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La politica economica al tempo della crisi: da Keynes alla controrivoluzione monetarista e (non) ritorno

di Amedeo Di Maio e Ugo Marani

Il lavoro che segue costituisce uno stralcio dell’Introduzione al volume Politiche economiche e crisi internazionale. Uno sguardo sull’Europa, curato da Amedeo Di Maio e Ugo Marani con contributi di Paul De Grauwe, Amedeo Di Maio, Pasquale Foresti, Guglielmo Forges Davanzati, Nicolò Giangrande, Ernesto Longobardi, Antonio Lopes, Ugo Marani e Antonio Pedone, per i tipi di L’Asino d’Oro edizioni, di prossima pubblicazione.

«Torneranno» disse. «La vergogna ha la memoria debole».
– Gabriel Garcia Márquez, La mala ora

Il volume che introduciamo ha come oggetto la politica economica al tempo della crisi; un oggetto inteso in un duplice senso. Da un lato esso ambisce a un esercizio di statica comparata: quanto è cambiato, e in che cosa l’indirizzo di policy, rispetto alla fase che ha preceduto lo scatenarsi della tempesta, prima finanziaria e poi reale. Dall’altro si pone l’interrogativo se le nuove impostazioni si stiano palesando efficaci nel gestire le nuove problematiche che esse affrontano. Con riferimento al primo quesito, il mutamento nell’indirizzo di policy, nelle sue linee generali ed estremamente qui sintetizzate, può essere compreso solo se si risale ai cambiamenti, striscianti e graduali, dei riferimenti teorici, iniziati negli anni settanta del secolo scorso. Infatti, è proprio in quegli anni che la politica economica si allontana progressivamente dalla impostazione cosiddetta keynesiana, ma comunque fortemente viziata dai forti retaggi della teoria liberista tradizionale.

Il primo effetto è consistito nell’abbandono definitivo dei tentativi di armonizzare la politica monetaria con quella fiscale, nel senso di rendere compatibile la stabilizzazione dei tassi di interesse con le politiche fiscali volte a combattere la disoccupazione che si manifesta nel breve periodo, l’unico che val la pena di considerare quando si cita Keynes al pari modo di un qualsiasi motto attribuito a Oscar Wilde. E’ da qui che inizia la cosiddetta controrivoluzione monetarista, con le sue aspettative adattive, dapprima, razionali successivamente e che ben completano il ritrovato laissez faire desiderato da F.A. Hayek. Con le aspettative adattive si teorizza una capacità di previsione degli accadimenti economici futuri da parte degli individui, basata sulle esperienze osservate in passato sui medesimi accadimenti, mentre le aspettative razionali arrivano ad assumere che gli individui siano capaci di utilizzare sempre e comunque in modo efficiente le informazioni che posseggono, fino a individuare strategie che possono annullare gli effetti di politiche economiche attesi e desiderati dal decisore politico.

Si celebra, dall’inizio degli anni Ottanta, l’avvento dell’era della Grande Moderazione, così chiamata perché caratterizzata da basse oscillazioni nel prodotto nazionale e nel tasso di inflazione. Un sostantivo tuttavia impregnato di giudizi di valore che celano, al loro interno, apparenti e molteplici trionfi dell’ortodossia: assenza di conflitti sociali, trascurabili perturbazioni sui prezzi e sulla crescita, un armamentario di politica economica agghindato a scienza. Tutto ciò consente, e non solo agli assertori estremi della scuola delle aspettative razionali, di considerare “superato” il ciclo economico quale dato caratterizzante delle economie di mercato e di dover inaugurare una fase in cui le regole costituiscano il dato saliente della politica economica.

L’impoverimento epistemologico della scienza economica, dovuto all’estremismo nell’assunzione di dette aspettative, è ben e sarcasticamente evidenziato dal famoso politologo Robert Keohane[1]. Egli cita Misura per misura di Shakespeare, proprio per mettere in luce la irragionevolezza di quanti sostengono l’efficace ausilio della teoria delle aspettative razionali alla comprensione della complessità dei processi decisionali umani, individuali e collettivi:

L’uomo, l’arrogante uomo,
investito d’una piccola breve autorità,
più ignorante di ciò
di cui dovrebbe essere più certo,
la sua essenza cristallina,
come irosa bertuccia
dà in smorfie così grottesche al cospetto dell’eccelso cielo,
che gli angeli ne piangono.

