Avanti ma con il freno tirato. E’ questa la fotografia dell’Italia che l’Istat con il suo recente Rapporto sulla competitività dei settori produttivi (marzo 2017) ci consegna all’indomani dei primi segnali di ripresa dalla lunga fase di recessione economica.
L’approfondita e articolata analisi elaborata dal nostro Istituto di statistica non si limita infatti a cogliere i miglioramenti di natura congiunturale intervenuti nel sistema produttivo nazionale, ma passa attentamente al vaglio i nodi che ne condizionano lo sviluppo e dunque l’effettiva capacità di tirar fuori dalle secche l’economia del Paese. E lo fa partendo da lontano e ricordando, innanzitutto, che la crescita del nostro sistema economico sta perdendo colpi ormai da un ventennio e che il divario rispetto agli altri maggiori paesi europei dell’area euro (Francia, Germania, Spagna) si è “ampliato notevolmente a partire dalla grande recessione 2008-2013”. La stessa ripresa è arrivata al rallentatore e solo nel 2015 si può registrare una sia pur timida crescita del Pil. Se poi i riflettori vengono puntati sulla dinamica della domanda estera – la sola che nell’ultimo periodo 2011-2014 di maggior recessione ha potuto esercitare un ruolo di traino (p.63) – e sulla capacità del sistema produttivo nazionale di intercettarla, la faccenda si complica ulteriormente. Le imprese esportatrici italiane sono infatti poco meno del 6 % del totale e sebbene continuino a rappresentare (specialmente superata la fase del “trade collapse” seguito allo scoppio della crisi) la parte più vitale e selezionata del tessuto industriale, ciò non è bastato a sostenere la competitività complessiva e lo slancio per l’avvio di una fase realmente espansiva. “La quota dell’Italia sul valore delle esportazioni mondiali è diminuita dal 4 per cento del 2001 al 3,4 per cento nel 2008, attestandosi al 2,8 per cento nel 2015; contestualmente l’Italia è passata da sesto a decimo paese esportatore” – ci informa l’Istat – aggiungendo che “La caduta dell’export italiano nel 2008-2009 è stata la più ampia dell’UE28 e il successivo recupero meno rapido” e sottolineando che “negli anni 2009-2013 la performance comparata dell’export è stata debole in quasi tutte le categorie merceologiche […] Le difficoltà delle imprese italiane nel competere sui mercati internazionali sono particolarmente evidenti per le produzioni tradizionali del Made in Italy, nelle filiere del mangiare-vestire abitare, in un periodo caratterizzato da una crescita della domanda estera per questi prodotti a quella media delle importazioni mondiali”.
Tutto ciò a fronte di un complessivo recupero di competitività che ha fatto leva sul prezzo e che “in Spagna come in Italia, è derivato da una onerosa svalutazione interna e da interventi specifici sul costo del lavoro” mentre un “elemento di debolezza si osserva […] nell’export di servizi, soprattutto negli ambiti a maggior contenuto di conoscenza e complessità, che negli anni più recenti hanno guadagnato rapidamente di importanza negli scambi internazionali”. Ulteriori approfondimenti condotti sulla struttura dell’intero tessuto produttivo manifatturiero confermano inoltre “come le imprese manifatturiere italiane che svolgono attività di export dipendano ancora in misura consistente dalla domanda interna”. Il mercato interno continua così a rimanere di fondamentale importanza tanto per le imprese non esportatrici quanto per quelle esportatrici, ma è chiaramente ancora troppo depresso per rappresentare uno sbocco significativo della produzione. Ma c’è di più. Se infatti si considera il periodo più recente con la (sia pur modesta) fase di ripresa avviatasi nel 2015, si osserva una notevole crescita delle importazioni. Questo ha portato ad un peggioramento del surplus manifatturiero, mentre il saldo commerciale complessivo si è ulteriormente ampliato in quanto ha potuto beneficiare della riduzione dei prezzi delle materie prime. E il dato ancor più rilevante è che se, lungo tutto il periodo 2008-2015, il contributo della domanda estera al netto delle importazioni alla crescita annua del Pil è stato in media di circa 0,4 punti, con l’avvio della ripresa il segno è diventato negativo.
