di Stefano Perri da Economia e Politica
La debolezza dell’economia italiana, resa evidente dalla crisi globale, ha radici lontane e richiede una attenta riflessione sia sull’andamento della domanda aggregata sia sulle caratteristiche strutturali del nostro sistema economico. Come le due lame della forbice di Marshall, anche dal punto di vista macroeconomico questi due aspetti sono interdipendenti: quello che accade alla domanda aggregata influenza le caratteristiche strutturali e viceversa. Qui mi concentro sugli aspetti strutturali[1], legandoli però alla distribuzione del reddito; in quanto segue confronterò i dati stilizzati della nostra economia con quelli della Francia, della Germania, della media dell’area euro a 12 paesi e degli Stati Uniti, questi ultimi considerati come pietra di paragone per le performance dell’economia dei paesi europei.
I primi dati da analizzare a questo proposito sono le variazioni della quota dei salari sul reddito. La quota tiene conto degli oneri sociali a carico dei datori di lavoro e del compenso attribuito al lavoro autonomo[2]. Come si vede tutti i paesi considerati hanno sperimentato un andamento prevalentemente negativo della quota dei salari, considerando l’intero periodo. Il dato dell’Italia è però veramente impressionante. La caduta della quota si concentra nell’ultimo decennio del secolo scorso ed è molto più forte che negli altri paesi[3]. Tra il 1991 e il 2000 essa è scesa di 8,82 punti percentuali in Italia, mentre è scesa di 3,23 punti nell’area Euro a 12, di 1,08 punti in Germania, di 2,15 punti in Francia ed è salita di 0,3 punti negli USA[4].
Si può immaginare che una tale caduta della quota dei salari abbia comportato in Italia nell’ultimo decennio del ‘900 una crescita dei profitti superiore che negli altri paesi europei. La figura 2 riporta l’andamento dei numeri indice del “net operating surplus”[5] deflazionato ai prezzi del 2005.
Questo indicatore ha avuto in Italia un andamento fortemente crescente nell’ultimo decennio del secolo scorso, per poi mostrare un andamento nettamente decrescente anche in confronto con gli altri paesi.
La crescita dei profitti in Italia negli anni ‘90 non è stata accompagnata da una crescita proporzionale dell’accumulazione del capitale[6]; in altri termini non si è verificato nel periodo un adeguato flusso di investimenti. Infatti le aspettative di alti profitti sono state alimentate dai mutamenti distributivi e non hanno stimolato investimenti innovativi, in grado di far crescere la produttività del lavoro, come vediamo qui di seguito. Come illustrato dalla tabella 1), il tasso di accumulazione del capitale in Italia è, nel primo quinquennio, minore rispetto a quello di tutti gli altri paesi e cresce modestamente nei due periodi successivi. Nel secondo decennio il tasso di accumulazione italiano diviene superiore a quello della Germania[7], ma resta inferiore a quello degli altri paesi. La realtà dunque è che nel periodo tra il 1991 e il 2013 il tasso di accumulazione del capitale italiano è il più basso tra quelli considerati.
E’ utile ragionare su due determinanti fondamentali (tabella 2) per spiegare quanto accaduto: la produttività (apparente, secondo la definizione Eurostat) del lavoro, cioè il PIL a prezzi costanti per ora lavorata, e il salario a prezzi costanti per ora lavorata[9] (comprensivo degli oneri a carico dei datori di lavoro).
In Italia la crescita della produttività oraria del lavoro è molto alta nel quinquennio 1991-1995, decresce e diviene più bassa di quella degli altri paesi nel quinquennio successivo, è stagnante nel primo quinquennio del 2000 e addirittura negativa nel quinquennio successivo, segnato dallo scoppio crisi economica. Per contro l’Italia sperimenta una bassa crescita dei salari reali per ora di lavoro in rapporto agli altri paesi nel primo quinquennio in esame. Nel secondo quinquennio la variazione dei salari reali diviene addirittura negativa. Viceversa il salario reale per ora di lavoro torna a crescere nel terzo e nel quarto quinquennio, con una percentuale, sia pure modesta, superiore a quella della media dei paesi europei. Come è evidente, la modesta crescita degli anni 2000 non riesce a compensare neanche lontanamente la stagnazione e la diminuzione degli anni precedenti. Occorre notare, infine, che negli ultimi anni dopo il 2010 la tendenza torna ad essere negativa[10]. Dal 1991 al 2013 i salari a prezzi costanti per ora di lavoro in Italia sono cresciuti del 3,69%, contro una crescita rispettivamente del 36,34% degli Stati Uniti, del 32,85% della Francia, e del 28,53% della Germania. Insomma, l’economia italiana, per dirla con anglosassone understatement, è stata fortemente caratterizzata da una bassa dinamica dei salari reali.
