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Uno stimolo decentralizzato e un nuovo “whatever it takes” per l’Eurozona

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Il comitato scientifico del think tank Progressive Economy ha premiato ieri a Bruxelles il paper “Why further integration is the wrong answer to the EMU’s problems: the case for a decentralised fiscal stimulus” [la versione preliminare è scaricabile da questo link] di Thomas Fazi (eunews.it/oneuro) e Guido Iodice (Keynesblog.com), quale vincitore del Call for Papers 2016 nella categoria “Reforming the Economic and Monetary Union”. L’articolo nella sua versione definitiva verrà pubblicato nel prossimo numero del Journal for a Progressive Economy. Pubblichiamo qui un post, apparso sul blog Econopoly del Sole 24 Ore, che espone in sintesi il contenuto del paper premiato.

Fazie e Iodice sono gli autori del volume “La battaglia contro l’Europa” di recente pubblicazione.

di Guido Iodice e Thomas Fazi

In un precedente articolo pubblicato da Econopoly abbiamo evidenziato la necessità di un doppio canale per rilanciare gli investimenti e la domanda in Europa e, lasciandoci alle spalle la crisi, garantire la stabilità dell’eurozona. Il canale “federale”, dicevamo, consiste in una “unione degli investimenti” guidata dalla Banca europea degli investimenti e dalla BCE. In questo articolo vogliamo invece mettere in rilievo il canale principale, quello nazionale, decentralizzato, ed avanzare l’idea di un nuovo “whatever it takes” necessario per rendere davvero “irrevocabile la moneta unica per tutti e ciascuno dei suoi membri”, per citare il presidente della BCE Mario Draghi.

Uno stimolo fiscale decentralizzato per l’eurozona

Sembrerebbe che stia emergendo un consenso, anche in ambito mainstream, sul fatto che la via d’uscita dalla crisi passa necessariamente per una politica fiscale più espansiva e per un consistente aumento degli investimenti pubblici. Come perseguire tale obiettivo alla luce degli attuali vincoli politici e istituzionali dell’eurozona, però? Come abbiamo sottolineato nel nostro libro “La battaglia contro l’Europa”, le proposte impropriamente definite “federali”, come quella di “superministro del Tesoro” – in realtà un ulteriore controllore dei bilanci nazionali – rappresenterebbero un passo inopportuno e dannoso verso la trasformazione definitiva dell’eurozona in una gabbia basata su un sistema di regole ferree e inflessibili. Non è attraverso le “cessioni di sovranità”, accordate negli ultimi anni all’Unione europea, che l’Unione stessa si potrà consolidare, visto che queste stanno avendo non troppo paradossalmente l’effetto di dividere l’Unione, invece che rafforzarla.

Chi ha a cuore l’Europa, quindi, dovrebbe proporre una ricetta opposta, quella di una cessione di sovranità verso il basso, dall’Unione verso gli Stati. Vale a dire “rinazionalizzare” la politica fiscale, permettendo ai paesi in crisi – in primo luogo quelli della periferia – di far salire il loro deficit pubblico. Questa è la soluzione caldeggiata, tra gli altri, da Richard Koo, capo economista del Nomura Research Institute, noto soprattutto per la sua teoria della balance sheet recession, o ‘recessione da deterioramento dello stato patrimoniale’.

Per balance sheet recession si intende quel fenomeno che si verifica in seguito allo scoppio di una bolla speculativa, quando imprese e privati, avendo accumulato una grande quantità di debiti nel periodo antecedente alla crisi, si concentrano nel riparare la loro situazione patrimoniale danneggiata anziché nel massimizzare i profitti, rifiutando quindi di assumere altro indebitamento per investimenti o spese, anche in presenza di condizioni diventate favorevolissime (tassi zero o addirittura negativi). Questo è esattamente quanto è successo in seguito allo scoppio della crisi dei subprime, sia negli USA che in Europa. Mentre, però, gli Stati Uniti hanno lasciato crescere il loro deficit federale, compensando l’accresciuta propensione al risparmio dei privati, l’Europa è andata nella direzione opposta, esacerbando così la crisi.

