oggi è già molto diverso da quello fondato nel 1992 e da quello che abbiamo visto nella prima fase della crisi (2008-2012). Si diceva che la Germania non avrebbe mai permesso allentamenti monetari significativi: oggi il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali è zero. Si diceva che la banca centrale europea non poteva acquistare massicciamente titoli di stato. Oggi la BCE sta acquistando massicciamente titoli di Stato, portando l’onere del debito pubblico del nostro paese al 4% del Pil (per avere un’idea, nel 1995 era pari all’11%) e i tassi sui nostri titoli al minimo storico. La Germania ha criticato persino la svalutazione dell’euro (salvo poi attribuirle i propri surplus commerciali extra UE, che in realtà hanno iniziato la loro corsa mentre l’euro si rivalutava).

Brancaccio all’inizio dell’intervista parla della necessità di acquisti differenziati, poiché attualmente la BCE compra in maggioranza titoli tedeschi seguendo il criterio del capital key. Ma è proprio l’abbandono di questo criterio uno dei temi all’ordine del giorno, visto che i titoli tedeschi “eligibili” si stanno esaurendo. Un ulteriore sintomo del cambiamento avvenuto è il fatto che i debiti del nostro paese con il sistema Target2 hanno raggiunto recentemente il massimo storico, eppure nessuno se ne preoccupa, per le ragioni ben illustrate in un recente articolo sul blog Econopoly del Sole 24 Ore.

Sul fronte fiscale il cambiamento è molto più lento che sul fronte monetario (e largamente insufficiente). Tuttavia occorre notare che il Fiscal Compact è rimasto in pratica lettera morta e anzi paesi come Spagna e Portogallo sono stati ripetutamente “perdonati” per eccessi di deficit abnormi. Ovviamente questo è molto meno di quanto servirebbe, ma è decisamente di più di quanto ci si poteva aspettare da un’Unione che quattro anni fa ha costretto gli stati membri ad inserire il pareggio di bilancio nelle proprie costituzioni.

Cambiamenti forse troppo “al rallentatore” per risultare percepibili anche ad attenti osservatori, ma non di meno cambiamenti che hanno sconvolto le previsioni di quanti avevano data per certa, addirittura imminente, la fine dell’euro.

 

…ma questi cambiamenti non bastano

Nonostante ciò, l’eurozona ha ancora bisogno di significativi emendamenti, non solo per poter funzionare dal punto di vista finanziario (ad esempio il completamento dell’Unione bancaria), ma anche dal punto di vista dell’economia reale e, quindi, della politica. Perché è evidente che se oggi gli spread non sono ancora a zero, vuol dire che anche i mercati percepiscono che un certo rischio di rottura permane. Perché è altrettanto evidente che se permane la disoccupazione a due cifre nei paesi del Sud, quelli del Nord vedranno flussi migratori sempre maggiori e con essi la crescita (già molto avanzata peraltro) dei nazionalismi. Molte altre riforme saranno necessarie per salvaguardare permanentemente l’euro ed evitare che scoppi la pentola a pressione dell’eurozona. Il punto non è che l’euro non possa crollare (ovviamente può accadere), ma che se analizziamo dinamicamente la situazione esso potrebbe salvarsi “a destra”, mentre noi discutiamo di improbabili socialismi in un solo paese.

 

La sinistra noeuro non ha spazi

Sostiene Brancaccio che “coloro i quali oggi sostengono di voler lottare per cambiare l’Unione dall’interno dovrebbero occuparsi di miracolistica, non di politica”. Ma la sinistra che vorrebbe uscire dall’euro (e dall’Unione) è già stata testata in Grecia e non è neppure arrivata ad eleggere un deputato in parlamento. Persino Yanis Varoufakis, che con quella posizione aveva avuto qualche rapporto, ha precipitosamente fatto dietrofront dopo il disastro degli scissionisti di Syriza. Sempre Brancaccio nel 2012 sostenne che Syriza non aveva vinto perché non aveva posto il tema dell’uscita dall’euro. La realtà era opposta, e Syriza ha vinto ben due elezioni giurando che la Grecia sarebbe rimasta nella moneta unica. Spostandoci nella penisola iberica, il Blocco di sinistra e i comunisti portoghesi, che a parole dicono di sostenere l’uscita dall’unione monetaria, appoggiano un governo che ha nel programma l’esatto contrario. In Spagna Podemos e Izquerda Unita, che avevano in passato caldeggiato l’ipotesi dell’uscita, l’hanno espunta dai loro programmi.