Ancora una volta per capire le ragioni di questi andamenti conviene approfondire l’analisi, guardando alle due componenti della produttività del lavoro, il PIL e le ore lavorate (tabella 3).
L’andamento del PIL in Italia è solo di poco inferiore a quello della Francia e della Germania nel primo quinquennio (bisogna tener conto che il 1993 è un anno di recessione per tutti i paesi europei considerati) e cresce, pur rimanendo consistentemente più basso degli altri paesi, nel quinquennio successivo. Il tasso di variazione diminuisce sostanzialmente nel primo quinquennio del 2000 e diviene negativo nell’ultimo quinquennio preso in esame. Dal 1991 ad oggi il tasso di crescita del PIL nel nostro paese è stato meno della metà di quello degli altri paesi europei.
L’informazione più interessante ci viene però dalla variazione del numero di ore lavorate. Infatti nel quinquennio 1991-1995 esse diminuiscono considerevolmente, più che negli altri paesi europei. E’ evidente che la crescita del PIL in questo periodo è interamente dovuta alla crescita della produttività oraria del lavoro. Ma quest’ultima, a sua volta, è il risultato di un processo di ristrutturazione e razionalizzazione dell’esistente piuttosto che di innovazione. Il periodo in cui la produttività del lavoro cresce in Italia più che negli altri paesi è anche quello in cui le ore lavorate diminuiscono sostanzialmente, cioè un periodo di alta disoccupazione. Nel contempo, come abbiamo visto, i salari reali orari sono praticamente stagnanti, mentre negli altri paesi europei mostrano tassi di crescita significativi.
Il periodo successivo vede un tasso più alto di crescita del PIL rispetto al periodo precedente. Tuttavia, il tasso è molto più basso dalla media dei paesi europei e della Francia, sebbene vicino a quello della Germania, che ancora risente dei problemi dell’unificazione. Contemporaneamente, crescono le ore lavorate e l’occupazione, mentre la crescita della produttività oraria, come già visto, rallenta sostanzialmente, divenendo più bassa rispetto a quella degli altri paesi. Poiché questo è un periodo di grandi innovazioni, il periodo della cosiddetta new economy, al di là degli aspetti speculativi legati alle dot.com, i dati suggeriscono che l’Italia proprio allora abbia mancato un appuntamento fondamentale per il rinnovamento della sua struttura produttiva. La sostanziale diminuzione dei salari reali e l’aumento della produttività del lavoro ottenuta nel periodo precedente di razionalizzazione spingono a puntare sul contenimento dei costi piuttosto che sulle innovazioni che stimolano la produttività del lavoro. Quelli che sembravano fattori favorevoli allo sviluppo si dimostrano ora ostacoli alla crescita seguente. Nel quinquennio successivo questi fattori si aggravano. La crescita della produttività del lavoro si arresta, mentre il PIL cresce solo a causa della crescita dell’occupazione e contemporaneamente i salari reali orari mostrano deboli segnali di ripresa. Nel periodo successivo, segnato dallo scoppio della crisi globale, tutti i principali indicatori mostrano un segno negativo, con l’eccezione dei salari orari reali.
I salari reali nell’ultimo decennio del secolo scorso sono rimasti stazionari e, in termini di compenso orario, sono addirittura diminuiti a causa della forte disoccupazione nella prima parte del periodo, dei rapporti di forza che si sono stabiliti sul mercato del lavoro e della diffusione delle forme di lavoro precario e dell’alto tasso di inflazione, anche relativamente agli altri paesi. Una caduta della quota dei salari così drammatica come quella sperimentata negli anni ’90 dall’Italia non è però sostenibile indefinitamente, sia perché finisce per indebolire la domanda aggregata, sia per ragioni di coesione sociale. Inoltre, con l’adozione dell’Euro, da una parte non sono più possibili svalutazioni, dall’altra la crescita dei prezzi, anche relativamente agli altri paesi, è rallentata nel nostro paese maggiormente di quanto non sia rallentata la dinamica dei salari nominali. Di conseguenza i salari reali orari hanno mostrato timidi segnali di ripresa. In assenza di crescita della produttività del lavoro e con un PIL stagnante questa timida crescita ha contribuito a far invertire il trend del “net operating surplus”. Alla fine proprio quella che era stata precedentemente la causa di profitti crescenti, i bassi salari reali, si è rivelata essere all’origine della debolezza e della perdita di competitività dell’economia italiana.
