Molto si è scritto e visto sullo scontro intellettuale tra Keynes e Hayek che, a differenza di quanto sostengono alcuni libri, non ha affatto definito l’economia moderna (i veri avversari/interlocutori di Keynes erano i neoclassici marshalliani, la scuola di teoria economica da cui egli stesso proveniva). Tuttavia il confronto tra le idee dei due economisti rimane interessante anche senza enfatizzarne eccessivamente le conseguenze teoriche e storiche.
Giorgio Lunghini ci offre in questo video un’interessante lezione sui principi fondamentali alla base delle elaborazioni di Hayek e Keynes riguardo la conoscenza, le decisioni e l’incertezza. Lunghini spiega come la visione di Hayek sul tema sia tutt’altro che da rigettare e che le critiche alla “pianificazione centralizzata” sono fondate. Tuttavia l’errore di Hayek sta nel credere che, stanti i difetti della pianificazione, il mercato al contrario sia capace di autoregolarsi.
In una ideale risposta ad Hayek, Keynes mette in rilievo il ruolo dell’incertezza quale ragione fondante dell’impossibilità, per le forze del mercato, di muoversi verso l’equilibrio. Riguardo i fatti economici di un futuro non immediato, dobbiamo semplicemente ammettere che “non sappiamo”.
Da qui nasce l’esigenza di una certa, non piccola, “socializzazione dell’investimento”, al fine di ridurre l’incertezza radicale nel sistema economico, portandolo e mantenendolo vicino all’equilibrio di pieno impiego, superare la tendenza dei privati a concentrarsi sul profitto nel breve periodo, perseguire una migliore distribuzione della ricchezza e dei redditi e combattere così la disoccupazione.
L’ha ribloggato su flaneurkh.
Grazie per la segnalazione video di grande valore e spessore
Rothbard, Murray Newton:
Ogni volta che qualcuno chiede al governo di abbandonare le sue politiche inflazionistiche, economisti e politici dell’establishment avvertono che il risultato non può che essere una grave disoccupazione. Siamo in trappola, dunque, nel gioco tra inflazione e disoccupazione elevata, e veniamo persuasi che dobbiamo dunque accettare un pò di entrambe.
Questa dottrina è la posizione di ripiego dei Keynesiani. In origine, i Keynesiani ci hanno promesso che attraverso la manipolazione e la messa a punto dei deficit e della spesa pubblica, avrebbero potuto portare e ci avrebbero portato prosperità permanente e piena occupazione senza inflazione. Poi, quando l’inflazione è diventata cronica e sempre più grande, hanno cambiato la loro sintonia per mettere in guardia dal presunto compromesso, in modo da indebolire ogni pressione possibile sul governo per fermare la sua creazione inflazionistica di nuova moneta.
La dottrina del compromesso si basa sulla presunta “curva di Phillips”, una curva inventata molti anni fa dall’economista Britannico A.W. Phillips. Phillips correlò gli aumenti del saggio salariale con la disoccupazione, e sostenne che le due cose si muovono in modo inversamente proporzionale: più alto è l’aumento dei salari, più bassa sarà la disoccupazione. Superficialmente, questa è una dottrina particolare, dal momento che viola la logica della teoria del senso comune. La teoria ci dice che più alto è il saggio salariale, maggiore sarà la disoccupazione, e viceversa. Se ognuno domani andasse dal proprio datore di lavoro ed insisterebbe per farsi raddoppiare o triplicare il salario, molti di noi sarebbero subito senza lavoro. Eppure questo risultato bizzarro è stato accettato come un vangelo dall’establishment economica Keynesiana.
Ormai, dovrebbe essere chiaro che questo dato statistico viola i fatti così come la logica. Nel corso degli anni ’50, l’inflazione era solo di circa 1-2% l’anno e la disoccupazione si aggirava intorno al 3 o 4%, mentre in seguito la disoccupazione sarebbe oscillata tra 8 e 11%, e l’inflazione tra il 5 e il 13%. Negli ultimi due o tre decenni, in breve, sia l’inflazione sia la disoccupazione sono aumentate notevolmente e gravemente. Se non altro, abbiamo avuto una curva di Phillips inversa. C’è stato tutt’altro che un compromesso inflazione-disoccupazione
Rothbard e gli altri liberisti continuano a propagandare i loro dogmi mefistofelici. Ci dicono che Keynes ha sbagliato tutto perché non ha saputo tenere nel giusto conto il problema dell’inflazione (come se questa dipendesse solo dalla spesa pubblica e non anche, ad esempio, dalla creazione di moneta bancaria ossia dalla spesa privata, oltre che da altri fattori: negli anni ’70 essa fu soprattutto il contraccolpo delle guerre arabo-israeliane che fecero aumentare i costi alla fonte del greggio). Ma non dicono, con altrettanta insistenza, che dopo quarantanni di neoliberismo, reaganiano e thatcheriano, abbiamo di fronte il deserto deflazionista. In realtà l’uomo per il fatto stesso che vive e produce crea inflazione, sicché un tasso contenuto e ragionevole di inflazione non è la patologia ma la normalità. L’inflazione (non l’iperinflazione) è segno di vitalità di una economia. La deflazione al contrario è il segno del ghiacciamento, di una economia morta. Il liberismo deflazionista è l’ideologia dei banchieri, ossia dei mercanti di crediti e debiti che sono gli unici a temere qualunque perdita di valore, anche modesta, della moneta. Per tale genia di strozzini è meglio l’avvitamento nella disoccupazione di massa che mettere in discussione il dogma dell’austerità. Gli economisti liberisti sono al servizio della casta dei banchieri e degli speculatori ed i loro corifei, anche mediatici e interattivi, sono gli utili idioti di questo ceto “nemico dell’umanità”.
Luigi
[…] fallito due volte: nel merito, non cogliendo la complessità e la dimensione di incertezza (nel senso keynesiano) che caratterizza i fatti dell’economia – iscritti in una dimensione sociale e storicamente […]
[…] fallito due volte: nel merito, non cogliendo la complessità e la dimensione di incertezza (nel senso keynesiano) che caratterizza i fatti dell’economia – iscritti in una dimensione sociale e storicamente […]