Quello che sarebbe necessario fare, pertanto, è accomodare il risparmio desiderato dal settore privato, emettendo temporaneamente più titoli di debito pubblico, ed utilizzare il denaro così ottenuto per realizzare gli investimenti pubblici necessari ad innescare una robusta ripresa. Questo non avrebbe alcun costo per paesi come la Germania, perché in Italia (ma lo stesso vale anche per altri paesi della periferia) la liquidità attualmente inutilizzata del settore privato sarebbe più che sufficiente a finanziare l’incremento del deficit. Il settore privato coglierebbe al volo la possibilità di poter parcheggiare i propri risparmi in titoli di Stato, che rappresentano un investimento sicuro e dal rendimento basso, ma garantito, almeno finché i paesi periferici, come stanno facendo, si opporranno alle discutibili richieste di un tetto al possesso dei titoli di stato da parte delle banche.

Il problema semmai è un altro: assicurarsi che una parte consistente del risparmio di un paese “debole” resti in quel paese anziché finire in bund. La maniera più semplice suggerita da Koo per ottenere questo obiettivo sarebbe di rinazionalizzare il mercato dei titoli di Stato, proibendo ai residenti di un certo Stato membro di acquistare i titoli di debito pubblico di altri Stati. Si tratta evidentemente di una proposta provocatoria, ma serve a dare un’idea del principio che si vuole affermare. Una versione più soft di questa regola consisterebbe nell’assegnare una penalizzazione all’acquisto di titoli esteri per incentivare i residenti a investire in quelli domestici.

Va da sé che la proposta di Koo, sia nella sua versione “hard” che in quella “soft”, si scontra con uno dei pilastri del mercato unico europeo: vale a dire la libertà di movimento dei capitali. A ben vedere, tuttavia, questo principio generale è già stato violato nei casi di Cipro e della Grecia, che hanno introdotto controlli sui movimenti di capitali al fine di non dover abbandonare l’euro. In altri termini, il principio di libertà di movimento assoluta dei capitali si è già dimostrato in contrasto con l’irreversibilità dell’euro “per tutti i suoi membri”. Si tratta quindi di prevedere meccanismi ordinari che permettano di “ammorbidire” i flussi di capitali in entrata e in uscita al fine di stabilizzare la zona euro.

Stabilito l’ammontare del deficit consentito, occorre decidere quale composizione dovrebbe avere. Una regola pratica in tal senso può configurarsi in questo modo: la Commissione europea continua a mantenere gli attuali criteri di sostenibilità delle finanze pubbliche, ma agli Stati è consentito aggiungere al deficit così calcolato una ulteriore quota destinata esclusivamente agli investimenti pubblici o al finanziamento (parzialmente a fondo perduto) di progetti di investimento dei privati, fino al raggiungimento del deficit previsto dal criterio di Koo.

Il motivo per cui occorre privilegiare gli investimenti è che l’esperienza ci ha mostrato che altri deficit rischiano di essere inefficaci se non in parte controproducenti. Una politica di deficit pubblico orientata in prevalenza allo stimolo dei consumi, ad esempio, rischia di aumentare le importazioni piuttosto che aumentare l’output nazionale. È questo probabilmente il caso dell’Italia con il bonus fiscale (i cosiddetti “80 euro”), a partire dal maggio 2014.

La BCE e il nuovo “whatever it takes”

Questa proposta richiede che i titoli di stato siano effettivamente un asset a zero rischi. Di più: in realtà la sopravvivenza dell’euro stesso lo richiede: il fatto che gli spread tra centro e periferia continuino ad essere sostanzialmente maggiori del periodo pre-crisi (pur a fronte di uno stimolo monetario senza precedenti) e che la Grecia (esclusa dal QE e oggetto di un programma di salvataggio) venga ancora considerata dai mercati a rischio di uscita dall’euro, dimostra che l’OMT e il quantitative easing, in quanto misure di emergenza, potrebbero non essere sufficienti a garantire la permanenza di tutti i membri nell’area euro in caso di nuovi shock.