L’idea che la particolare fragilità della economia italiana e la sua difficoltà a riprendersi dalla crisi sia dovuta ad un modello di sviluppo che negli ultimi decenni si è fondato sulla ricerca di bassi costi del lavoro piuttosto che sull’innovazione è ulteriormente rafforzata dall’andamento delle spese per ricerca e sviluppo nel nostro paese.
La scarsa spesa che l’Italia dedica alla ricerca e sviluppo è un dato molto noto di cui si parla da diverso tempo. Tuttavia è importante sottolineare, come mostrato nei due grafici che seguono, come questa circostanza si verifichi tanto per quanto riguarda le spese private (BERD) quanto per quello che riguarda le spese pubbliche (GOVERD). Il gap con gli altri paesi non accenna a ridursi nel tempo. Inoltre la quota della spesa pubblica in R&D sul PIL è decrescente nel nostro paese, mentre è crescente in Germania e dal 2000 anche negli USA[11]. Anche da questo punto di vista, si conferma che l’economia Italiana sembra aver rinunciato, nel suo complesso, pur tenendo conto di significative eccezioni, a una strategia basata sulle innovazioni e su un sostenuto progresso tecnologico autonomo.
In sintesi, possiamo chiamare i quattro quinquenni che abbiamo analizzato in questo modo: il quinquennio 1991-1995 è il periodo della razionalizzazione, il secondo quinquennio degli anni novanta è quello dell’occasione mancata, in parte proprio per il successo della razionalizzazione precedente. Il primo quinquennio del nuovo secolo è il periodo della crescita esangue e della perdita di competitività e l’ultimo quinquennio, che purtroppo si prolunga anche negli anni successivi, il periodo della crisi.
Insistere sul modello basato sui bassi costi del lavoro per rilanciare l’economia italiana, come pure da più parti si è tentati di fare, non ci fa uscire dalla spirale bassi salari, scarsa innovazione, bassa crescita della produttività del lavoro. Quello che i fatti stilizzati ci dicono è che questi venti anni si sono aperti con una diminuzione dell’occupazione ed un incremento della produttività oraria del lavoro e si sono chiusi, di nuovo, con un calo delle ore lavorate, ma questa volta con una diminuzione della produttività del lavoro. Nel primo quinquennio l’aumento della produttività del lavoro è stato il risultato di un processo di ristrutturazione e di razionalizzazione dell’esistente. La condizione favorevole che si è creata non è stata sfruttata, soprattutto negli anni successivi, per rinnovare la nostra struttura produttiva. Di conseguenza, quando nella seconda parte del primo decennio del nuovo secolo scoppia la crisi, la struttura produttiva italiana è debole e non è possibile ricreare le condizioni dei primi anni del 1990. Occorre allora ripensare il nostro modello di sviluppo e specializzazione. Ma non è pensabile che il mercato da solo, per quanto si voglia renderlo più efficiente e liberalizzarlo e tantomeno se si insiste sulla flessibilità del mercato del lavoro, con conseguenti ulteriori effetti negativi sui salari, crei gli incentivi sufficienti ad uscire dal circolo vizioso in cui siamo caduti.
Note
[1] Ho già espresso in questa sede le mie opinioni sulla domanda: si veda l’articolo Bassa domanda e declino italiano, in questa rivista.
[2] Si noti che l’Ameco pubblica tutti i dati anche con le previsioni per i prossimi anni fino al 2015.
[3] E’ bene notare che la caduta della quota cominciata molto prima in Italia. Nel 1975 la quota aveva infatti raggiunto un picco del 70%, per cadere al 62,07% nel 1991 e scendere al 55,39% nel 2000. Dal 1975 al 2000, quindi, la quota è caduta di 14,61 punti percentuali. Tra i paesi Europei, tra il 1991 e il 2000, solo in Irlanda si ha una caduta superiore a quella dell’Italia.
[4] Alla diminuzione della quota dei salari sul reddito corrisponde un aumento della wage adjusted labour productivity, che indica quanti euro si ottengono in media in termini di valore aggiunto per ogni euro speso per impiegare lavoro.
