Il declino dell’economia italiana ha radici nella repressione della domanda aggregata in atto da oltre due decenni. Il confronto con il resto d’Europa ci assegna il triste primato dell’austerità.
di Stefano Perri, da Economia e Politica
Il dibattito sul declino prima e la crisi poi dell’economia italiana si è focalizzato principalmente sugli elementi “strutturali” dal lato dell’offerta[1]. Generalmente, al contrario, l’andamento negativo della domanda aggregata è considerato come un fattore congiunturale o di breve periodo. Tuttavia, basta guardare i dati senza pregiudizi per capire che la debolezza della crescita della domanda aggregata è stata una costante che per almeno un ventennio ha caratterizzato l’economia italiana. E’ quindi difficile negare che questo sia un vero e proprio elemento strutturale che ha concorso agli effetti così drammatici della crisi attuale. Dal punto di vista teorico ci si può riferire alla legge di Kaldor-Verdoorn. La legge mette in relazione la crescita della produttività del lavoro, la cui debolezza come si sa è uno degli elementi che hanno caratterizzato la nostra economia, con la crescita dell’output, individuando nella crescita dell’output la variabile indipendente. Interpretata dal lato della domanda, la legge afferma che la crescita della produttività è indotta dalla crescita della domanda aggregata[2].
I dati dimostrano chiaramente che dal 1991 ad oggi la crescita della domanda finale aggregata, come mostrato dal grafico 1.a)[3], è molto più debole in Italia rispetto alla media europea e alla Francia e alla Germania per tutto il periodo, anche se il fenomeno si rende ancora più evidente nell’ultimo decennio. Ci sono quindi forti argomenti per sostenere che “il declino” italiano sia determinato anche dal lato della domanda aggregata e dal sostanziale rigetto di qualsiasi politica keynesiana negli ultimi decenni. Inoltre per tutte le componenti della domanda aggregata considerate si registra in generale una performance peggiore dell’Italia rispetto agli altri paesi. In particolare la componente delle esportazioni illustrata nel grafico 1.b) ha un andamento più contenuto rispetto agli altri paesi a partire dal 2000, pur restando vicina a quella della Francia. Questo dato suggerisce che la scarsa crescita della produttività del lavoro sia legata alla contrazione del saggio di crescita delle esportazioni in seguito alla ridotta competitività di prezzo dopo l’adozione dell’Euro.
Il grafico 1.c) mostra l’andamento della domanda domestica. Quest’ultima vede un rallentamento dei saggi di crescita tanto delle spese di consumo finale del governo (1.d) che delle spese di consumo finali private (1.e). In particolare le prime subiscono una brusca decrescita tra il 1992 e il 1995, rallentano nuovamente tra il 2005 e il 2009, per tornare a decrescere negli anni successivi. Indubbiamente il ripetersi di politiche di tagli alla spesa pubblica, pur indotte dall’alto rapporto debito – Pil del nostro paese, contribuiscono ad aggravare il problema della produttività e della crescita, rischiando di generare un circolo vizioso da cui è sempre più difficile uscire[4].
Vista l’importanza assunta dal problema del debito pubblico, conviene riflettere ulteriormente su alcuni dati. Il grafico 2) mostra infatti come l’Italia sia stata in realtà più “virtuosa” della media dei paesi europei, della Germania e della Francia, mostrando negli ultimi venti anni un avanzo primario dello stato al netto degli interessi assai più alto. In particolare in Italia l’avanzo primario raggiunge il suo picco, pari al 6,51% del Pil nel 1997. Solo nel 1991 e nel 2009 il bilancio primario è in disavanzo. Anche nel 2009, peraltro, il disavanzo primario è minore rispetto alla media europea, alla Germania e alla Francia. Per contro, la Germania sperimenta nello stesso periodo un disavanzo primario in 8 anni e la Francia in 18 anni. In Italia la crescita del debito pubblico di questi anni è dovuta esclusivamente al pagamento degli interessi.
Legato all’andamento della spesa pubblica è anche l’andamento dei consumi privati, che sono influenzati nettamente dalle politiche di austerità e che assumono un trend negativo dal 2007 al 2009 e poi di nuovo dal 2011. Si nota anche che la Germania mostra, per la prima metà degli anni 2000, un rallentamento considerevole della domanda domestica, compensato però dall’andamento delle esportazioni.
