di Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento
Nell’ultimo Rapporto della commissione europea (ottobre 2013), si legge che, in tutti i Paesi dell’eurozona, è in atto un significativo processo di deindustrializzazione (link), e si auspica che – a seguito dell’attuazione di “riforme strutturali” – si generi un’inversione di rotta tale da portare il tasso di industrializzazione dall’attuale 13% in rapporto al PIL al 20% entro il 2020[1]. L’Italia è, fra i Paesi dell’eurozona, quello maggiormente coinvolto in questo processo.
E’ certamente vero che la deindustrializzazione costituisce l’altra faccia della c.d. finanziarizzazione (ovvero della crescente propensione delle imprese a utilizzare risorse per fini speculativi nei mercati finanziari)2, così come è attestato che il grado di finanziarizzazione delle imprese italiane è notevolmente più basso di quello della gran parte dei Paesi OCSE (v. Salento e Masino, 2013). Ci si trova di fronte a un puzzle che rinvia alla domanda: per quale ragione la deindustrializzazione è più accentuata in Italia a fronte del fatto che le nostre imprese mostrano minore propensione a destinare risorse, per finalità speculative, nei mercati finanziari? In altri termini, se la deindustrializzazione viene fatta dipendere dalla finanziarizzazione, ci si dovrebbe aspettare che laddove il grado di finanziarizzazione è basso, è maggiore l’accumulazione di capitale. Cosa che in Italia non succede.
E’ convinzione diffusa che la deindustrializzazione in Italia dipenda essenzialmente dagli eccessivi oneri burocratici, dall’inefficienza della pubblica amministrazione, dalla presenza della criminalità organizzata, dalla lentezza delle procedure giudiziarie, aggiungendo che questi problemi sono maggiormente accentuati nel Mezzogiorno e che ciò spiegherebbe la sostanziale desertificazione produttiva italiana e, ancor più, delle regioni del Sud. Si tratta di una tesi che, sebbene colga parte del fenomeno, non riesce a dar conto del perché, a fronte del fatto che questi problemi sono strutturali, essi abbiano causato la drammatica caduta degli investimenti – in Italia e nel Mezzogiorno – solo nel corso degli ultimi anni.
Questa tesi è, tuttavia, rilevante dal momento che legittima la presunta necessità di interventi di semplificazione e delle c.d. riforme strutturali: liberalizzazioni e ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, in primo luogo. La logica che è alla base di provvedimenti di liberalizzazioni consiste nella convinzione stando alla quale la concorrenza stimola l’innovazione. E’ bene chiarire che si tratta di una convinzione molto discutibile: i principali flussi di innovazione registratisi negli ultimi decenni (ci si riferisce, in particolare, alle innovazioni nel settore informatico) sono derivati da investimenti effettuati in mercati oligopolistici o monopolistici, spesso – ed è soprattutto il caso degli Stati Uniti – attraverso trasferimenti pubblici al settore militare, nel quale l’attività di ricerca è più intensa. Inoltre, il dogma per il quale tutto ciò che è pubblico è inefficiente sconsiglia l’attuazione di politiche industriali e porta a ritenere efficaci interventi finalizzati a incentivare le “vocazioni naturali” del territorio: turismo e agricoltura, innanzitutto3.
Contrariamente all’opinione dominante, si può affermare che la caduta della produzione industriale dipende essenzialmente da cause che rinviano a scelte di politica economica.
1) La deindustrializzazione italiana, e ancor più meridionale, è in larghissima misura imputabile alle politiche di austerità (e all’assenza di politiche industriali) (link). E’ significativo, a riguardo, il fatto che, diversamente da quanto è accaduto nei principali Paesi dell’eurozona (Francia e Germania in primis), in Italia gli interventi dello Stato a favore delle imprese sono stati significativamente ridotti, più che dimezzandosi nel periodo compreso fra il 2006 e il 2011. Più in generale, come è stato rilevato (link), in Italia le politiche di austerità sono state più intense di quelle attuate in molti altri Paesi dell’eurozona, e perfino più accentuate rispetto a quanto disposto dai Trattati europei. Poiché la gran parte dell’imprenditoria italiana, soprattutto in fasi recessive, sopravvive grazie a sussidi pubblici, la loro riduzione – in regime di crisi – ha ovviamente contribuito a produrre un massiccio incremento del numero di fallimenti o, nella migliore delle ipotesi, un drastico calo dei profitti, soprattutto delle imprese localizzate nelle aree meno sviluppate del Paese, e, a seguire, una rilevante contrazione degli investimenti. Ciò a ragione del fatto che il Mezzogiorno ha una struttura produttiva composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, poco internazionalizzate e con bassa propensione all’innovazione. Poiché si tratta di imprese che operano essenzialmente su mercati locali, la riduzione della spesa pubblica – riducendone i mercati di sbocco – ha ridotto i loro profitti.