Matti? Forse no.

Il vincolo della domanda estera

Alcuni a sinistra cadono in una banale fallacia logica quando traggono la seguente implicazione: poiché l’euro è “di destra”, l’uscita dall’euro è “di sinistra”. Brancaccio non è tra questi. Il monito degli economisti, da lui promosso insieme a Riccardo Realfonzo, parla infatti di “modalità alternative di uscita dall’euro”, con risultati diversi tra loro.

Eppure è difficile immaginare un’uscita “da sinistra” dall’euro. Lo stesso Brancaccio ha riconosciuto che la Grecia non aveva altra opzione che sottoscrivere il nuovo memorandum con i suoi creditori. Vale la pena soffermarsi su questo punto. La Grecia è infatti un paese strutturalmente dipendente dai capitali esteri per finanziare i suoi disavanzi delle partite correnti. Mentre nell’euro questo finanziamento è automatico, attraverso il sistema Target2, fuori dall’euro Atene avrebbe dovuto trovare finanziatori esterni. Tsipras ha chiaramente ammesso di averci provato senza riuscirci (a USA e Cina certo non serve una Grecia fuori dalla moneta unica o persino dall’Unione). Una Grecia fuori dall’euro e senza accesso ai mercati finanziari avrebbe potuto contare solo sugli avanzi commerciali per finanziarsi, il che significa che avrebbe comunque dovuto deprimere la domanda interna. Impresa amaramente semplice in una situazione di collasso del sistema bancario.

Ovviamente altri paesi, come l’Italia, sono messi molto meglio della Grecia. Non troppo però. Vediamo perché. È chiaro a tutti che l’uscita unilaterale dell’Italia dalla moneta unica segnerebbe la fine dell’euro entro pochi mesi, se non settimane, a causa dell’intreccio finanziario del nostro paese con il resto dell’area euro. Lo scenario più probabile, del resto riconosciuto anche dagli economisti “noeuro” più ragionevoli, sarebbe una pesante recessione continentale con effetti di contagio finanziario anche nel resto del mondo. Se questo scenario si concretizzasse, la svalutazione della lira ci servirebbe davvero poco. Abbandonando il vincolo esterno dell’euro, ci troveremmo comunque davanti al vincolo della domanda estera. Ma persino ipotizzando che si possa davvero controllare la tumultuosa sparizione della seconda valuta di riserva del mondo, lo scenario appare molto meno roseo di quanto si possa immaginare. I paesi che hanno svalutato la loro moneta negli ultimi anni, soprattutto dopo il 2011-2012, hanno potuto godere di pochissimi benefici, se non nulli.

Un esempio è il Giappone, paese fortemente vocato all’export. Dopo ripetute svalutazioni, a partire dal 2012, attuate nell’ambito dell’Abenomics, il paese è riuscito a tornare in attivo di bilancia commerciale solo quest’anno, paradossalmente dopo che la Banca centrale ha lasciato correre la rivalutazione dello yen.

La bassa domanda globale, le misure protezionistiche adottate da molti paesi in questa fase di deglobalizzazione, la guerra valutaria, ci dicono che almeno per qualche tempo l’ elasticity pessimism è più che giustificato. Stando così le cose, rischiamo di trovarci, all’indomani di un’uscita dall’eurozona, con uno spazio per politiche espansive che potrebbe rivelarsi molto ridotto, persino più ridotto dell’attuale.

