di Nicola Melloni per Keynes blog
Nei giorni scorsi il Fondo Monetario Internazionale (IMF) ha pubblicato uno studio interessante, effettuato da Ostry, Berg e Tsangarides[1], che smentisce in maniera cauta, ma chiara, molti dei luoghi comuni riguardo gli effetti sulla crescita di diseguaglianza e politiche redistributive.
La vulgata corrente è che la diseguaglianza non è necessariamente giusta ed etica, ma efficiente ed addirittura indispensabile per il funzionamento del capitalismo. Gli economisti classici, a partire da Ricardo l’hanno sempre indicata come uno dei motori del capitalismo ed allo stesso tempo come un fattore di instabilità. Per Marx, come per lo stesso Ricardo[2], capitalismo e democrazia erano infatti incompatibili, perché una società democratica avrebbe inevitabilmente spinto per una redistribuzione massiccia di ricchezza e reddito, espropriando i capitalisti e dunque minando le basi del sistema economico.
Con l’avvento del capitalismo democratico, invece, si cominciò a pensare che la diseguaglianza fosse un problema transitorio che si sarebbe risolto naturalmente. La curva di Kuznets[3], a forma di U invertita, ha spiegato per decenni che durante la fase di accumulazione (o modernizzazione) che porta allo sviluppo capitalista, la diseguaglianza sale – da una situazione di povertà generale si passa alle differenziazioni salariali e alla crescita del capitale – ma, una volta raggiunto un certo grado di sviluppo, e con la piena occupazione, i salari salgono e i governi democratici sono spinti ad una generale redistribuzione.
Quanto alla moderna economia marginalista, non ha mai discusso troppo di diseguaglianza, specialmente negli ultimi 30 anni. Come ben spiegato da Branko Milanovic[4], la diseguaglianza economica è un tema politicamente sensibile, e le ricerche in questo campo son sempre state scoraggiate. Ci si rifaceva, dunque, sempre ai classici: la diseguaglianza fa bene alla crescita perché è la sete di ricchezza – e di una vita migliore – a generare il genio e la voglia di investire ed innovare[5]. Dunque, la diseguaglianza è positiva perché crea gli incentivi al lavoro e all’investimento. Questo, naturalmente, ammesso che i detentori del capitale siano quegli imprenditori esaltati da Max Weber[6] e che anche Keynes[7] aveva riconosciuto come motore dello sviluppo economico. Ben diverso sarebbe il caso, per esempio, in cui in più ricchi, invece di rischiare, invece di esser protagonisti di quell’etica protestante che li porta a lavorare sodo e non a godersi i propri beni, decidessero, come il più delle volte avviene, di accumulare ricchezza trasformando le loro operazioni da profit-making a rent-seeking. Un’ipotesi non proprio peregrina ma che viene sostanzialmente ignorata nella teoria economica neo-classica. Che preferisce esercitarsi, invece, sui danni della tassazione e della redistribuzione. Dunque, si dice poco sui meriti della diseguaglianza, ma si studia molto, invece, sui motivi per non ridurla. Le ipotesi sono quelle che ancora si rifanno alla teoria di Okun[8], secondo cui una tassazione maggiore riduce il reddito disponibile, i risparmi e dunque gli investimenti[9] – in sostanza più alte sono le tasse, minore sarà la disponibilità a lavorare o investire. Si tratterebbe, dunque, di un trade-off, in quanto ogni tentativo di ridurre la diseguaglianza porterà a perdite di efficienza. Quel che l’economia neoliberale suggerisce, dunque, è che è meglio una fetta piccola di una torta grande (un’economia diseguale che cresce velocemente) che una fetta un po’ più grande di una torta piccola (un’economia più giusta ma zavorrata dalle tasse e con troppi impedimenti al mercato)
Peccato che ci siano poche prove a corroborare tale tesi, come dimostrato dal recente studio dell’IMF. Non è vero, dicono gli economisti di Washington, che le società più diseguali crescono più velocemente e più a lungo. E’ vero, semmai, il contrario – società egalitarie hanno risultati migliori in termini di crescita – sono dunque più efficienti.
Questo però, di per sé, non sarebbe sufficiente a sostenere la bontà di politiche redistributive: infatti, ci viene detto, la pezza potrebbe essere peggiore del buco, le tasse alte potrebbero nuocere all’attività economica anche più della diseguaglianza. Anche questo, però, è negato dallo studio IMF, che non trova nessuna correlazione significativa – e, nel qual caso, comunque di segno positivo – tra crescita e innalzamento (modesto) delle tasse.