Le cause della stagnazione dei consumi privati sono molteplici. Qui si sottolineano due aspetti tra loro correlati. Da una parte è cresciuta in questi anni in modo consistente la diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Secondo l’OCSE questo fenomeno è stato, tra i paesi europei, particolarmente accentuato in Italia, che tradizionalmente ha sempre avuto un indice di concentrazione dei redditi più alto dei paesi dell’Europa continentale.
Il Grafico 3 riporta l’andamento dell’ indice Gini in Germania, Francia ed Italia. In Italia le diseguaglianze sono cresciute particolarmente, secondo l’OCSE, nella prima metà degli anni novanta e poi, sia pure in maniera meno accentuata, nella prima metà del primo decennio del nuovo secolo[5].
Molto significativo, in relazione alla scarsa dinamica della domanda dei consumi privati, è poi l’andamento dei salari. Il grafico 4) riporta l’andamento dei salari annui medi, misurati in termini di parità di potere d’acquisto a prezzi costanti in dollari. Come si vede i salari sono rimasti pressoché costanti, essendo variati in termini di potere d’acquisto, solo dell’1,33% in venti anni. Per contro in Francia i salari sono cresciuti nello stesso periodo del 23,07% e nella stessa Germania, con una politica molto rigorosa nel contenere la loro crescita, soprattutto a partire dal nuovo secolo, del 17,78%.
Infine un discorso più complesso riguarda l’andamento della formazione del capitale (grafico 1.f), altra importante componente della domanda finale. In Italia anche l’andamento della formazione del capitale risulta più basso, per tutto il periodo considerato, rispetto alla Francia e alla media europea, mentre risulta superiore a quello della Germania per buona parte del periodo a partire dall’inizio del nuovo secolo, fino al 2009, evidente indizio che non conta solo il volume, ma anche la qualità degli investimenti. Con la crisi, dopo il 2007, questa variabile assume in Italia un andamento drammaticamente decrescente, molto più accentuato rispetto agli altri paesi. Il problema degli investimenti si presenta quindi particolarmente acuto nel nostro paese durante la crisi e l’effetto delle politiche di austerità è quello deprimere gli investimenti, cioè proprio una dei fattori essenziali su cui puntare per uscire dalla crisi. In conclusione i dati sembrano supportare l’ipotesi che una parte considerevole, anche se, a parere di chi scrive, non esaustiva, delle cause delle difficoltà attuali dell’Italia, anche in rapporto agli altri paesi europei, sono legate all’andamento della domanda aggregata. Ad esempio, è difficile negare che una scarsa dinamica della domanda domestica non abbia conseguenze molto negative per le micro imprese, che difficilmente, a differenza delle medie, possono essere orientate all’esportazione. Basti pensare che nella manifattura in Italia, secondo dati Eurostat, prima della crisi era impiegato nelle micro imprese (da 1 a 9 occupati) il 25% dell’occupazione totale del settore, mentre in Germania appena il 6% e in Francia il 12%. Inoltre in ciascuna micro-impresa in Italia sono impiegati in media 2,8 lavoratori. Ignorare questo aspetto significa entrare in una spirale recessiva da cui è onestamente difficile vedere l’uscita.
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[1] Questo contributo è in parte ripreso da un paragrafo di un saggio più ampio scritto insieme a Roberto Lampa.
[2] In particolare le basi della legge sono individuate da Kaldor nella presenza delle economie di scala e del processo di learning by doing, nella rilevanza del processo di specializzazione e di interazione tra le imprese e nell’endogeneità del progresso tecnico incorporato nel capitale. Diverse ricerche empiriche hanno dimostrato la validità della legge di Kaldor-Verdoorn per l’Italia, come per altri paesi. La crisi nella crescita della produttività del lavoro, secondo questa legge, non deve essere tanto ricercata dal lato dell’offerta, nella scarsità del capitale umano, nell’esistenza di distorsioni nei mercati dei beni e dei servizi, nell’eccesso dei costi del lavoro o nel basso livello degli investimenti, ma è causata principalmente dalla crisi di crescita della domanda. Si veda, ad esempio, OFRIA F. (2009), L’approccio Kaldor-Verdoorn: una verifica empirica per il Centro-Nord e il Mezzogiorno d’Italia (anni 1951-2006), Rivista di politica economica, Gennaio-marzo 2009, pp. 179-199, che mette anche in evidenza come le stime empiriche mostrano come le variabili di offerta (il rapporto investimenti-Pil e il tasso di crescita del costo del lavoro) non siano significative, a differenza della legge di Kaldor-Verdoorn, nello spiegare l’andamento della produttività del lavoro.
[3] In questo, come nei grafici seguenti sono riportati i numeri indici delle varie variabili, per rendere più facile il confronto con gli altri paesi.