Serve quindi uno strumento permanente che assicuri i mercati circa la “fungibilità della moneta”, sempre per citare Mario Draghi. Poiché i titoli di Stato rappresentano la “materia prima” attraverso la quale la BCE crea moneta e, contemporaneamente, rappresentano l’asset più sicuro su cui le banche possono fare conto, a parte le riserve, i titoli di stato devono essere “garantiti” dalla stessa BCE, così da assicurare la stabilità del sistema finanziario. Questa forma di garanzia è inoltre cruciale in una unione monetaria decentralizzata immaginata in questo articolo, poiché gli Stati devono essere sottratti al giudizio dei mercati circa la loro solvibilità o la loro permanenza nell’unione monetaria. D’altra parte garantire i debiti sovrani significa, in ultima analisi, garantire l’irrevocabilità dell’euro stesso. Questa garanzia può prendere una forma molto semplice, in pieno accordo con il vigente statuto della BCE e i trattati. Essa potrebbe essere annunciata in modo simile al programma OMT:

La Banca centrale europea è stata istituita per assicurare l’esistenza stessa della moneta unica. L’esperienza ha dimostrato che i differenziali tra i tassi di interesse sui debiti sovrani nell’eurozona costituiscono un fattore di frammentazione e di potenziale pericolo di rottura dell’area euro. Pertanto, nell’ambito del suo mandato, la BCE farà tutto quanto è necessario al fine di contenere i differenziali dei tassi di interesse entro i 30 punti base per tutti i membri dell’eurozona.

Un annuncio di questo genere metterebbe al riparo l’eurozona dalla deflagrazione in modo permanente e inoltre ridurrebbe i tassi di interesse a lungo termine più di quanto il QE è riuscito a fare, assicurando così agli Stati membri finanziamenti a basso costo anche dopo la fine del programma di quantitative easing. L’obiettivo di contenimento degli spread (che ipotizziamo a 30 punti base sulla base dei differenziali pre-crisi) non può essere considerata un’agevolazione, né un finanziamento diretto verso gli Stati, almeno non più di quanto lo sia già il quantitative easing. È, semplicemente, una decisione di pura politica monetaria, atta ad eliminare per sempre i rischi di frammentazione dell’area euro.

Si potrebbe sollevare l’obiezione che, in questo modo, la BCE si assumerebbe grossi rischi acquistando titoli di paesi potenzialmente insolventi. Questo è irrilevante per due motivi: in primo luogo, così come accaduto con l’annuncio dell’OMT, è probabile che la BCE non debba mettere effettivamente in atto un ulteriore acquisto di titoli “rischiosi” per ottenere il suo obiettivo. L’annuncio, di per sé, indurrebbe i mercati a portare i tassi di interesse verso il differenziale di 30 punti base. In secondo luogo, la BCE non può fallire; come sottolinea un recente rapporto della stessa BCE:

Le banche centrali sono protette dall’insolvenza grazie alla loro capacità di emettere moneta, il che significa che possono anche operare con capitale negativo.

A ben vedere la BCE ha un solo modo per fallire: lasciare che un paese esca dall’euro innescando un effetto domino che distruggerebbe la moneta unica.