W. Shakespeare, Misura per misura, Atto 2, scena 2

È quindi da ritenere che Shakespeare non sia molto gradito ai teorici delle aspettative razionali, anche se la critica all’ipotesi di mercati efficienti, soprattutto quelli finanziari, era da considerare anche solo osservando l’alta variabilità dei prezzi delle azioni; variabilità presente in tempi ancora lontani da quelli della crisi attuale. Soprattutto questa variabilità nei prezzi avrebbe dovuto escludere il suo riflettersi nei mutamenti dei fondamentali dell’economia. Non a caso G. Akerlof e R. Shiller sostengono che “ogni grande crollo del mercato azionario appare inesplicabile… A cambiare è stato praticamente sempre il mercato azionario; i fondamentali invece no” (G. Akerlof – R. Shiller, Animal Spirits, Princeton University Press, 2009). Comunque, gli anni della Grande Moderazione, iniziati a metà degli anni ’80, sono per definizione caratterizzati da bassa variabilità, sia dei tassi di inflazione, sia di quelli di crescita e ciò può aver fatto credere alla giustezza di politiche economiche minimali, soprattutto dal lato della politica fiscale. La politica della Grande Moderazione è tuttavia come la strada maestra, sembra la più sicura ma è anche quella della mediocrità, se conveniamo con Thomas Mann, perché caparbiamente ignora percorsi alternativi.

Con riferimento al secondo quesito che ci siam posti in questo libro, osserviamo che i teorici e gli uomini di affari si sono illusi di vivere il tempo della grande armonia tra mercati reali e finanziari. Ma quei teorici e quegli uomini di affari inconsapevolmente confermavano l’analisi di H. Minsky, secondo la quale nell’epoca della calma piatta, com’è stata quella, almeno apparente, della Grande Moderazione, aumenta la disponibilità all’indebitamento e a concedere credito. Tutto ciò si traduce nella “tendenza a trasformare una situazione fiorente in un boom di investimento speculativo” (H. Minsky, Potrebbe ripetersi?, Einaudi, 1984).

L’evidenza della crisi, con la dimostrazione della sua imprevedibilità, pur puntuale, non demolisce la fede degli economisti ortodossi nella mano invisibile e la politica monetaria da arte si fa scienza. Scienza in un contesto monobiettivo, l’inflation targeting, che dovrebbe annullare l’incertezza nella politica monetaria. Questa assenza di incertezza consente la deregolamentazione dei mercati finanziari. Deregolamentazione che dovrebbe condurre all’efficienza e vincolare il debito pubblico a tendere verso condizioni ritenute di sostenibilità.

In questa logica di mano invisibile o, se si vuole usare un termine più da iniziati, di equilibrio economico generale, in tutti i mercati indicati si determinano prezzi di equilibrio e quindi anche nel mercato n-esimo  (così si definisce il mercato residuale, non esplicitamente considerato e che non può che adattarsi agli equilibri che si sono determinati altrove), ormai quello del lavoro, se non fosse per le sue rigidità derivanti da decisioni esterne ai mercati e/o da eredità normative che resistono al necessario cambiamento. Ne discende che solo la deregolamentazione anche del mercato del lavoro può garantire la stabilizzazione del sistema economico complessivo.