[5] Il net operating surplus è calcolato dall’Ameco al netto del consumo di capitale fisso, delle tasse sulla produzione o sulle importazioni e dei sussidi, ma comprende gli interessi e le rendite. Il deflatore utilizzato, per questa come per le altre variabili, è il deflatore del PIL.
[6] Il rapporto tra andamento dei profitti e più specificatamente tra saggio di profitto e accumulazione del capitale è un rapporto complesso e non è questa la sede per affrontarlo. Qui si può ricordare come in origine l’economia classica abbia collegato l’andamento del sovrappiù all’accumulazione del capitale, ma Smith abbia poi osservato come alti e facili profitti scoraggiano gli investimenti e, in questo caso, “i fondi destinati al mantenimento del lavoro produttivo [che per Smith rappresentano la parte più consistente del capitale] non ricevono alcun aumento dal reddito di coloro che dovrebbero aumentarli di più”. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano, 1977, p. 606.
[7] I dati relativi alla Germania hanno un andamento molto particolare e richiederebbero una lunga analisi che qui non è possibile affrontare, relativamente al suo modello di sviluppo trainato dalle esportazioni.
[8] Consideriamo qui e nelle tabelle seguenti l’ Unione Europea a 15 piuttosto che l’area euro perché sono disponibili molti dati sono disponibili dal 1995 piuttosto che dal 2000.
[9] Come già ricordato il salario a prezzi costanti è qui deflazionato con il deflatore del PIL.
[10] Si veda a questo proposito Banca d’Italia, L’economia nelle regioni Italiane. Dinamiche recenti e aspetti strutturali, n. 23, Roma, novembre 2103, p. 64.
[11] A proposito della fondamentale funzione fondamentale della spesa pubblica e del ruolo dello stato per la ricerca e l’innovazione si veda Mariana Mazzucato, The Entrepreneurial State, Demos 2011.
Contributo prezioso.
Parto intanto sottolineando due aspetti emersi dall’analisi:
– la svalutazione della lira, a partire dalla crisi finanziaria del ’92, si è accompagnata all’aumento della quota profitti ed alla stasi dei salari in termini reali;
– la debolezza del nostro modello di specializzazione produttiva precede l’avvento dell’euro.
Chi predica l’uscita dall’euro sta mettendo i carri davanti ai buoi ?
La crisi che mette a rischio la sopravvivenza del nostro sistema produttivo può essere l’occasione per i lavoratori per scambiare i sacrifici richiesti con una maggiore socializzazione delle imprese ? E’ l’occasione per costruire il consenso necessario a trasferire risorse da patrimoni e rendite (anche politiche) al capitale produttivo (innovativo) ?
Un cordiale saluto.
http://marionetteallariscossa.blogspot.it/
tu hai almeno una casa? e dei risparmi? curiosità…
Nessuno mette i carri avanti i buoi. L’uscita dall’euro deve accompagnarsi a strumenti di indicizzazione dei salari e di stretta regolamentazione dei movimenti di capitale. Lo dicono TUTTI, ma proprio TUTTI: da Brancaccio a Bagnai.
Quanto alla specializzazione del nostro sistema produttivo suggerisco di leggere questo piccolo documento (http://www.unioncamere.gov.it/P42A2079C189S123/-Oltre-la-crisi–L-Italia-deve-fare-l-Italia—Aderisci-al-manifesto-.htm; in fondo c’è un pdf “Alcuni numeri sull’Italia”) che smentisce certa mitologia sul fatto che in Italia ci siano solo settori obsoleti
Che lo dicano B & B interessa poco.
Quale delle forze politiche che si contendono gli umori anti euro (M5S, Forza Italia, Lega, ……..) ha mai chiarito come intende gestire il “dopo” ?