Lungo quale sentiero potrà dunque avviarsi il recupero della nostra economia? Assumere a riferimento un obiettivo di recupero di competitività dal lato del prezzo (e dunque dal lato di tutti i fattori che lo consentono, incluse svalutazioni del cambio e/o compressioni del costo del lavoro) non è evidentemente sufficiente. Non lo è perché non è la competitività di prezzo il fattore vincente, e non lo è perché se – come le ultime evidenze mostrano – il sistema produttivo italiano è fortemente dipendente dalle importazioni, il minimo accenno di crescita arriva a scontrarsi con il muro del vincolo estero. Si potrà continuare a discutere quanto si vuole delle “magnifiche sorti e progressive” della diminuzione del costo del lavoro e delle virtù taumaturgiche del cambio flessibile, ma intanto il mondo sarà andato avanti, dando spazio a produzioni sempre più innovative, e la dura realtà non esiterà a presentarci il conto.
Indubbiamente, l’assetto produttivo dell’Italia ha dei punti deboli (dimensione delle imprese, scarsi investimenti in R&S, prodotti a basso valore aggiunto, diseconomie esterne, in particolare la PA), ma il peggioramento dei suoi fondamentali economici causato dalla crisi economica è dovuto anche alla politica economica imposta dall’UE, che ha discriminato l’Italia rispetto agli altri Paesi.
Per dimostrarlo, è sufficiente riportare (a) le cifre mastodontiche delle manovre correttive varate nella scorsa legislatura: 4/5 dal governo Berlusconi-Tremonti e 1/5 dal governo Monti; e (b) la tabella EUROSTAT relativa al deficit/Pil dei Paesi UE nel periodo 2007-2015.
[a] Riepilogo delle manovre correttive (importi cumulati da inizio legislatura):
– governo Berlusconi-Tremonti 266,3 mld (80,8%);
– governo Monti 63,2 mld (19,2%);
Totale 329,5 mld (100,0%).
LE CIFRE. Le manovre correttive, dopo la crisi greca, sono state: • 2010, DL 78/2010 di 24,9 mld; • 2011 (a parte la legge di stabilità 2011), due del governo Berlusconi-Tremonti (DL 98/2011 e DL 138/2011, 80+60 mld), (con la scopertura di 15 mld, che Tremonti si riprometteva di coprire, la cosiddetta clausola di salvaguardia, con la delega fiscale, – cosa che ha poi dovuto fare Monti – aumentando l’IVA), e una del governo Monti (DL 201/2011, c.d. decreto salva-Italia), che cifra 32 mld “lordi” (10 sono stati “restituiti” in sussidi e incentivi); • 2012, DL 95/2012 di circa 20 mld. Quindi in totale esse assommano, rispettivamente: – Governo Berlusconi: 25+80+60 = tot. 165 mld; – Governo Monti: 22+20 = tot. 42 mld. Se si considerano gli effetti cumulati da inizio legislatura (fonte: “Il Sole 24 ore”), sono: – Governo Berlusconi-Tremonti 266,3 mld; – Governo Monti 63,2 mld. Totale 329,5 mld. Cioè (ed è un calcolo che sa fare anche un bambino), per i sacrifici imposti agli Italiani e gli effetti recessivi Berlusconi batte Monti 4 a 1. Per l’iniquità e le variabili extra-tecnico-contabili (immagine e scandali), è anche peggio.
[b] EUROSTAT – Deficit/Pil
……………..2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
Italia………-1,5…-2,7…-5,3..-4,2…-3,5…-2,9…-2,9.. -3,0..-2,6
Francia…..-2,5…-3,2…-7,2..-6,8…-5,1…-4,8…-4,0..-4,0..-3,5
Spagna…..+2,0..-4,4..-11,0..-9.4..-9,6.-10,4…-6,9..-5,9…-5,1
Gran Br…. -3,0..-5,0..-10,7..-9,6..-7,7…-8,3…-5,6..-5,6…-4,4
Germania +0,2..-0,2….-3,2..-4,2..-1,0…-0,1…-0,1..+0,3..+0,7
http://ec.europa.eu/eurostat/tgm/table.do?tab=table&plugin=1&language=en&pcode=teina200
Per altre osservazioni connesse alla politica economica imposta all’Italia dall’UE durante la crisi economica, nonché alla complementare politica monetaria della BCE, rinvio a questo mio precedente, lungo commento:
https://keynesblog.com/2016/12/10/neppure-i-noeuro-sanno-come-uscire-dalleuro/#comment-52923