Tutto ciò sembra confermare l’intuizione di K. Polanyi consistente nell’azione politica non semplicemente volta a garantire la supremazia del mercato, ma addirittura essere la causa determinante dell’esistenza del libero mercato, fino a quando, con altrettanta spontaneità la politica ritiene debba porre limiti al laissez faire per via di tensioni sociali causate da quel libero operare del mercato. Il paradosso, è la tesi di Polanyi, è che quei limiti posti al mercato non garantiscono la tenuta della democrazia e conseguentemente, diremmo oggi, la tutela dei diritti umani (K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi 1974). Seguendo la tesi di Polanyi, la fase attuale sembra essere quella della supremazia del mercato. Ciò significa che l’agire dei governi viene regolato da indicatori, reali o pseudo tali, determinati nei vari mercati. Ne discende inevitabilmente la domanda retorica se crescita e piena occupazione possano realmente dipendere da elementi quali la regola di Taylor, attraverso la quale le banche centrali ritengono di poter fissare quel tasso di interesse nominale coincidente con quello reale che conduce all’equilibrio macroeconomico di pieno impiego. Così come crescita e pieno impiego dipenderebbero dal raggiungimento di un prefissato tasso di indebitamento pubblico che influenza lo spread positivo rispetto al più basso dei tassi di interesse sul debito pubblico registrabile in un data comunità sovranazionale. Ancora, ritenere che la globalizzazione conduca a quel tanto desiderato pieno impiego anche attraverso la negoziazione internazionale dei capitali (cross border) con l’ausilio delle banche. Infine, come già richiamato, quella crescita e quel pieno impiego desiderati non possono che raggiungersi attraverso la deregolamentazione del mercato del lavoro. Deregolamentazione che quando diverrà completa, allora non potrà che far intendere la disoccupazione come evento liberamente e volontariamente scelto dal lavoratore e così definitivamente rimuovere le cause che hanno contribuito a sperimentare trent’anni gloriosi.

Non è nostra intenzione discutere in questo testo della crisi e delle sue cause e neanche di quanto il modello economico principale di riferimento le abbia spianato la strada. La nostra domanda è se quel modello sia stato abbandonato o se è possibile prevedere che lo sia nel breve periodo.

Immediatamente dopo l’inizio della crisi economica, è sembrato diffondersi tra gli economisti un we are all keynesians now. È stata tuttavia una illusione di breve periodo perché, fatta eccezione di alcune politiche economiche statunitensi, governi nazionali e istituzioni internazionali sono rientrati nell’ovile di quel che credono il buon pastore e che paradossalmente alcuni di loro definiscono post keynesiano.

Seppur non rientra negli intenti della nostra trattazione, sarebbe interessante analizzare come la Keynesian Resurgence sia durata per così breve tempo [2] o come il ritorno al modello dei principi di austerità e di finanza sana sia stato compatibile con la mole di finanziamenti destinati ai salvataggi bancari (vedi U.Marani, La schizofrenia europea tra salvataggi bancari e austerità fiscale), se non ricorrendo alle caratteristiche di ideologia che l’economia ortodossa ha progressivamente assunto, e dunque “… alle convinzioni e alle idee dei gruppi dominanti, le quali sembrano congiungersi così strettamente agli interessi di una data situazione da escludere qualunque comprensione dei fatti che potrebbero minacciare il loro potere. Con il termine ideologia noi intendiamo così affermare che, in talune condizioni, i fattori inconsci di certi gruppi nascondono lo stato reale della società a sé e agli altri e pertanto esercitano su di esso una funzione conservatrice” (Karl Mannheim, Ideologia e utopia, 1929. Ed. It. Il Mulino, 1957)

Eppure sarebbe bastato riflettere per comprendere come l’economia si muovesse, prima della crisi, su di un sentiero precario costellato da un numero crescente di trilemmi, di una situazione, cioè, in cui, per l’esistenza di fenomeni quasi sempre di carattere internazionale, risulta impossibile, al medesimo tempo, perseguire un obiettivo, utilizzare uno strumento, mantenendo inalterati i vincoli che si pongono all’agire della politica economica. Immiserimento della politica economica e liberalizzazione-deregolamentazione finanziaria sono, dunque, le principali cause efficienti dello scoppio della crisi.