 

L’uscita dall’euro è a destra

Ma il punto che mi convince meno dell’ “uscita da sinistra” prospettata da Brancaccio è quello della indicizzazione dei salari, che Emiliano ha sollevato in varie occasioni (come ad esempio in questa intervista a Giornalettismo). Fatto salvo quanto già detto sull’inefficacia delle svalutazioni, se si vuole almeno provare a sfruttare l’effetto della svalutazione per riconquistare competitività di prezzo per le nostre merci, pur con tutti i caveat già ricordati, la reintroduzione della scala mobile rischia di mangiare rapidamente il vantaggio ottenuto dal ritorno ai cambi flessibili. Gli economisti di destra che propongono l’uscita dall’euro, come Roger Bootle, sono estremamente sinceri in proposito, e purtroppo non si vedono chiare ragioni per dare loro torto: i salari nominali vanno tenuti al palo. Questo implica che l’inflazione importata ridurrà significativamente il salario reale dei lavoratori, come accaduto peraltro in diversi recenti episodi di svalutazione. Per fare solo un esempio, secondo i dati OCSE la caduta dei salari reali nel Regno Unito dal 2007 al 2015 è stata pari a quella dei salari reali in Grecia, che è il caso limite nell’area euro.

Potremmo allora decidere di non migliorare il nostro tasso di cambio reale, indicizzando quindi le retribuzioni all’inflazione, come proposto da Brancaccio. Ma se l’Italia ripristinasse la scala mobile all’indomani dell’uscita, in una situazione già delicata, nella quale la nuova moneta dovrebbe “accreditarsi” presso i mercati valutari, questi ultimi incorporerebbero le aspettative di ulteriori svalutazioni future, portando la lira a deprezzarsi molto di più di quanto sia desiderabile per ripristinare la competitività di prezzo perduta negli anni di adesione all’euro. In tal caso, l’effetto combinato dell’aumento dei prezzi delle importazioni, del ritardo di reazione dell’export alla svalutazione (ammesso che si materializzi) e del peggioramento della posizione patrimoniale di banche e imprese indebitate in valuta estera, rischierebbe di produrre effetti recessivi significativi, riproducendo il meccanismo descritto da un noto paper di… Alberto Bagnai. Problemi che si pongono comunque, anche senza introdurre la scala mobile, ma che verrebbero accentuati dalla reazione dei mercati all’introduzione di misure di indicizzazione salariale.

La proposta finale avanzata da Brancaccio nell’intervista è anch’essa parte di una ipotesi di “uscita da sinistra”. Secondo Emiliano servirebbe “un labour standard sulla moneta, vale a dire un sistema di gestione delle relazioni internazionali finalizzato al controllo dei movimenti di capitale, fuori e dentro l’Europa, specialmente da e verso quei paesi che adottino misure di dumping sociale e fiscale”. Si tratta senza dubbio di una riforma molto ambiziosa. E condivisibile. Ma è anche un salto logico ardito: dopo aver escluso la possibilità di una riforma progressista dell’eurozona, Brancaccio propone una riforma progressista dell’intero sistema monetario internazionale.

A proposito di nuovi sistemi monetari internazionali, idealmente un mondo keynesiano dovrebbe avere un prestatore di ultima istanza internazionale che finanzi i paesi deficitari in modo automatico, come propose Keynes a Bretton Woods. Paradossalmente ce l’abbiamo già: è la BCE, come spiega un illuminante paper di Marc Lavoie sull’argomento.

Insomma, l’ipotesi di un’uscita “da sinistra” dall’euro appare difficilmente praticabile, se non addirittura “miracolistica”. L’uscita dall’euro sarebbe inevitabilmente a destra.

 

Il cambio flessibile è “di sinistra”?

Il paradosso è che le politiche keynesiane furono rese possibili proprio da ciò che i noeuro avversano: un sistema di cambi fissi (ma su questo anche Brancaccio concorda, quando ad esempio parla di “ingenui apologeti del cambio flessibile” nel citato Monito degli economisti). Dal dopoguerra al 1971 il mondo è stato governato dal Gold Exchange Standard stabilito a Bretton Woods, un sistema di cambi fissi che permetteva solo qualche aggiustamento. Questa è stata l’epoca keynesiana. Dal momento in cui Nixon distrusse quel sistema, il mondo conobbe una forzata trasformazione a tappe in senso liberista, dettata dalla liberalizzazione dei movimenti di capitali che, volenti o nolenti, vincola le economie più deboli o ritardatarie a cercare ogni mezzo per attrarre capitali (dalla fissazione del cambio all’emissione di titoli in valuta estera) per finanziare le importazioni, non solo di prodotti di consumo, ma anche di beni capitali. Un’alternativa è diventare campioni di liberismo, come i paesi anglosassoni, costruendo un’economia quasi completamente finanziarizzata, diseguale ed estremamente fragile.