 

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17 commenti su “Uno stimolo decentralizzato e un nuovo “whatever it takes” per l’Eurozona

  1. […] via Uno stimolo decentralizzato e un nuovo “whatever it takes” per l’Eurozona — Keynes blog […]

  2. la proposta è interessante e si aggiunge ad altre iniziative. ricordo che P. Leon, S. Ferrari, D. Palma e il sottoscritto hanno realizzato uno studio per conto della cgil che analizzava tutte proposte in campo finanziario ed economico per aggradire il debito pubblico e rilanciare lo sviluppo. Questa proposta si avvicina ad altre e, giustamente, assegna un peso rilevante agli investimenti pubblici. rimane il problema di struttura relativa agli investimenti. Sebbene siano fondamentali nella contabilità nazionale, la capacità dell’offerta di soddisfare siffatta domanda è un problema molto serio; gli investimenti pubblici non sono diversi da quelli privati sul tema, semmai hanno una responsabilità in più per evitare la forbice tra domanda e offerta di investimenti. faccio riferimento al fatto che gli investimenti pubblici dell’Italia, al netto dell’ultimo periodo – scellerato -, non erano poi così distanti della media europea, come quelli privati, ma non per questo il paese ha mostrato andamenti uguali o simili alla media europea. la proposta è molto interessante, ma sarebbe appena il caso di ricordare che i deficit pubblici e/o la maggiore spesa pubblica non solo devono tenere in tensione la domanda effettiva, ma devono anche guidare la ri-specializzazione della base economica del paese. dobbiamo evitare di non “fare i conti senza l’oste” (A. Graziani). quindi proposta molto utile. ma alcune cose le possiamo comunque realizzare anche dentro i criteri (stupidi) europei. per esempio, perché non agganciare questa maggiore o diversa spesa per industrializzare la ricerca pubblica? ricordo anche che il PIL non è mai uguale a se stesso (Sylos Labini), e quindi occorre indagare cosa si nasconde dentro la scatola nera degli investimenti (Rosenberg). comunque complimenti a tutti e due.
    buon lavoro romano

    PS: avrei considerato anche l’analisi di Leon di capitalismo e stato… ma è solo una proposta di lettura utile come quella del vostro libro che, ripeto, ho molto apprezzato.

  3. “Mentre, però, gli Stati Uniti hanno lasciato crescere il loro deficit federale, compensando l’accresciuta propensione al risparmio dei privati, l’Europa è andata nella direzione opposta, esacerbando così la crisi.”………se mi è consentito credo che il problema sia propio questo (ed è tutto un problema politico) gli usa ma per la verita anche l,inghilterra hanno potuto fare politiche espansive propio in virtu del fatto che A) gli usa sono uno stato federale, mentre gli inglesi hanno goduto di vincoli meno stringenti . per cui obbiettivi politici e economici non erano in contrapposizione come nell,area euro. B) credo che se fosse solo un problema di rispetto dei trattati e non una rilevante questione politica, il rispetto dei trattati che prevedono (la libera circolazione dei capitali ) potrebbe essere tranquillamente by passato con l,intervento della bce (per esempio la questione dei differenziali degli spread potrebbero essere considerato una questione interna del sistema bancario ) mentre i bond “nazionali” potrebbero essere offerte al “pubblico” con gli stessi rendimenti in qualsiasi paese dell,area euro, (credo che la bce potrebbe farlo) ma la cosa che mi lascia perplesso è il perche ? i paesi core dovrebbero consintire la raccolta del risparmio si tramuta in investimenti (che se ho capito bene i titoli di stato nazionali dovrebbe essere un collaterale) a garanzia degli investimenti della BEI sotto la supervisione della bce. ora mi chiedo A)questo meccanismo non è molto simile agli eurobond ? B)se continua ancora l,austerita il risparmio privato non finisce per esaurirsi (in virtu anche delle regole stringenti sul BAIL IN, e C) il punto dolente di tutta la questione ,siamo sicuri che in una europa nata per funzionare nel modo che conosciamo e che non ha nessuno interesse a riformarsi nel senso di cedere sovranita verso la periferia (cioè di andare verso i popoli e la democrazie) e che anche agli stati piu sofferenti dell,area euro (pigs per intenderci) gli convenga intraprendere una strada che tutto sommato e un vincolo si economico ,ma che fortissime ripercussioni politiche . ps credo che chi governa l,euro abbia un solo orecchio gli manca l,orecchio delle ragioni altrui e delle sofferenze altrui. comunque l,articolo e ottimo con molto buonsenso