Insomma, il classico trade-off di Okun tra efficienza e diseguaglianza non esiste, i due obiettivi sono compatibili e le società più giuste sono anche quelle che funzionano meglio. Non si tratta di risultati completamente innovativi, ma sono sicuramente significativi. Da un lato, in passato, si era spiegato come certi tipi di redistribuzione, in spesa pubblica produttiva siano indispensabili per migliorare la qualità e la sostenibilità della crescita. In particolare, sanità e, soprattutto, educazione sono indispensabili per accrescere il capitale umano e, dunque, la produttività di un’economia – cosa che bisognerebbe forse ricordare di più in un momento in cui tutti gli stati europei, con l’eccezione della Germania, aumentano le rette universitarie. Inoltre, altri studi avevano illustrato come livelli eccessivi di diseguaglianza possano deprimere la crescita, rifacendosi però sempre a Okun e al classico problema di convivenza tra capitalismo e democrazia: infatti, di fronte ad una divaricazione eccessiva tra ricchi e poveri, il rischio è di creare instabilità politica che potrebbe imporre ad uno stato democratico politiche redistributive e tasse maggiori che ridurrebbero la crescita. Lo studio IMF fa un passo ulteriore: conferma che la diseguaglianza sia negativa per la crescita, ma non a causa della possibile redistribuzione. Lo studio rimane vago sulle spiegazioni dei risultati, ma certo apre un nuovo capitolo nel modo di considerare la distribuzione del reddito.
In fondo, che la diseguaglianza fosse un problema lo si sapeva ormai da diverso tempo. Piketty e Saez[10] e Reich[11], confrontando i dati sulla distribuzione del reddito in America avevano notato come i picchi maggiori di diseguaglianza siano avvenuti subito prima della grandi crisi finanziarie. La spiegazione si rifà, ovviamente a Keynes e al sottoconsumo: essendo il consumo una variabile dipendente del reddito disponibile, più il reddito è concentrato nelle mani di pochi, minore sarà la domanda aggregata, esponendo dunque il sistema economico a possibilità di crisi come nel 1929 e nel 2007. Nei decenni scorsi si era pensato di modificare artificialmente il legame tra reddito e consumo, attraverso il ricorso al credito, ma in realtà il punto è che è stata proprio l’ineguaglianza a generare la bolla speculativa dei subprime[12]. E questo senza neanche contare come la diseguaglianza eccessiva deteriori la qualità della democrazia[13], la trasformi in oligarchia – rovesciando per altro, appunto, la famosa curva di Kuznets – e trasformi la diseguaglianza stessa da fattore economico a fattore politico, autoriproducente grazie al controllo delle istituzioni.
Insomma, non ci sono possibili giustificazioni per il livello di diseguaglianza attuale: non favorisce la crescita, anzi, la rallenta; crea un disequilibrio tra domanda e offerta e contribuisce in maniera decisiva alla creazione di bolle speculative e alla successiva crisi. Al contrario, una politica redistributiva ben fatta aumenta il capitale umano, non influenza negativamente la crescita – smentendo la supposta relazione tra inasprimento fiscale e minori investimenti – e, attraverso una più equa divisione del reddito aumenta i consumi stabilizzando il mercato. Non ci sono davvero più scuse per aspettare.
Nicola Melloni, DPhil, Oxford, è Visiting Lecturer in International Political Economy a London Metropolitan University
NOTE
- Ostry, J., Berg, A., and C. Tsanigrades, Redistribution, Inequality and Growth, IMF Staff Discussion Note, February 2014 [link]
- Ricardo infatti pur favorevole alle elezioni, era contrario al suffragio universale. Il diritto di voto sarebbe dovuto essere esteso solo a coloro che non erano interessati a sovvertire i diritti di proprietà (cioè solo ai borghesi/aristocratici possidenti). Vedi anche: Chua, A., The Paradox of Free Market Democracy: Rethinkign Development Policy, Faculty Scholarship Series. Paper 315. [link]
- vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Kuznets_curve
- Milanovic, B., The Haves and The Have-Nots, Basic Book, 2011
- Lazear E.P. and S. Rosen, Rank Order Tournment and Optimum Labor Contracts, Journal of Political Economy, 89, 5, 1981
- Weber, M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, BUR, 1991 (1905)
- cfr, Keynes, J.M., The economics consequences of peace, Penguin, 1971 (1920), in particolare il seguente passaggio: “In fact, it was precisely the inequality of the distribution of wealth which made possible those vast accumulations of fixed wealth and of capital improvements which distinguished that age from all others. Herein lay, in fact, the main justification of the Capitalist System. If the rich had spent their new wealth on their own enjoyments, the world would long ago have found such a régime intolerable”.