Certo, si riesce a sfuggire per un po’ di tempo a questo meccanismo diventando paesi esportatori, ma solo se il resto del mondo cresce a ritmi vigorosi ed è disposto ad importare. E oggi non siamo affatto in questa condizione, come ci dicono le statistiche del commercio mondiale. Ne stanno pagando le conseguenze paesi come l’Argentina e il Brasile che, a seguito di ampie svalutazioni, hanno solo ottenuto più crisi.

Ma per i paesi che uscissero dall’euro sarebbe molto peggio di così, perché non potrebbero neppure accedere ai mercati per finanziarsi.

Immaginare ampi spazi per politiche “progressiste” dopo essere andati “oltre l’euro” è andare a sbattere contro un muro pensando che sia una tenda. Fuori dall’euro per i paesi meridionali dell’eurozona non c’è più keynesismo o più sinistra.

 

La sinistra intrappolata

Non voglio tediare ancora i lettori, ma ci sarebbe ancora molto da dire. Solo qualche accenno merita il fatto che quanti invocano l’uscita dall’eurozona, sostenendo che essa avrebbe costi minori che rimanervi (tra questi anche qualche Nobel per l’Economia), non hanno mai presentato una simulazione credibile a sostegno di questa affermazione. L’unico economista ad averci provato, Jens Nordvig di Nomura, alla cui analisi mi sono in parte ispirato nel paragrafo precedente, ha dovuto concludere che l’uscita unilaterale dall’eurozona di un paese periferico sarebbe un disastro. La soluzione secondo Nordvig è una dissoluzione controllata che richiederebbe in fine nientemeno di un giubileo dei debiti generalizzato. A proposito di “miracolistica”.

La sinistra radicale è da tempo preda di una discussione singolare. Mentre molti parlavano di inevitabile, o quasi, crollo dell’euro e invocavano fantomatici piani B e C, nessuno ha preparato il Piano A nel caso l’euro non crollasse, come in effetti è avvenuto. L’apice del dibattito odierno è rappresentato da un surreale confronto tra Stefano Fassina e Yanis Varoufakis sul Marx e la sovranità nazionale. Date queste premesse è più probabile l’estinzione della sinistra che quella dell’euro.

 

Che fare?

Al leniniano interrogativo “che fare?” le risposte non possono che essere parziali e mutevoli. Nessuno possiede la bacchetta magica e il sentiero è molto stretto. Il tentativo di Tsipras di creare un fronte dei paesi mediterranei è l’inizio di una risposta politica, che arriva con grande ritardo (non certo per colpa del leader greco). Una possibile risposta sul piano economico è invece quella contenuta nel paper Why Further Integration is the Wrong Answer to the EMU’s Problems: the Case for a Decentralised Fiscal Stimulus che ho scritto con Thomas Fazi e che è ha vinto il Call for Papers del think tank “Progressive Economy” legato al gruppo Socialista al parlamento europeo. 

Una situazione del genere si presentò negli anni ‘30 quando le classi egemoni americane dovettero permettere ad un amico dei lavoratori, eletto con i voti dei sindacati, di salvare il capitalismo da se stesso attraverso riforme progressiste e larghi deficit. Oggi si tratta insomma di salvare l’euro da se stesso. Ci sono più modi per farlo, più o meno progressisti. L’azione politica della sinistra, di una sinistra che vuole fare politica, non può prescindere dall’essere protagonista di questa occasione, come provano a fare le sinistre radicali in Grecia, Spagna e Portogallo.

L’opzione politica avanzata nel libro “La battaglia contro l’Europa” è esattamente sfruttare le contraddizioni di cui dicevo nel paragrafo precedente. Cioè fare politica. Infilarsi nelle contraddizioni della realtà (l’euro è costruito male) e in quelle del campo avverso (ad esempio tra Francia e Germania, tra capitali del Sud e del Nord, ecc.).

Per fare cosa? Gli Stati Uniti d’Europa? Un bilancio federale del 10%? Assolutamente no. Al contrario, come proposto nel citato paper inopinatamente premiato dai socialisti europei, la strada è quella di dare agli stati nazionali più spazio fiscale, mentre la BCE salvaguarderebbe l’euro e la sua “materia prima”, il debito degli stati. Nessun bilancio federale al 10%, nessun trasferimento monetario.