  4. …..è solo matematica, ma basta considerare che il rapporto debito PIL cresce per quegli stati che hanno già questo rapporto > 1 (e in Italia siamo al 132%) se si riducono di una stessa quantità numeratore e denominatore !!!
    È da anni che la UE prescrive di ridurre la spesa pubblica riducendo così sia il debito, ma anche il PIL.
    Forse in Commissione Europea ed in certi ministeri dei Paesi nordici sono forti in Economia, ma evidentemente sono un po’ deboli in matematica

    • “La sopravvivenza dell’Euro richiede che i titoli di Stato siano asset a zero rischi”.
      Garantisce la BCE: li compro io (stampando moneta). A questo punto:

      Per uscire dalla crisi nel 2009 Krugman stimava che agli Usa servisse uno stimolo di 5-600 miliardi di dollari che in rapporto ai rispettivi Pil sarebbero grossomodo, molto a occhio, il 3-4%, ossia 60-80 miliardi di Euro oggi per l’Italia. Poi lo stimolo di Obama e’ stato inferiore a 900 in due anni, ma evidentemente a qualcosa e’ servito.

      L’economia Usa e’ effettivamente meno vincolata all’import-export dell’italiana (oggi 16-13 contro 26-29%), ma anche gli investimenti possono innescare import, non solo i consumi, e l’argomento andrebbe inquadrato nel calcolo dell’effetto moltiplicatore. Obama fu criticato per l’elevata percentuale di riduzione delle tasse inclusa nello stimolo e per lo scarso impatto occupazionale degli investimenti in infrastrutture, come le autostrade (rispetto ai costi dei materiali e macchinari utilizzati: “500 milioni per creare 1 posto di lavoro!”, anche se lui invitava a considerare la filiera, ovviamente).

      Avvicinandoci a Francia e Germania e investendo 80 miliardi di Euro (+10% spesa pubblica) potremmo riavvicinare subito la soglia “psicologica” dell’1.3 (anche se la spesa pubblica non mi pare sia proprio il 50% del PIl, ma comunque ci si avvicina, e tanto ormai tutti lo danno per scontato…, con 160 in due anni di potrebbe scendere sotto l’1,3 – se ho fatto bene i conti…),

      Basterebbe un pochino di decisione: per il 2016 la no tax area Irpef delle pensioni e’ stata ampliata di 50 Euro l’anno, sempre intorno ai 7-8mila, quindi su 10 milioni di pensionati sono 50 milioni gli Euro a cui lo Stato rinuncia (se non sbaglio).Ben si potrebbe, con un sol tratto di penna, spostare il limite verso i 10.000, rinunciare a un qualcosa come 20 miliardi, e dare ai consumi – e agli investimenti nella salute delle famiglie e quindi delle nuove generazioni – grossomodo un quarto di quella “scossa” di cui l’economia avrebbe bisogno per “ripartire”. E gli altri 3/4?

      • Ovviamente, sono 500 milioni, e per la risposta bisogna chiedere a Draghi (“Whatever It Takes”, significa, mi par di capire, “Whatever Mario Draghi Wants”).

      • Sono 500 milioni e 20 miliardi che lo Stato rinuncia a tassare, al 20% circa. Mi scuso per l’imprecisione dell’esemplificazione. Non cambia, tuttavia, la sostanza del ragionamento.