[4] Lo stesso Olivier Blanchard (O. BLANCHARD, D. LEIGH (2013), Growth Forecasts errors and Fiscal Multipiers, IMF Working Paper Series, Department of Economics, 13/1) ha recentemente preso atto che i moltiplicatori della spesa erano stati ampiamente sottostimati dal FMI. Essi andrebbero quantificati più correttamente tra 0,9 ed 1,7.
[5] Si può poi osservare che secondo l’Eurostat, l’indice GINI ha ripreso a salire in concomitanza con la crisi, negli ultimi anni.
“Questo dato suggerisce che la scarsa crescita della produttività del lavoro sia legata alla contrazione del saggio di crescita delle esportazioni in seguito alla ridotta competitività di prezzo dopo l’adozione dell’Euro”.
Questa frase presenta una serie di non sequitur. La produttivà non mostra correlazione positiva con le esportazioni ovvero le esportazioni possono anche diminuire per molti altri fattori e soprattutto altri fattori non di prezzo. Inoltre é più facile che la produttività determini la crescita delle esportazioni che non il contrario. L’adozione dell’Euro non c’entra nulla..
l’entrata nell’euro centra eccome.. di fatto ha reso le merci tedesche più convenienti rispetto a quelle italiane attraverso una svalutazione dei salari (tedeschi)e la impossibilità di riequilibrare tale scompenso attraverso aggiustamenti del cambio..
No viene il dubbio che le merci tedesche fossero diventate più conevnienti per una maggiore produttività del loro capita ma anche del lavoro nonché per altri fattori non di prezzo? Se anche avessero svalutato i salari saran fatti loro o no?
Le bislacche teorie alla Bagnai fanno presa anche qui?
In realtà sono le “bislacche” teorie di economisti anche di diverso orientamento teorico. E no, non viene il dubbio, perché se fosse come sostiene lei, la Francia dovrebbe avere la bilancia commerciale in attivo, avendo una produttività ben più elevata di quella tedesca.
Infatti proprio perché per la Francia la cosa é andata diversamente vale il mio primo commento ovvero che non c’é eventualmente correlazione e non se ne puo’ nemmeno dedurre che dipenda dall’Euro.
Il resto dell’articolo andava bene più o meno ma non quella frase…
sicuro non dipende dal prezzo. i salari tedeschi sono stati compressi enormemente soprattutto in certi settori (in rapporto alla produttività) ma non è competitività di prezzo. smettiamola perfavore
Ma prima di scrivere leggete i post? Vi sforzate di capire quello che c’è scritto? Se non ci riuscite la prima volta provateci ancora, fatelo due o tre volte, anche quattro o cinque! E quando leggete legge di Verdoorn-Kaldor andate almeno a vedere su Wikipedia, che per quanto faccia schifo almeno vi permetterà di capire di cosa si parla!
Dopo di che eviterete di fare le figure che solitamente fate quando scrivete commenti così come aprite la bocca per darvi aria
Le correlazioni e leggi di cui parlate non sono dimostrate empiricamente per l’Italia né da lavori accademci. Per il semplice fatto che non si possono isolare e separare certi fattori quali l’innovazione tecnologica di proddotto e di processo dai fattori peraltro troppo dinamici della domanda.
Forse la frase non è del tutto chiara per motivi di sintesi e di taglia e incolla. Come si vede dal grafico le esportazioni sono la voce che cresce di più in Italia negli anni 90 che negli altri paesi (soprattutto più della Germania), mentre resta indietro nel decennio successivo. La frase era riferita alla legge Kaldor-Verdoorn: dal duemila anche questa componente della domanda resta indietro e, se la legge è valida, è un’altra causa del rallentamento della produttività del lavoro. Per quanto i fattori che determinano le esportazioni siano complessi, è difficile negare che in Italia non abbiano avuto un ruolo le svalutazioni competitive. Per quanto riguarda la produttività del lavoro, c’è da riflettere che dal 90 al 2000 il PIL reale per persona impiegata, secondo i dati AMECO, è cresciuto del 16,7% in Italia contro il 16,4% in Germania, mentre dal 2001 al 2012 dello 0,54% in Italia e del 6,9% in Germania.