Una riforma del genere salverebbe la tenuta dell’eurozona non solo dal punto di vista prettamente finanziario, annullando gli spread, ma anche da quello dell’economia reale e dell’occupazione (attraverso gli investimenti in deficit), ridurrebbe le sofferenze bancarie e conterrebbe i flussi migratori interni all’Europa. Di più: uniformando i tassi di interesse eliminerebbe il quasi-trasferimento fiscale (cos? lo vedono in Germania) che si sta realizzando attraverso i tassi negativi sui debiti tedeschi dovuti anche al QE “uniforme”.

Al di là delle proposte tecniche che ognuno prova a elaborare nella speranza che qualcosa arrivi ai decisori politici, il punto è che la risposta della sinistra dovrebbe collocarsi all’altezza della sfida posta da un lato da Mario Draghi, con la sua azione stabilizzatrice della moneta unica, e dall’altro dal crescente timore delle classi medie impoverite dei paesi relativamente ricchi dell’Europa di dover in fine pagare i costi della crisi dei paesi relativamente poveri, per salvare l’euro e l’Unione. La vera fragilità dell’euro non è costituita dagli squilibri commerciali che spingerebbero i paesi “periferici” a sganciarsi, ma dalle spinte centrifughe crescenti proprio nei paesi del “centro”.

Per questo una riforma “progressista” dell’euro non è impossibile: è dannosa. Non è il momento di fare progressi: quello che serve è un passo indietro nel processo di integrazione, senza cadere nel burrone della dissoluzione della moneta unica. Solo così se ne potranno fare, in seguito, due avanti.

20 commenti su “L’impossibile uscita “da sinistra” dall’euro

  1. Certo, nessuna uscita unilaterale dall’euro. Dopodiché? Si rimane in casa a lamentarsi, con il naso schiacciato sul vetro a guardare la Germania che gioca?
    No! Quattro passi nel futuro:
    1) coordinamento degli stati costieri europei del Mediterraneo nord, da Spagna a Grecia, con particolare attenzione al sobbollimento balcanico e al rapporto cruciale con Turchia.
    2) Questione israelo-palestinese in ambito di politica mediterranea.
    3) Coordinamento finale degli stati costieri del Mediterraneo sud, fino al fondamentale Marocco.
    4) “falò di carta” del debito in euro e nuova moneta in connessione con l’ impostazione del nuovo rapporto economico di controcolonialismo in Africa.
    In due parole: Europa mediterranea.

    Giuliano Ferrari Bravo

    P.S. Quando mai, voi del Keynes blog, vi renderete conto che Keynes non era un economista? O forse pensate che Italo Svevo fosse un venditore di ottime pitture antivegetative o magari Kafka un buon impiegato alle Assicurazioni? o Conrad un ufficiale di marina con la patente (presa al secondo tentativo, non come Garibaldi al primo)? O magari pensate appunto che anche Garibaldi fosse un capitano di lungo corso…

    • Keynes non era un economista? E cos’era=

      • Perchè non chiederlo, caro Iodice, al più importante biografo di Keynes, Robert Skidelsky, che al termine della sua monumentale trilogia, scriveva: “…in my biography of Keynes I called him an ‘unusual economist’. I would now go further. Deep down, he was not an economist at all… “. Quanto alle vite di Keynes c’è chi ne ha contate due e chi, come Davenport-Hines, anche sette…
        Questo solo per amichevomente suggerire che nel blog che porta quel nome più utile sarebbe forse dedicare uno spazio maggiore alla “atroce arte di stato” che all’accurata contabilità.