Quanto al documento che hai suggerito di leggere (grazie), non propone di risolvere i problemi del nostro sistema d’impresa ricorrendo alla ricetta magica della svalutazione …
bensì: “… Incentivando la ricerca, l’ICT e l’innovazione non solo tecnologica ma anche organizzativa, comunicativa, di marketing. Sostenendo, con azioni di sistema, gli sforzi di internazionalizzazione del nostro manifatturiero, delle filiere culturali e turistiche. Con una politica industriale che faccia perno sulla valorizzazione dei nostri pilastri – manifattura, turismo, cultura, agricoltura – e indichi proprio nella sostenibilità e nella green economy la via da seguire. E con una politica fiscale conseguente, che sposti la tassazione dal lavoro verso il consumo di risorse, la produzione di rifiuti, l’inquinamento. Che incentivi la formazione, l’inclusione sociale e il contributo dei giovani e delle donne alla società e all’economia italiane. Che sostenga gli investimenti per competere nell’economia reale a scapito di quelli per fare speculazione sui mercati finanziari. Dove la burocrazia cessi finalmente di essere un freno per le imprese. Le aziende più piccole vanno accompagnate a lavorare di più in rete o in consorzio. Il turismo potrebbe intercettare più viaggiatori stranieri se l’Italia avesse migliori infrastrutture di trasporto e logistiche, se gli aeroporti italiani fossero meno periferici nelle tratte intercontinentali. Se lo sforzo promozionale dell’immagine dell’Italia all’estero non fosse polverizzato e spesso inconcludente, se le strutture ricettive fossero ammodernate e messe in rete con le tante eccellenze (culturali, paesaggistiche, produttive) del Paese. La lotta all’illegalità, alla contraffazione e all’Italian sounding deve diventare una priorità imprescindibile. Come pure le misure per strutturare reti distributive più forti, anche all’estero. Né si può prescindere dal garantire liquidità all’economia nazionale. Per sostenere le famiglie e far ripartire i consumi interni. E per garantire alle aziende, anche grazie ad un nuovo ruolo della Cassa depositi e prestiti, il credito necessario a rilanciare gli investimenti.”
Il nostro è ancora un Paese ricco di risorse, ma distribuite in modo poco equo e produttivo. Il problema è prima di tutto politico, e chiama in causa l’immobilismo delle categorie sociali e della classe politica che le ha rappresentate finora, tutti arroccati nella difesa impaurita e rabbiosa di posizioni e rendite, anzichè sulla condivisione di un progetto di crescita comune.
Non difendo a spada tratta l’euro. Non demonizzo per partito preso il ritorno alla lira (ci sono troppe variabili interne ed esterne che vi incidono e non possiedo la sfera di cristallo …). Ma questi sono “solo” scenari macroeconomici. Quello che per me conta è la coesione di una comunità nel dare forma concreta a valori fondanti come la solidarietà, l’onestà, la laboriosità, l’intraprendenza, il riconoscimento del merito.
Se hai voglia di ricambiare la cortesia ti propongo anch’io una lettura
http://marionetteallariscossa.blogspot.it/2013/10/politica-industriale-e-dei-redditi-una.html
Indicizzazione piena dei salari? Perfetto! Ha un bel gusto rétro…diciamo anni 70? Siete pronti all’inflazione al 25%? Alla nuova battaglia per il punto unico della scala mobile?
Quanta scarsità di memoria storica che vedo… :-(
A cominciare dalla tua, dato che la scala mobile fu introdotta per difendere ex-post gli aumenti di prezzo originariamente indotti dallo shock petrolifero (il prezzo del petrolio aumentò del 300%, da 3 a 12$ dollari il barile).
“- la svalutazione della lira, a partire dalla crisi finanziaria del ’92, si è accompagnata all’aumento della quota profitti ed alla stasi dei salari in termini reali;”
Questa non mi pare un’analisi corretta, ed anzi, mi permetterei perfino di definirla tendenziosa, perché non tiene (volutamente?) conto della successiva rivalutazione e delle manovre poste in essere proprio per…… riprendere il percorso di rafforzamento del cambio che ci ha portato ad entrare nell’euro.
A partire dal 1996 (ce la ricordiamo la “tassa per l’europa” voluta da Prodi?), le politiche economiche sono state dichiaratamente liberiste……
Mi limito a commentare i dati presentati dall’articolo: la svalutazione avviatasi nel ’92 ha avvantaggiato molto le imprese e poco-niente i lavoratori.
Quanto alle politiche economiche, esse sono state dichiaratemante liberiste sia prima che dopo il 1996.
Storicamente, l’equazione:
svalutazione competitiva = socializzazione dell’economia (in opposizione al liberismo)
non è sta in piedi.
Un cordiale saluto.
http://marionetteallariscossa.blogspot.it/
E’ impreciso sostenere che o si svaluta la moneta o si svaluta il lavoro. La storia non solo italiana dimostra che si perseguono tutti e due gli obiettivi, anzi che la svalutazione della moneta è quasi sempre usata per svalutare i salari.