E subito dopo una mutazione che non molti analisti hanno percepito nella sua portata e che ha innescato uno spettro di misure di politica monetaria crescente nel corso del tempo e profondamente diverso da quanto era avvenuto sino al decennio precedente, un pacchetto di misure che tende ad omologarsi verso quelle che sono definite oramai come le “Misure Non Convenzionali di Politica Monetaria”. Un atteggiamento, per certi versi, opposto a quello del periodo pre-crisi: prima l’ambizione era quella di rendere la politica monetaria sempre meno un’Arte, la discrezionalità, e sempre più una Scienza, connotabile per Regole sempre valide. Si trattava del tentativo ambizioso di far assurgere il banchiere centrale a policy maker unico, delegato ad un simile ruolo di responsabilità per la sua indipendenza dalla politica e per l’affermazione di automatismi di comportamento che avrebbero potuto evitare l’arbitrio proprio di atteggiamenti discrezionali. La crisi finanziaria del 2007 arresta questo tentativo di scientificizzare la politica monetaria: la crisi è di una tale gravità che i tradizionali strumenti di intervento si rivelano inefficaci e le banche centrali devono avventurarsi in unchartered waters nelle quali l’armamentario di regole e di automatismi vantati nel passato servono ora a ben poco. Per i banchieri centrali è stato necessario abbandonare la “scienza” e ritornare all’incerto mondo, più che dell’arte, di far da sé in forme inedite e preoccupanti per i principi di accountability e di delega esplicita dei poteri in un ordinamento democratico.

In contemporanea un ruolo sempre più debole della politica fiscale, a riprova della caducità delle confessioni di credo keynesiano che più sopra abbiamo richiamato. Pare indubbio che si siano verificati due evidenti rovesciamenti nell’impostazione teorica e nelle conseguenti politiche fiscale.

Il primo riguarda il ruolo dello stato sociale, un tempo generalmente considerato come valido strumento per evitare, o quantomeno ritardare, l’inevitabile, per alcuni, crollo del capitalismo. Ora, al contrario, lo stato sociale considerato un ostacolo alla crescita economica e quindi alla potenziale diffusione di più alti livelli generalizzati di benessere.

Il secondo rovesciamento riguarda il ribaltamento tra obiettivi e strumenti della politica fiscale. Un tempo, ad esempio, gli obiettivi erano la piena occupazione, la stabilità dei prezzi, l’equilibrio con il resto del mondo, la crescita e per conseguirli si utilizzavano gli strumenti individuati nella spesa pubblica, nella tassazione, nel debito pubblico. Oggi, gli obiettivi sono il pareggio di bilancio, l’assenza di indebitamento pubblico e gli strumenti per conseguirli sono le regole da immettere nel mercato del lavoro, la deregolamentazione nel mercato dei capitali, le privatizzazioni delle imprese pubbliche, ecc.

Questi rovesciamenti sono il frutto di assecondamenti al mercato, à la Polanyi, soprattutto da parte di partiti un tempo naturali sostenitori di politiche keynesiane. I riferimenti più evidenti sono al blairismo sorto nel Regno Unito e all’ordoliberismo tedesco diffusosi attraverso i trattati dell’Unione Europea.

In definitiva, le brevi note che fanno da introduzione ai saggi contenuti nel volume ambiscono a fornire una chiave di lettura della politica economica al tempo (prima e dopo) della crisi: così come essa aveva tentato di ridimensionarsi a pochi precetti universalmente riconosciuti prima, espunti di qualunque riferimenti all’instabilità e alla carenza di domanda effettiva, ha poi cercato di dotarsi di un corredo di strumenti variegato, non convenzionale e immemore di quanto solo poco tempo prima i suoi fautori andavano predicando. Un armamentario caratterizzato da alcune continuità preoccupanti per chi identifica la politica economica in una funzione di utilità sociale in cui il policy maker esprime e rende conto di una gerarchia rivelata di obiettivi finali e delle proprie scelte.

Il primo elemento di preoccupazione è costituito dalla pervicace assenza del ricorso esplicito all’uso della politica fiscale nella sua accezione di strumento anti-ciclico e di compensazione alla carenza della domanda aggregata privata. Non che il finanziamento monetario della spesa sia venuto meno: ne è testimone l’ammontare destinato al finanziamento del Quantitative Easing e degli ingenti trasferimenti di liquidità a istituzioni finanziarie e imprese private. Quel che si ambisce a modellare è una politica fiscale, spesso camuffata di “misura non convenzionale di politica monetaria” senza delegare alla “politica” il compito di doversene occupare.