  2. Sarò lapidario: chi propugna il ritorno alla Lira è un nemico della classe operaia, chi ipotizza un’eventuale “uscita da sinistra” con soluzioni irrealistiche tipo “indicizzazione dei salari” o “labour standard sulla moneta” non è utile. Sul resto si può discutere …

  3. Concordo in larga parte con quanto contenutonell’articolo e in particolare l’analisi del vostro paper. Credo anche che la uscita da sinistra dall’euro, volente o meno, sia troppo teorica e infattibile. La vostra soluzione è un espansione fiscale degli stati nazionali visto che i risparmi privati ci sarebbero. Ora due domande, 1) non sarebbe forse più accettabile da parte degli euroburocrati un vero piano di investimenti europei ( non quello ridicolo di Junker che tra l’altro mobilta poco soldi pubblici) su infrastrutture tecnologiche ( larga banda), trasporti veloci, energie alternative ecc eccc? 2)Ma viste le scelte scellerate degli ultimi tempi delle elite europee, che hanno giustamente fatto arrabbiare i cittdaini che si rivolgono, come prevdeibile, ai partiti populisti, ci sono ancora realisticamente questi spazi di manovra?
    O forse rimane aperta solo la strada dei due euro come sostiene Stiglitz?

    • “1) non sarebbe forse più accettabile da parte degli euroburocrati un vero piano di investimenti europei ( non quello ridicolo di Junker che tra l’altro mobilta poco soldi pubblici) su infrastrutture tecnologiche ( larga banda), trasporti veloci, energie alternative ecc eccc? ”

      Forse sì, ma il rischio è che poi venga spalmato su tutti i paesi, invece di essere indirizzato a quelli in crisi.

      “2)Ma viste le scelte scellerate degli ultimi tempi delle elite europee, che hanno giustamente fatto arrabbiare i cittdaini che si rivolgono, come prevdeibile, ai partiti populisti, ci sono ancora realisticamente questi spazi di manovra?”

      Il punto è che vi sono fatti oggettivi che spingono a cercare una soluzione. Tra cui ad esempio l’aumento dell’immigrazione. Per la Merkel sarebbe molto meno costoso politicamente inventarsi una formula per consentire deficit più larghi che dover accogliere milioni di spagnoli e italiani o addirittura pagare loro un sussidio di disoccupazione.
      Ovviamente non è scontato che lo capiscano, ma in tal caso giocano con la loro stessa permanenza al potere.

  4. Mi scusi, Iodice, ma sono andato a vedere su Ideas il ranking degli economisti da lei citati.
    L’unico che ha un certo peso è Gallegati (intorno al millesimo posto), i cui lavori però sono in tutt’altro campo.
    Chi invece ha svolto una critica serrata (o lapidaria a seconda dei casi) all’Euro può vantare un ben altro peso specifico e scientifico.
    Stiglitz, numero 4, poi Mankiw, intorno al 30, non molto più giù Rodrik, un futuro Premio Nobel.
    Il suo articolo fa l’effetto di uno che, ad un conoscente ammalato di tumore, come prima cosa gli consiglia di provare la cura Di Bella.
    Che avrà sicuramente una sua logica e una sua valenza, non discuto, ma che non è mai stata validata attraverso un processo scientifico.
    Lei stesso non è un economista, per cui francamente non capisco perché le sue opinioni debbano valere più delle mie o di qualsiasi altro.
    Quando ad esempio sostiene che un’eventuale uscita dalla moneta unica può comportare un ulteriore 20% di perdita dell’industria nazionale, non credo che lei lo faccia a partire da modelli accreditati su cui ha lavorato e partire dei quali ha sottoposto un suo lavoro a peer review.
    Le sue sono opinioni che non la impegnano in nulla.
    Per fare un esempio, Giorgio Lunghini ha affermato qualche giorno fa che se l’Italia uscisse dall’Euro il Pil calerebbe del 63% nell’arco di quattro anni.
    Poteva anche dire 90%, è del tutto indifferente, visto che non c’è in gioco nulla.

    • Nessuno degli economisti che lei ha citato ha mai proposto una uscita unilaterale dall’euro. Alcuni hanno avanzato proposte di dissoluzione controllata. Che ovviamente avrebbero senso economicamente parlando, se non fosse che politicamente richiedono un grado di solidarietà e cooperazione di gran lunga superiore a quello necessario per aggiustare l’euro.