2) La deindustrializzazione italiana è anche imputabile alla restrizione del credito e, per quanto riguarda il Mezzogiorno, al razionamento del credito. A riguardo occorre sgombrare il campo da un equivoco. E’ convinzione diffusa che il razionamento del credito dipenda dalla sottocapitalizzazione degli istituti di credito. Si tratta di una convinzione che, per quanto riguarda l’Italia, è falsificata sul piano empirico, dal momento che – come attestato dalla Banca d’Italia – il nostro sistema creditizio è sostanzialmente solido (link). Si può, per contro, sostenere che la restrizione del credito dipende dalla caduta della domanda aggregata, secondo un circolo vizioso che si articola nei seguenti passaggi. La riduzione della spesa pubblica genera riduzione delle dimensioni aziendali e la riduzione delle dimensioni aziendali disincentiva l’erogazione di credito da parte delle banche. A ciò si aggiunge che la riduzione dei profitti, in quanto peggiora le aspettative imprenditoriali, riduce anche la domanda di credito da parte delle imprese (v. Forges Davanzati e Patalano, 2013). E’ ben noto, infatti, che le banche (in particolare le banche italiane), nel decidere se concedere o meno finanziamenti alle imprese, tengono conto delle loro dimensioni, attribuendo a imprese di grandi dimensioni bassa probabilità di fallimento e, per converso, elevata rischiosità per i finanziamenti erogati alle piccole imprese.
In questo scenario, non è sorprendente il fatto che – legittimata dalla “teoria del ritorno alla terra” – l’economia italiana stia regredendo a un’economia agricola, prefigurando un futuro pre-industriale.
Note
[1] Si stima, a riguardo, che, la numerosità di fallimenti aziendali, nell’ultimo triennio, non ha precedenti nella storia dell’economia italiana. Nel corso del primo trimestre del 2013, sono stati avviate circa 3.500 pratiche di fallimento, circa il 12% in più rispetto al 2012. Dal 2009, le aziende italiane fallite sono oltre 45.000. A ciò si può aggiungere che ciò che resta del settore industriale italiano è, in larga misura, di proprietà straniera: si pensi ai casi di Star, Carapelli, Bertolli e Riso Scotti ora di proprietà spagnola, di Gancia di proprietà russa, di Parmalat, Galvani, Locatelli e Invernizzi acquisite da imprese francesi, di LoroPiana, Gucci, Bulgari e Fendi anch’esse francesi, di Baci Perugina e Buitoni, oggi di proprietà Nestlè (Svizzera) e Fiorucci (Spagna).
[2] Il grado di finanziarizzazione viene convenzionalmente quantificato dal rapporto fra attività finanziarie detenute dai residenti in un Paese rispetto al corrispondente valore del PIL degli stessi anni.
[3] Va rilevato che gli studi empirici sull’ipotesi di crescita trainata dal turismo sostanzialmente concordano nel ritenere questa ipotesi suffragata per i Paesi in via di sviluppo. Nel caso di Paesi con tradizione industriale, per contro, si rileva che politiche fortemente orientate a generare una struttura produttiva orientata al turismo sperimentano, di norma, bassi tassi di crescita (http://www.rcfea.org/RePEc/pdf/wp41_09.pdf).
Riferimenti bibliografici
Forges Davanzati, G. and Patalano, R. (2013), Credit supply, credit demand and unemployment. A PostKeynesian-Institutional approach, 17th Conference of the research network Macroeconomics and Macroeconomic Policies (FMM) “The job crisis: causes, cures, constraints” – Berlin.
Salento, A. e Masino, G. (2013). La fabbrica della crisi. Finanziarizzazione delle imprese e declino del lavoro. Roma: Carocci.
Non solo questa deindustrializzazione è causata da fattori endogeni, come la burocrazia, i costi, le tasse eccessive, carenza di credito e austerità, elementi chiave di un’economia ‘vecchia’ che non si è rinnovata con il cambiare dei tempi, ma soprattutto dice Ravi Batra, economista della Southern Methodist University di Dallas, Texas, dalla corruzione amministrativa, politica e governativa. (http://irprout.it/economiapm.htm, tradotto dal sottoscritto).