Per quanto la legge Kaldor-Verdoorn possa suggerire intepretazioni interessanti purtroppo non trova conferme nella realtà perché é semplicemente difficile da misurarne isolarne gli effetti.Dire che l’Italia non é competitiva e perduto produttività perché non c’era abbastanza domanda aggregata proveniente dall eseportazioni é una forzatura fatta da chi ora si vuole scagliare contro Euro e Germania…
Un modesto contributo
Come influire sulla Domanda aggregata =
(la domanda di beni e servizi formulata da un sistema economico nel suo complesso)
Consumi + Investimenti + (Export +/– Import) + Spesa Governativa
Consumi ( per aumentare i consumi possiamo diminuire le tasse, favorire chi ha maggiore propensione al consumo, abbassando il carico fiscale sui lavoratori e sul ceto medio.)
Investimenti (per aumentare gli investimenti possiamo diminuire il tasso di interesse sui prestiti)
E’ per questo che in genere le Banche centrali, in periodi di bassa crescita, riducono il tasso di interesse in modo tale che le banche possano a loro volta diminuire gli interessi per i clienti
Export – Import (come possiamo competere con il Settore Estero?
In economia esistono solo due leve:
1. Agire sul tasso di cambio della valuta (svalutazione competitiva);
2. Agire sui costi di produzione
A questo punto dobbiamo chiederci:
possiamo noi agire sul tasso di cambio della LORO moneta?
NO, non possiamo
Quindi non ci resta che utilizzare la seconda leva, dobbiamo agire sui costi di produzione, cioè deve essere ridotto il costo del LAVORO (stipendi e salari) che è uno dei costi di produzione ovvero se non vogliamo diventare poveri lavoratori
(distruggere la ns ricchezza)
QUAL E’ LA MORALE DELLA FAVOLA?
Essendo sempre valida la seguente uguaglianza:
Saldo Pubblico Nazionale + Saldo Privato Nazionale + Saldo Estero = 0
Se il Settore Pubblico è costretto al pareggio, il Settore Privato (cioè noi cittadini e imprese)
se non vuole distruggere la sua ricchezza è OBBLIGATO a competere con il Settore Estero,
ovvero le Esportazioni devono risultare maggiori delle Importazioni.
Morale: SE NON VUOI DIVENTARE POVERO DEVI DIVENTARE UN POVERO SCHIAVO.
Serve agire quindi sul parametro: spesa governativa.
Spesa Governativa (investire in assetto territorio,energie verdi,infrastrutture,scuola,ricerca, sociale,ecc.ecc.)
Che diventa volano della crescita con effetto
M o l t i p l i c a t o r e
Recuperando
SOVRANITA’ MONETARIA
assumendo come obiettivo vincolante la riduzione del peso del debito pubblico attraverso la crescita guidata dalla domanda interna e non attraverso i “sacrifici
Si torna all’inizio del foglio
Applausi!..
Bravissimo!
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[…] di Maastricht, quasi che si stesse parlando di buchi di banche private, sta oramai emergendo dopo vent’anni di navigazione silenziosa. Da quando, cioè, nella nostra storia recente non è stato più […]
W sabinomaurelli . sabinomaurelli for next president :-)
[…] nostra produttività, ma chiediamoci anche se la sua stagnazione non dipenda, per lo meno in parte, dalla scarsa domanda interna (depressa da salari reali stagnanti e tasse altissime, al fine di accumulare avanzi primari per […]
[…] Questo ovviamente non permetto di aumentare alle persone di acquistare prodotti anche necessari, i…. […]
[…] sul piano empirico, la produttività del lavoro si riduce al ridursi della domanda aggregata (link). Si badi che si tratta di un fenomeno di lungo periodo, che comincia a manifestarsi già a […]
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[…] sul piano empirico, la produttività del lavoro si riduce al ridursi della domanda aggregata (link). Si badi che si tratta di un fenomeno di lungo periodo, che comincia a manifestarsi già a partire […]
[…] Ho già espresso in questa sede le mie opinioni sulla domanda: si veda l’articolo Bassa domanda e declino italiano, in questa rivista. [2] Si noti che l’Ameco pubblica tutti i dati anche con le previsioni per i […]
[…] Oxford: Oxford University Press, 1993. Per un’applicazione al caso italiano si rinvia a S.Perri, Bassa domanda e declino italiano, “EconomiaePolitica”, 4 aprile 2013.Fonte: […]
[…] Oxford: Oxford University Press, 1993. Per un’applicazione al caso italiano si rinvia a S.Perri, Bassa domanda e declino italiano, “EconomiaePolitica”, 4 aprile […]
[…] di apparati mainstream, a partire dalla Total Factor Productivity, il risultato ricalca la nota legge di Verdoorn, la quale asserisce che vi è una relazione tra crescita dell’output e produttività. La […]