      • Guardi, il libro di Stiglitz è uscito a metà agosto, ma non fa altro che ribadire quello che ha già scritto in diversi articoli e sostiene esattamente l’opposto di quello che riporta lei (se trova un passo che avvalori la sua tesi, ce lo riporti,,,).
        Poi, basta con la storia che tutti questi Premi Nobel non hanno sostenuto uscite unilaterali dalla moneta unica: compito degli economisti non è dare prescrizioni ai Governi.
        Il punto, se vogliamo metterla così, è che nessuno di questi economisti di primissimo piano ha mai detto che un’uscita unilaterale comporta i danni che riportano i vari Lunghini, Bordin (perdita dell’80% del valore dei salari reali) e compagnia. Non dico che hanno ragione, sia chiaro, ci tenevo solo a ricordare che la scienza economica oggi, anno di grazia 2016, sostiene le cose che sostengono i vari Stiglitz, Rodrik, Mankiw, ecc. Può non piacere, ma è così.

  5. Lei ironizza sul “giubileo dei debiti generalizzato”. Se fosse la via d’uscita perché irriderla?
    Davanti alla tragedia del genere umano schiacciato da un sistema iniquo, dall’arricchimento dei ricchi e dall’indebitamento dei poveri, davvero si deve restare ancorati all’accettazione del presente?
    L’economia non è una scienza, è una tecnica che dovrebbe regolare le relazioni umane; se le regole attuali stanno fallendo è lecito cambiare, almeno provarci. Se mi risponde che non è politicamente fattibile, ecco, il problema è che queste regole a qualcuno fanno bene e all’umanità no. Non sarà un problema squisitamente politico? o, come si diceva una volta, di lotta di classe?

    • Non la irrido, ci abbiamo anche scritto molti articoli su Keynes blog! Dico che è illogico aspettarsi una solidarietà di così enormi proporzioni dopo l’uscita dall’euro da parte dei paesi che si sono già dimostrati poco solidali con chi è nell’euro. Un giubileo generalizzato dei debiti sarebbe molto più costoso per i paesi creditori che “aggiustare” l’euro.

  6. Gli economisti non hanno ancora compreso che l’ economia è per un buon 90% teoria dei giochi. L’ uscita unilaterale dall’ euro è impossibile per paesi come Grecia,Italia, Portogallo o Spagna perché al solo sospetto i cittadini dei paesi succitati corrono a liquidare i propri cc bancari creando un Bank run generalizzato e devastante. In Grecia è successo esattamente questo, per mesi la Bce ha continuato a sostituire nei bilanci bancari il denaro in uscita dai cc greci, per tutta la fase delle trattative, poi dopo l’ annuncio del referendum Draghi ha chiuso giustamente i rubinetti e i Greci han trovato i bancomat bloccati istantaneamente! Le cose che evidenziate nell’ articolo sono corrette ma comunque superabili dopo un periodo più o meno lungo di transizione…questa cosa che dico io no, è insuperabile! Per onestà intellettuale bisognerebbe dire che uscire dall’ euro unilateralmente per l’ Italia è impossibile! Ma c’è sempre da guadagnare a rimestare nelle difficoltà della gente, specie se quest’ultima è in conclamato deficit cognitivo, blogs, libri, conferenze, la ciccia è tanta…

  7. l’euro è già morto bisogna solo, empiricamente, prenderne atto: è morto perchè ha esattamente compiuto il corso programmato. Una moneta nata per la deflazione e la svalutazione salariale: le conseguenze che vengono brandite come minacce per i paesi che valutano l’uscita sono eventi già accaduti. Quando un paese come l’Italia, o peggio la Grecia, hanno 8 anni di depressione che seguono 5 0 6 anni di crescita del pil a zero cosa debbono attendersi che gli alieni sgancino 3 o 4 testate nucleari. Quando un paese vede fuggire 120 mila giovani under 35 in un anno e li rimpiazza con 150 mila poveri cristi morti di fame che non parlano la lingua, non hanno istruzione e non hanno nemmeno le scarpe cosa altro deve accadere per capire che l’euro non è la nostra moneta, che l’eurozona non è un’area valutaria ottimale?
    Boh, lei che si professa keyenesiano prof. Iodice e ci dice di aspettare non lo sa che nel lungo periodo saremo tutti morti.
    Cordiali salutii

    • Amico, possono ancora accadere un sacco di cose: per esempio che vai a prelevare un po’ di cash e nessun bancomat nella tua città funziona, questo non è ancora accaduto mi sembra… può accadere che i tassi vanno a più 6 e occorre fare surplus e non deficit, provocando l’ emigrazione non dei giovani, ma dei 50enni con famiglie a seguito, può accadere il default sui titoli di stato e conseguentemente di tutte le banche, tutte queste cose e molte altre ancora non sono accadute finora…non sfidate il destino al peggio non c’è mai fine….