L’inciucio tra politica e poteri economici forti e deviati, spiegato molto bene nellì’articolo con esempi come l’aumento del prezzo del petrolio. Qui in Italia un parallelo: il legame tra politici e aziende slot machine per non pagare le tasse etc. A scapito dei bisogni e il benessere della popolazione.
A causa dei diversi fattori di fatto oggi vi sono 30.000 aziende italiane delocalizzate in Europa dellì’Est, con circa 1 milione di occupati e pagano le tasse lì. Invece di andarsene avrebbero dovuto lottare in Italia per cambiare le cose.
Questo è anche il momento chiave per modificare il nostro sistema economico da privatistico a collettivo, non statale: l’economia in mano alla gente attraverso la cooperazione coordinata e la politica in mano a persone oneste e capaci…
Un sogno? Forse, ma anche i sogni possono realizzarsi.
Ciao
il motivo maggiore della deindustrializzazione è l’euro, che rende a buon mercato tutto ciò che sta in paesi extra-euro.
Egregio Gino Monte,
E’ una delle maggiori cause. In effetti un grafico della Bundesbank tedesca evidenzia come l’economia tedesca sia cresciuta e quella italiana parallelamente sgonfiata, dal 2001, anno di entrata dell’euro.
Con l’aggiunta che Prodi ha svalutato subito la lira, con la firma per l’ingresso dell’Italia nell’Euro, del 25%-30%.
bonotto,
se vuoi ti sparo un centinaio di grafici… prima della fissazione del cambio di entrata nell’euro la lira fu rivalutata di un 20% (non svalutata) e dopo l’entrata nell’euro, sulla base dello sviluppo dei fondamentali, avrebbe dovuto svalutarsi un altro 25%.
Oddio, allora perché la Germania non ha questo problema? Fammi pensare,…
Forse perché la Germania ha un basso debito pubblico, ha investito su produttività e efficienza, ha leader politici capaci, non demagoghi?
Forse perché la Germania ha tasse non eccessivamente alte sul lavoro, una PA non sprecona, dipendenti pubblici non fannulloni e burocrazia che fa il suo dovere?
blupianeta,
so benissimo che le incrostazioni ideologiche sono dure da intaccare. specie quelle liberiste. comunque:
– la germania NON ha un basso debito pubblico. spagna e irlanda avevano basso debito eppure stanno messe malissimo (adesso mi spieghi come mai… please).
– stanno a pezzi pure paesi come la finlandia (mi spieghi come mai? anche loro kattivi inefficienti semiafricani casta corruzione statali si danno malati?)
– il cuneo fiscale tedesco è MAGGIORE di quello italiano (quindi hai mentito, perchè sei “diversamente informato” o mi volevi prendere per i fondelli?)
– prova a impostare sul motore di ricerca “scandalo siemens… bayer… thyssen… deutsche bank” così vedi la purezza germanica
– l’euro è stato per la germania una svalutazione competitiva ARTIFICIALE, perchè il suo peso è correlato alla media dei pesi delle economie componenti (oh, il concetto è semplice eppure voi liberisti non ci arrivate…); per noi uscirne non sarebbe una svalutazione artificiale ma tornare alla giusta valutazione di mercato (voi liberisti non siete favorevoli al mercato?). la competitività è soprattutto una questione di PREZZI dei tuoi prodotti.
– comunque… continuate così e BUONA GRECIA (io me ne sono scappato da parecchio dall’europa).
Prima ipotesi sostenuta da tutti, anche dai politici italiani, e così si è detto tutto:
La deindustrializzazione è conseguenza della minore competitività dei nostri prodotti.
Problematica generale conseguente:
Come si migliora la competitività?
Varie ricette “liberiste” che si sentono un poco dovunque:
ridurre i salari per aumentare i profitti;
ridurre il cuneo fiscale e agli oneri delle imprese;
ridurre la burocrazia e semplificare le procedure;
ridurre la spesa pubblica, le caste dei privilegiati, la corruzione;
ridurre le pensioni, l’assistenzialismo (leggi: lo stato sociale);
aumentare la flessibilità (leggi la possibilità di licenziare);
ecc… (altri mantra)
Varie ricette “stataliste” simmetriche alle precedenti, che si sentono pure, ma hanno meno presa sui governanti:
aumentare i salari per rilanciare la domanda;
aumentare i controlli contro l’evasione fiscale e l’elusione fiscale;
aumentare l’efficienza delle procedure e i controlli sul rispetto delle regole;
aumentare gli investimenti per rimettere in moto l’economia;
aumentare i redditi di cittadinanza per allargare la platea dei consumatori;
ridurre la disoccupazione;
ecc… (altri mantra)
Sembrerebbe comune dunque un solo punto, anche questo sentito molte volte, addirittura teorizzato da grandi economisti, riconosciuti da entrambe le fazioni: Innovare.