Faccio preliminarmente notare che, uscendo dalla crisi come stiamo uscendo adesso (se ne stiamo uscendo), abbiamo un tasso di disoccupazione al 13% e i salari reali in caduta libera.
Faccio presente anche un’altra cosa: è vero, ho sbagliato.
Le politiche liberiste esistevano anche prima e dopo il 1996. Emilio ha ragione…..
Ma….. dimentica di dire che, PRIMA e DOPO c’erano ANCHE le politiche del cambio rigido e dell’indipendenza delle banche centrali, perfettamente FUNZIONALI ai medesimi indirizzi liberisti! La svalutazione del 1992, è stata al massimo un breve sussulto in una linea sostazialmente retta, da un punto di vista politico ed economico.
Pertanto, con il pieno rispetto delle opinioni di tutti, signoriEmilio keynesblog, non vi trovo convincenti. Nessuno dice che la sovranità monetaria sia una “bacchetta magica”, ma non vorrei che si citino gli usi “liberisti” della svalutazione per difiendere un sistema che, nei principi e nei metodi, fa un uso “ultra-liberista” del cambio fisso (questa mi pare realtà difficilmente contestabile…..):
Sistema che, stante il gap democratico che lo connota, diffciilmente potrà cambiare….
«Attraverso un continuo processo di inflazione, gli stati possono confiscare, segretamente ed inosservati, una parte importante della ricchezza dei loro cittadini. In questo modo non la confiscano solamente, ma lo fanno arbitrariamente; e, mentre tale processo impoverisce la maggior parte delle persone, ne arricchisce una ristretta minoranza. Lo spettacolo di questo riarrangiamento arbitrario dei ricchi mette in dubbio non solo la sicurezza, ma la fiducia nell’equità dell’attuale redistribuzione della ricchezza. Coloro i quali ricevono questa manna dal cielo, oltre i loro desideri e perfino oltre le loro aspettative, diventano “profittatori,” l’oggetto dell’odio della borghesia e del proletariato impoveriti dall’inflazionismo. Al progredire dell’inflazione e con una fluttuazione selvaggia del valore reale della valuta, tutte le relazioni permanenti tra debitori e creditori, che costituiscono il fondamento ultimo del capitalismo, diventano talmente disordinate da diventare quasi senza senso; ed il processo di redistribuzione degenera trasformandosi in un gioco d’azzardio ed una lotteria. Non vi è mezzo più subdolo e sicuro per rovesciare l’attuale base della società se non quello di svalutare la valuta. Il processo coinvolge tutte quelle forze nascoste proiettate verso la distruzione, e lo fa in un modo che solo un uomo su un milione è in grado di diagnosticare.»
~ John Maynard Keynes sull’inflazione in The Economic Consequences of the Peace (p. 235-6)
keynes scriveva questo nel 1919… in tempi più recenti mi pare che epoche ad alta inflazione sono correlate ad alta quota salari. e viceversa.
Verissimo e attualissimo
[…] da keynesblog il 16 dicembre 2013 […]
Poi Keynes ha cambiato idea …
quindi in conclusione per i più ignoranti (in senso buono) qual è la soluzione migliore visto che poi Keynes ha cambiato idea?
I deficit statali sono necessari. I panni sporchi dell’Unione monetaria della finta sinistra. Storia ed economia. Scuole di pensiero cugine unite per uscire dalla crisi in questo progetto librario: il nuovo testo del circuitista più vicino alla MMT, Proff. Alain Parguez Storia segreta di una Tragedia: l’Unione Monetaria Europea.
Nato come estensione dell’opera completa uscita con Andromeda, è diventato “altro” arricchendosi e può essere preso come una vera opera di studio economico e storico. Con note esplicative molto approfondite sia di economia che di storia, con una pregevole post-fazione di Riccardo Bellofiore che inquadra il circuitismo di Alain Parguez in relazione alla scuola circuitista italiana e in relazione alla MMT. Illuminante sul falso mito della scarsità di spesa pubblica possibile e sul falso mito dell’inflazione, grazie all’allegato di Daniele della Bona. http://www.edizionisi.com/
Buongiorno,
desidero segnalare questo mio contributo “Fuori dall’euro: il mito della svalutazione competitiva”
http://marionetteallariscossa.blogspot.it/2014/01/fuori-dalleuro-il-mito-della.html
nel quale ho riportato alcune evidenze tratte da questo ottimo articolo.
Un cordiale saluto.
Emilio L
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