- Okun, A.M., Equality and Efficiency: the Big Trade Off, Washington, Brooking Institution Press, 1975
- Kaldor, N., A Model of Economic Growth, The Economic Journal, 67, 268, 1957
- Picketty, T., and E. Saez, Income Inequality in the United States, 1913-1998, The Quarterly Journal of Economics, 118, 1, 2003
- Reich Robert, After-Shock, Knopf, 2010
- Rajan, R., Fault Lines, How Hidden Fractures sill Threaten the World Economy, Princeton University Press, 2010
- Soci, A., Maccagnan A., and D. Mantovani, Does inequality harm democracy? An empirical investigation on the UK, Draft, 2014
L’ha ribloggato su UN PARERE LEGALE – A LEGAL ADVICEe ha commentato:
FMI.
CAPITALISMO E DEMOCRAZIA
LA NECESSARIA REDISTRIBUZIONE DELLE RISORSE
Curioso che non venga citato Stiglitz il cui ultimo libro “il prezzo dela disegueglianza” è appunto incentrato a dismostarre come sia proprio la diseguaglianza la ragione di fondo della crisi economica e del suo perdurare
Come sempre tonnellate di parole per dire cose di una banalità totale.
Per di più, e questo è grave, dimenticando qualcosa di sostanziale. Perché “una politica redistributiva ben fatta” (concetto che peraltro è ormai dimostratamente un ossimoro) NON è l’unica alternativa né l’unica soluzione.
Il “capitalismo democratico” persegue il medesimo scopo. Lo fa però basandosi non sulla redistribuzione ma sull’adozione di regole adeguate. Il compito dello Stato non dovrebbe essere quello di sostituire le sue inefficienze ed iniquità a quelle dei capitalisti (cosa che vediamo sin troppo chiaramente oggi; o forse si vuole sostenere che il livello di imposizione attuale non sarebbe adeguato a sostenere una profonda redistribuzione dei redditi?) ma quello di scrivere dette regole, monitorando la loro applicazione e la loro efficacia.
carissimo geo,
anche le sue son banalita’ mica da ridere. A meno che non ci dica quali sono queste regole tanto decantate e come queste regole possano sopperire agli squilibri tra domanda e offerta in presenza di redditi concentrati nelle mani di pochi.
saluti
Se guardate meglio vedrete che le megaricchezze appartengono tutte ad imprese e finanzieri collegati allo stato, favoriti da leggi ad hoc, protetti da regole contro la concorrenza. Alimentati dal credito facile delle Banche centrali che hanno il permesso statale di creare denaro dal nulla.
La disciplina dell’oro avrebbe impedito azzardo morale liberista nella finanza e spese a deficit con megaindebitamento degli stati.
Adesso non avremmo forse conosciuto il benessere dei SUV (ironia), ma non ci ritroveremmo noi con le pezze al culo e wall street foraggiata dalla Fed col consenso statale.
Non ci vuole molto a capire che succede se si affida d’autorita’ a qualcuno il permesso di creare moneta e poi si scollega la stessa da qualsiasi asset reale.
Questi anni sono la fine del dollaro fiatmoney.
“Nel nostro tempo è ormai evidente che la ricchezza e un immenso potere sono stati concentrati nelle mani di pochi uomini. Questo potere diventa particolarmente irresistibile se esercitato da coloro i quali, poiché controllano e comandano la moneta, sono anche in grado di gestire il credito e di decidere a chi deve essere assegnato. In questo modo forniscono il sangue vitale all’intero corpo dell’economia. Loro hanno potere sull’intimo del sistema produttivo, così che nessuno può azzardare un respiro contro la loro volontà”
(Papa Pio XI, Quadragesimus Annus 106-9, 1931)
Parla delle banche centrali autorizzate dalla politica e di fiatmoney a corso legale.
Parla di capitalismo clientelare (e corporativo) garantito, favorito e protetto dallo stato.
Non parla di libero mercato e di capitalismo originario. Quello, da quando è nata la Fed, non esiste più. Esiste solo l’interventismo politico con tutti i suoi clientes.
quindi o il papa nel 1931 era diventato anarchico oppurre ci voleva dire che la concentrazione dei capitali nelle mani di pochi con quel che ne consegue (cioe centralizzazione industriali lobby trust monopoli ecc)avrebbero finito per trasformare l,uomo da servo del capitalismo (seppure determinato da un patto sociale) a schiavo del capitalismo,con la conseguente distruzione del patto sociale.da qui in poi qualsiasi discorso puo avere la sua valenza. p.s sono d,accordo che l,attuale sistema cosidetto neoliberista (prende spunto dal libero mercato e dal capitalismo originario)ma non è la stessa cosa, è qualcosa di molto piu porbito, e completamente pianificato e destruttuante, oltre che illogico (nella sua logica).
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la canzone del secolo
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/tiziano-motti-elezioni-europee-singolo-2a3c4d15-4387-420e-a778-53015b79401e.html
[…] non avrebbe potuto funzionare Poi, il Fondo ha affrontato il problema della disparità di reddito, e ha rotto un tabù, ovvero la dicotomia tra equità ed efficienza. Risulta che le società disuguali tendono ad essere […]