Innovare le produzioni, innovare i prodotti, innovare l’offerta.
Bella parola “Innovare”.
Ma ci si chiede, come si fa a innovare se nessuno investe in formazione?
Le dimensioni delle imprese italiane non ha mai consentito un intervento efficace in proposito, se si trascurano gli incentivi, peraltro occasionali e miserabili, per l’ “innovazione creativa” degli operai ingegnosi alle macchine, solitamente ex artigiani.
La scuola pubblica, l’università e la ricerca statali, sono state, negli ultimi 20 anni, pecore da tosare.
La domanda finale è, dunque:
Chi ci ispirerà l’ “Innovazione”?
Aspettiamo colui che procede dal Padre e dal Figlio nella domenica di Pentecoste?
la competitività si turbina uscendo dall’euro e svalutando.
Questa è una grandissima cagolata….
Sono stata imprenditrice nel Mezzogiorno più di dieci anni fa ed ho volontariamente chiuso non per problemi economici, al contrario la ditta era florida e totalmente autofinanziata, ma perché non ne potevo più di trovarmi ogni giorno a che fare con una burocrazia ,persecutoria ma inefficiente che tanto chiede e poco dà, una concorrenza sleale da parte di imprese con atteggiamenti fiscali deprecabili, una giustizia lenta e poco efficace per cui ancora adesso sono in attesa di un sostanzioso credito…Oggi non auguro alle mie figlie di fare impresa nè di mettersi con un imprenditore ma, se proprio devono, lo facciano fuori dall’Italia e non mi si venga a dire che ci vuole uno sforzo di amor di Patria: cosa ci sta dando questa Patria?
Quanto alla formazione non penso che in Italia sia tanto carente se i nostri “cervelli” hanno successo all’estero. La verità è che “investire in formazione ed innovazione” rischia di diventare un vuoto ritornello che suona come un alibi a giustificazione di coloro che le cose non le vogliono affatto cambiare, a partire dalla struttura dello Stato (v.legge elettorale, bicameralismo perfetto, autodichìa di organi costituzionali che è vòlta solo all’autoconservazione e al mantenimento dei privilegi etc. etc.
Intervengo sulla parte che pare connessa con l’intervento precedente in cui chiedevo come si può avere innovazione senza che si sia investito in formazione.
Per quanto riguarda il resto, direi solo che chiudere una impresa per indignazione morale è molto edificante, ma mal si concilia con le grandi dimensioni, e molto con quelle per le quali, appunto, la formazione non è un problema e meno ancora l’innovazione.
L’argomento che il nostro sistema formativo non è così male per via che “i nostri “cervelli” hanno successo all’estero” era un argomento tanto caro ad Andreotti che, dal canto suo, voleva così difendere l’operato della Democrazia Cristiana negli anni ottanta sulla scuola e l’università, già allora fin troppo rapace. Ma è un argomento fasullo per parecchi motivi. Il primo è che questi “cervelli italiani” in fuga non sono mai stati così tanti, e in numero sono anche inferiori a quelle degli altri paesi sviluppati, si dovrebbero chiamare scambi non fughe. Il secondo è che la scuola italiana non ha nessun merito riguardo alla formazione delle eccellenze, troppo impegnata in altre, pur onorevoli funzioni: servizio sociale di accoglienza e tutele dei minori, sostegno all’handicap, integrazione etnica, argine alla dispersione e al disagio sociale, primo presidio medico e consultorio. La formazione è l’ultima preoccupazione della collettività riguardo alla scuola, ed è già un miracolo se il “cervello” non viene “dissuaso” ma favorito da qualche docente illuminato nella scelta dei libri su cui formarsi da autodidatta. Sulle università sovraffollate e sulla ricerca a costo zero, sorvoliamo.
Tornando all’argomento del post, meglio si sarebbe fatto rispondendo che riguardo alla necessità dell’ “innovazione”, per scongiurare il futuro pre-industriale a questa nazione, conviene solo sperare nello Spirito Santo. Naturalmente a meno che non si abbia la possibilità di andare all’estero.