      • io ho proprio l’impressione che continuando con queste politiche liberiste, mantenendo l’euro così come è, andremo verso il peggio. In Grecia forse non abbiamo idea di cosa succede, di come quel paese è ricattato. La Grecia è un paese fallito che non potrà MAI rientrare del debito pubblico (idem per l’Italia), ma le “raccomandazioni” della troika non sono dirette a risolvere la situazione del debito, ma a saccheggiare il paese con privatizzazioni e svendite. In Grecia il processo è accelerato, ma anche qui siamo su quella strada. A Firenze il giglio magico di Renzi sta svendendo oltre 60 immobili di dimensioni enormi, di pregio artistico e culturale; ribadisco s-vendendo, perché gli acquirenti possono permettersi ribassi dei prezzi, mentre la politica del PD è incapace di dare risposte.
        Uscire dall’euro potrà essere un disastro, restarci sarà impossibile.
        Io credo sia sbagliato discutere se restare nell’euro o meno: siccome collasserà sarebbe bene pensare a non far crollare tutto addosso agli ultimi.

      • amico, io ho fatto un esame di economia politica a giurisprudenza al 1^ anno e probabilmente si capisce, ma non ho mai letto che il deficit/pil debba stare sotto il 3%, non ho mai letto che che l’aggiustamento dei conti pubblici si faccia in una fase di rallentamento economico così da scatenare recessione e depressione, non ho mai letto che un paese possa vivere in regime di cambi fissi (euro) con un differenziale di produttività del lavoro qual è quello sussistente tra il club med (francia inclusa) e la Germania: produttività non deriva dallo sfruttamento del lavoratore ma dal capitale cui il lavoratore è addetto, non ho mai letto le cazzate che il debito dello stato sarebbe come il debito di una famiglia e dobbiamo fare i compiti a casa, e soprattutto non ho mai visto la gran cazzata di sperimentare sulla pelle della gente il modello economico della scuola di chicago: la BCE, come da statuto e non le forzature di Draghi, è la implementazione delle teorie di Friedman e quesi sono i risultarti.
        Se lei pensa che questa moneta abbia un futuro di certo un futuro non lo hanno le comunità che subiscono queste scelte politiche e se le scelte politiche non vengono corrette per tempo non oso immaginare tra 10 anni i neofascisti al potere in mezza Europa

    • Amico son d’accordo con te, penso anche lo staff di Keynes Blog sia sostanzialmente d’accordo… cerchiamo soluzioni al delirio che hai evidenziato, l’ uscita unilaterale dall’ euro è da scartare per quel che ho scritto prima, però…con buona pace di Bagnai, Salvini e Marie Le Pen…tutto qui!

  8. […] Né possiamo illuderci di proteggere i salari: anche tra coloro che propongono l’uscita dall’euro c’è chi onestamente non nasconde che i salari reali dovrebbero pagarne il prezzo se si vuole almeno provare ad avvantaggiarsi sul lato della competitività di prezzo, senza contare che saremmo in una situazione nella quale dovremmo cercare di evitare che la nuova moneta nazionale sprofondi sotto la pressione dei mercati, che anticiperebbero ogni tendenza inflattiva con ulteriori svalutazioni. […]

  9. […] fa avevamo parlato dei noeuro di sinistra. Guido Iodice su Keynesblog smonta le loro argomentazioni evidenziando che chi è scettico sulla possibilità di riformare l’eurozona poi crede di poter […]

  10. […] Né possiamo illuderci di proteggere i salari: anche tra coloro che propongono l’uscita dall’euro c’è chi onestamente non nasconde che i salari reali dovrebbero pagarne il prezzo se si vuole almeno provare ad avvantaggiarsi sul lato della competitività di prezzo, senza contare che saremmo in una situazione nella quale dovremmo cercare di evitare che la nuova moneta nazionale sprofondi sotto la pressione dei mercati, che anticiperebbero ogni tendenza inflattiva con ulteriori svalutazioni. […]

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