La rinuncia alla politica fiscale, nella sua accezione più piena e responsabile, si accompagna a una seconda continuità della politica economica all’indomani della crisi: l’assenza di mandati espliciti sulle funzioni, sugli strumenti, sulla discrezionalità che, specie i banchieri centrali, si auto attribuiscono. Non c’è che dire per un’ideologia che i principi di discrezionalità keynesiana aveva equiparato all’arbitrarietà, al sopruso sul mercato.

Come per una rivincita della storia l’arbitrio ritorna: saranno le istituzioni a dover decidere quanto possa protrarsi, poiché: “Designs of purely arbitrary nature cannot be expected to last long.”(Kenzo Tange).

 

Note

[1] Keohane R.O., Rational Choice Theory and International Law, “The Journal of Legal Studios”, 31, 2002, pp. 8307-8315. Citato in Kagan J., Le tre culture, Feltrinelli, Milano, 2013, p.201.

[2] Farrel H. and Quiggin J., Consensus, Dissensus and Economic Ideas: The Rise and Fall of Keynesianism During the Economic, March, 2012.

7 commenti su “La politica economica al tempo della crisi: da Keynes alla controrivoluzione monetarista e (non) ritorno

  1. […] Il volume che introduciamo ha come oggetto la politica economica al tempo della crisi; un oggetto inteso in un duplice senso. …read more […]

  2. 1. Innanzitutto, sorprende l’assenza di commenti ad un articolo che mi pare metta in luce ottimamente alcuni aspetti fondamentali della vicenda economica degli ultimi 30anni.
    E’ quasi superfluo osservare che la questione non è soltanto tecnica, ma anche connessa ai rapporti di forza. Semplificando, in Occidente negli ultimi 30 anni, i rapporti di forza, per varie ragioni, sono mutati a favore del capitale con un effetto diretto sulla distribuzione del reddito (la quota dei salariati è diminuita di una decina di punti) e, pare, sulla dinamica della produttività, oltre che sulla gestione delle crisi economiche.
    Il cosiddetto “trentennio d’oro” (anni ’50-’70 del secolo scorso) è stato l’unico periodo in cui i salari sono cresciuti più dei profitti. Cioè, quel periodo non costituisce una delle tante fluttuazioni delle vicende umane, dei corsi e ricorsi storici; il trentennio d’oro è stato storicamente l’unica eccezione, grazie alla congiunzione di alcuni fattori favorevoli (cfr. Elite neoaristocratica e reazionaria al potere).
    Dallo studio recente di Thomas Piketty (“Capitale nel XXI secolo”), emerge che, a partire dal 1700, l’unico periodo in cui si sia invertito il trend ascendente della concentrazione della ricchezza e del reddito e delle disuguaglianze è stato, nel 1900, quando si sono applicate le teorie di Keynes (deficit spending) [2] e di Beveridge (welfare).[3] Dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica e del comunismo, che fungeva da contraltare e da elemento competitore-dissuasore, il trend si è nuovamente capovolto. Infatti, c’è stata la controffensiva megagalattica dispiegata dai ricchi potenti, egoisti, bulimici e spietati, che teorizzarono, pianificarono ed attuarono l’espugnazione di alcuni capisaldi (le università, i media e la politica, oltre alla magistratura), agevolata dalla scomparsa del comunismo, e con l’ausilio della schiera di UTILI IDIOTI ben retribuiti (docenti universitari, burocrati, giornalisti e maitre à penser) e dei miliardi di UTILI IDIOTI poveri che lo fanno gratis (cfr. il post ivi allegato in calce “Piketty, i ricchi si abbuffano e i poveri annaspano”); nonché della sinistra politica: la famosa Terza Via, che si è risolta in un lasciapassare al credo neoliberista, che ha dominato gli ultimi 30 anni e prodotto lo sconquasso che è sotto gli occhi di tutti. Similmente al vaso di Pandora, ora è difficile – a fronte di una potenza economica-finanziaria-accademica-mediatica di dimensioni stratosferiche concentrata in pochi soggetti bulimici e spietati, capace di condizionare il decisore politico – ripristinare lo status quo ante.