Trovo che in tutte le analisi di questo genere, la discussione ruoti intorno alla considerazione teorica relativa all’intervento dello Stato, analizzi i pro e i contro, faccia paralleli con l’azione di altri Stati, ma non consideri il punto fondamentale: la qualità generale dello Stato al quale riferiamo l’analisi. Se, per esempio, usiamo il termine Stato per parlare dell’Italia e della Germania, in realtà usiamo la stessa parola per indicare due realtà molto diverse, per cui, senza chiarire questo punto, si rischia di fare discorsi del tutto inadeguati a cogliere la situazione reale. Quali effetti ha prodotto l’intervento dello Stato nella nostra economia e cosa ha prodotto in Germania o in Francia, tanto per dire? E’ questo il punto. Tanti anni fa insegnai in una scuola che, da privata, divenne pubblica, per una serie di circostanze che è superfluo raccontare. Bene, i bidelli passarono, con lo stesso numero di iscritti, da 2 a 19. Tutti erano soddisfatti perché erano aumentati <>. Vorrei vedere se negli altri paesi, più efficienti e meno corrotti, si sono verificati casi simili, che da noi sono la norma, e come sono stati impiegati i fondi utilizzati in settori affini. Vorrei sapere se Keynes sarebbe stato keynesiano in Italia.
Insisto nell’affermare che in Italia non manchi l’offerta formativa, piuttosto è mal raccordata con le esigenze espresse dal mondo del lavoro e stiamo sempre a dirci quanto non funzionino i Centri per l’impiego…e del resto, avendo avuto qualche esperienza di insegnamento, posso dire che dal tempo di Andreotti ad oggi la scuola sia molto cambiata e non necessariamente in peggio.
Sono consapevole ora di dire qualcosa di molto sgradevole ma, in certi casi, aumentare il livello di scolarizzazione significa solo parcheggiare giovani magari non tagliati per lo studio, aumentando il livello delle loro aspettative di un lavoro con i guanti bianchi, salvo poi ritrovarsi a lavare i piatti, con tutto il rispetto, a Londra piuttosto che a Stoccarda. Investiamo sicuramente in ricerca ed innovazione ma non illudiamoci che tutti i giovani “formati” siano in grado di innovare e fare start-up: anche i mediocri hanno diritto di lavorare, non di essere assistiti, e per fare questo c’è bisogno di industrie, di lavori per la bonifica del territorio, per il decoro urbano ed il recupero di zone degradate etc. e qui ci vuole uno Stato che possa spendere onestamente per rimettere in moto la macchina!
Vorrei provare a fare qualche considerazione invitando tutti a non «cristallizarsi» su posizioni preconcette liberiste o anti-liberiste.1) L’adozione dell’euro , così come è stata attuata, lo dicono tutti gli economisti di destra e di sinistra è stata una scelta sbagliata, sopratutto per l’Italia ingabbiata dal cambio fisso2) L’Italia è vero che ha molta corruzione e inefficienza pubblica , ma soprattutto non c’è stata alcuna politica industriale anzi al contrario basti vedere come sono state fatte le privatizzazioni che hanno distrutto valore piuttosto che crearlo3) La globalizzazione è un dato di fatto che in se non è un bene o un male, dipende da come viene gestita. E’ chiaro che con mercati con costi del lavoro più bassi è difficile competere se non hai una strategia per difendere le cose buone che abbiamo, e valorizzare le eccellenze che sono distintive e non facilmente replicabili.4) In un economia complessa e avanzata non si può pensare di ridurre tutto all’intervento dello Stato o alla sola iniziativa privata entrambe sono necessarie per garantire uno sviluppo equilibrato e l’innovazione. In Italia al contrario si è creato un circuito Stato-imprenditori che si è avvantaggiato reciprocamente con scambi di favori che hanno fatto del male al sistema paese.In definitiva se la modalità di selezione delle classi dirigenti , politiche e imprenditoriali , rimane quella degli ultimi 30 anni possiamo solo vedere un ulteriore peggioramento. Ma le classi dirigenti le hanno scelte in parte anche gli Italiani pertanto facciamoci tutti un bell’esame di coscienza
Concordo su quasi tutto ma quanto all’ultima considerazione, di quali italiani parli se per entrare nell’euro non è stato fatto alcun referendum e la legge elettorale blocca le possibili scelte della classe politica e, in qualche misura, anche di quella dirigente?
Semplicemente non vorrei che passasse il concetto autoassolutorio che la colpa è di qualcun’altro, se le cose sono andate in un certo modo nessuno può tirarsi indietro , l’Italia ha una storia democratica molto recente e anche abbastanza travagliata, se non cresciamo come nazione da un punto di vista di “autocontrollo democratico”
, cito Schumpeter, non avremo mai una classe dirigente migliore.