  5. la ue prescrive la riduzione della spesa pubblica. nessuno considera i costi morti e l’inneficienza ue sia da mostro mangia diritti e spese da incompetenti? la ricerca operativa fatela fare alle nonne e alle zie, non sapranno il termine esatto coniato da spreca soldi e intelligenza, sicuramente hanno i piedi per terra e l’intelligenza nella piccola testolina che farebbe rabbrividire di vergogna regole matematiche non scritte dagli uomini che sembrano dei tacchini mangia ortiche, ma dalla natura che le ortiche le hanno create, non da ingozzare i tacchini, ma per altri scopi.

  6. […] Il prof. Rodolfo Signorino, docente di Economia presso l’Università di Palermo, ci ha inviato questo articolo in cui avanza alcune critiche al paper di Thomas Fazi e Guido Iodice “Why further integration is the wrong answer to the EMU’s problems: the case for a decentralised fiscal stimulus”, regentemente premiato dal think tank Progressive Economy di cui abbiamo già parlato. […]

  7. […] follows is the speech given by Guido Iodice at the awards cerimony. [Per i lettori italiani: qui un articolo che illustra il paper di cui parla questo […]

  8. Mi piacerebbe leggere il vostro “La battaglia contro l’Europa”, ma non sono molto esperto di economia. Ho trovato questo post impegnativo, ma accessibile. Il libro è su questo livello o più per addetti ai lavori? Grazie.

  9. […] per lo stato italiano – quello che manca oggi all’Europa, si legga per esempio questo articolo) – e, soprattutto, veniva fissato praticamente un prezzo per i titoli di stato italiani. Del […]

  10. […] del leader greco). Una possibile risposta sul piano economico è invece quella contenuta nel paper “Why Further Integration is the Wrong Answer to the EMU’s Problems: the Case for a […]

  11. […] del leader greco). Una possibile risposta sul piano economico è invece quella contenuta nel paper “Why Further Integration is the Wrong Answer to the EMU’s Problems: the Case for a Decentralised […]

  12. Peccato che in un’unione monetaria aumenterebbe squilibri in partite correnti

  13. […] Al referendum, la maggioranza degli italiani vota a favore dell’euro e viene messo in piedi un enorme piano internazionale di salvataggio dell’Italia e delle sue istituzioni finanziarie, ma ci vorranno anni per sanare i danni provocati dall’aver messo in discussione la moneta unica europea. A tutti torna in mente il monito di Mario Draghi che l’euro è una costruzione irreversibile, dalla quale non si può tornare indietro. Morale: se non esiste alcun modo ordinato per uscire dall’euro, cerchiamo di farlo funzionare meglio. […]

  14. Il referendum si doveva fare per decidere l’introduzione dell’euro: se si fosse fatto – come confermarono le ricerche di opinione a suo tempo – i cittadini tedeschi l’avrebbero rifiutato (e sono gli unici ad averci guadagnato, almeno i benestanti salvo i milioni di precari e sottopagati creati dalle riforme Schröder). A favore sarebbero stati invece i cittaidni dei Paesi mediterranei: qui il paradosso, con un referendum nel 2000 l’euro non sarebbe stato introdotto (no tedesco) e si sarebbero salvati i Paesi mediterranei mentre il capitale tedesco non avrebbe avuto la crescita che conosciamo (e con la quale ha gerarchizzato il dominio sulle economie del resto d’Europa. Ironia della storia e amara lezione, nelle moderne società le decisioni in materia economica o sono prese in modo democratico e conducono a risultati opposti a quelli voluti, o sono presi dall’alto e conducono a risultati comunque tragici. La soluzione non è difficile: le scelte non devono mai essere poste come decisioni definitive ed irreversibili ma devono prevedere un’autocorrezione. Cosí lavorano le scienze naturali e le loro appicazioni pratiche: per un nuovo modello di auto si costruisce un prototipo e lo si collauda, i penzzi che non funzionano si modificano e nel caso estremo si cambia l’intero progetto. Non cosí in economia politica accademica o mainstream: si teorizza uno scenario e si decide, e se la realtà dimostra che non funziona … la colpa è della realtà che non segue la teoria.

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