    • Ai ragione vincesko, in italia vale la regola del proprio tornaconto, discorso che si applica con grande ironia alle nostre istituzioni e anche a mass-media che fanno sempre il doppio gioco. Hai ragione Gli idioti siamo noi italiani, che abbiamo poca tenacia e non fissiamo i capi saldi del nostro agire, ci lasciamo condizionare troppo facilmente, pensiamo al successo politico di Silvio Berlusconi grazie alla forza mediatica della sua rete mediaset. Ascoltiamo centinaia di programmi in TV dove i protagonisti sono sempre i politici e spesso quelli dell’opposizione, gente che è da 30 anni al governo, che puntano ai soli consensi elettorali, e non cero al bene degli italiani.
      Chi non ha mai sentito dire a questa …….. gente, come posso vivere con 1000 euro, quando milioni di italiani non percepiscono questa somma se non in qualche mese,
      questo è pura strumentalizzazione della politica. L’austerità è ormai il tocca sano degli italiani, ma prima o poi la storia ci insegna che i privilegi svaniscono, la regola c’è basta applicarla.
      Dovremmo essere un popolo più solidale, al di la delle politiche Keynesiane, ciascuno deve fare la propria parte, fissare i propri ideali e non derogare di questi per puro tornaconto, il mio è un grido di speranza per tutto il popolo italiano, in nome di chi ha lottato per tutto quello che possiamo avere oggi e che avranno le generazione future.
      Un grazie anche a è vince del tuo commento

  3. 2. Politica monetaria della BCE.
    BCE e deflazione
    Ripeto per l’ennesima volta: il compito statutario principale della BCE è la stabilità dei prezzi ( = tasso d’inflazione poco sotto il 2% nel medio periodo). Un tasso d’inflazione sensibilmente inferiore al target (diff.%) attesta che la BCE non ha saputo svolgere il suo compito statutario. Ancor più se si sconfina in deflazione, cioè in territorio negativo, che – come afferma la BCE[1] – esige necessariamente un’opera di prevenzione. Nell’indagarne le cause, direi che occorre accertare se la BCE ha attivato le sue leve monetarie per evitare la deflazione o è stata troppo attendista o perfino inerte.
    Cave peiora
    Prescindendo dalla considerazione che ci poteva andare peggio con un altro al posto di Draghi, dall’analisi delle decisioni durante la crisi, risulta oggettivamente (aumento del tasso di riferimento in piena crisi economica – Trichet -, interventi non convenzionali insufficienti e/o tardivi) che la politica monetaria della BCE è stata inadeguata o inesistente.
    Sostegno alla politica economica
    A questo va aggiunta la sua influenza negativa (vedi la sua lettera del 5/8/2011 al Governo italiano e i vari interventi pubblici con valenza politica) sulle scelte di politica economica degli Stati, che per obbligo statutario deve sostenere: consolidamento fiscale, taglio degli organici e blocco dei salari pubblici, riforme strutturali (lavoro e pensioni, in particolare) con effetti recessivi-deflattivi.
    Conclusione
    Quindi, la BCE o è intervenuta nel modo sbagliato (tasso d’interesse) o è intervenuta in maniera insufficiente (SMP) e sbagliata (contestuale sterilizzazione) o è intervenuta tardi (“whatever it takes”) o troppo tardi (QE) e, dato il ritardo, in maniera insufficiente (Athanasios Orphanides, 2015, v. sua intervista nell’Allegato alla Petizione contro la BCE, aggiornamenti http:// vincesko.blogspot. com/2015/03/allegato-alla-petizione-al-parlamento. html). Ed ha influenzato i decisori politici in senso recessivo, aggravando e prolungando la crisi Mentre una banca centrale, anche al di là della lettera dello statuto, deve avere come stella polare il benessere del popolo (come è scritto nel sito della BoE), che include in primo luogo la difesa dei titoli sovrani dagli attacchi della speculazione finanziaria, che perciò non è una gentile concessione o peggio ancora una moneta di scambio o ancor peggio un’arma di ricatto (vedi governo Berlusconi), ma un obbligo consustanziale al suo ruolo.

    [1] “È perciò più difficile per la politica monetaria contrastare la deflazione che lottare contro l’inflazione”. (pag. 56) La politica monetaria della BCE (2004).
    [2] il risanamento dei conti pubblici in Italia è iniziato nel 2010 (la prima manovra correttiva dopo la crisi della Grecia è stata il DL 78 del 31.5.2010, convertito dalla Legge 122/2010, di 62 mld cumulati) ed è stato mastodontico: nella scorsa legislatura, sono state varate manovre correttive per 330 mld cumulati, 4/5 dal governo Berlusconi, pari a 267 mld cumulati, distribuiti in maniera molto iniqua, e 1/5 dal governo Monti, pari a 63 mld cumulati, ripartiti in modo più equo (vedi IMU, patrimonialina sui depositi, TTF),[**]
    Riepilogo delle manovre correttive (importi cumulati da inizio legislatura):
    – governo Berlusconi-Tremonti 266,3 mld (80,8%);
    – governo Monti 63,2 mld (19,2%);
    Totale 329,5 mld (100,0%).
    per far fronte soprattutto agli accresciuti oneri per interessi passivi, proprio a causa della quasi latitanza della BCE, i cui interventi a favore degli Stati in crisi si sono limitati all’SMP per 209 mld, di cui 99 all’Italia (tra il maggio 2010 e il marzo 2011, la BCE ha acquistato titoli di Stato greci, irlandesi e portoghesi; da agosto 2011 a gennaio 2012, titoli italiani e spagnoli), al famoso e decisivo “whatever it takes” di Draghi del luglio del 2012, che non è costato 1 solo € alla BCE, e agli OMT, mai implementati finora. Solo nel marzo 2015, viene implementato il QE.
    Lettera al Direttore Mario Calabresi

  4. 3. Politica fiscale.
    Citazione1: “Un tempo, ad esempio, gli obiettivi erano la piena occupazione, la stabilità dei prezzi, l’equilibrio con il resto del mondo, la crescita”.
    Citazione2: “ordoliberismo tedesco diffusosi attraverso i trattati dell’Unione Europea”.

    E’, soprattutto, una questione di applicazione e interpretazione dei trattati in vigore (TUE e TFUE, dopo il Trattato di Lisbona), che contemplano gli obiettivi indicati.
    Riporto la conclusione della mia “Replica alla lettera della BCE alla petizione contro la BCE”:

    “E’ agevole notare che, a dispetto dell’impronta ideologicamente connotata in senso ordoliberista dei Trattati UE e contrariamente alla loro interpretazione maistream neo-liberista ostinatamente propalata stravolgendo spesso la lettera e lo spirito delle norme, la lingua, la matematica, la logica e perfino i fatti, la deduzione è arbitraria, non avvalorata da una semplice lettura dell’intero testo del Trattato, in particolare l’art. 3 del TUE, che, in aderenza ai “valori” contenuti nel preambolo della Carta dei Diritti Fondamentali, ribadisce i principi fondamentali del governo dell’Unione Europea, finalizzandolo a due obiettivi prioritari: la piena occupazione e il progresso sociale, essendo la stabilità dei prezzi un mero sub-obiettivo [Art. 3. L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico. L’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri.]; smentita dalle evidenze empiriche dell’ultimo quinquennio; contraddetta dai dati macroeconomici relativi al tasso d’inflazione e al tasso di disoccupazione dell’Eurozona; formalmente corretta per l’Eurosistema ma sostanzialmente fuorviante, poiché è in discussione non la prevalenza e la cogenza dell’obiettivo principale – la stabilità dei prezzi – ma l’obliterazione sistematica da parte della BCE del secondo obiettivo statutario – sostenere le politiche economiche dell’UE – che in deflazione o con inflazione inferiore (sensibilmente) al target, quando i due obiettivi sono assolutamente concordanti e complementari, ha le stesse dignità e cogenza del primo”.
    Replica alla risposta della BCE alla petizione sulla BCE

  5. […] sfiducia sull’efficacia della politica fiscale furono così gettati. Questa, che fu chiamata la controrivoluzione monetarista, fu perseguita ancora più radicalmente da Robert Lucas e dagli economisti della Nuova Scuola […]

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