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Apologia della banca pubblica

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Con la grande crisi scoppiata nel 2007-8 l’intero sistema finanziario del mondo occidentale è giunto sull’orlo del collasso. È stato salvato dall’intervento dell’autorità pubblica, spesso attraverso l’ingresso dello Stato nel capitale delle banche in difficoltà. Solo in Italia questa opzione è stata sempre esclusa anche solo dal novero delle possibilità. Qui da noi è ancora ben radicato il dogmatismo ideologico che portò alla dissennata stagione delle privatizzazioni degli anni Novanta. È giunto il momento di cambiare rotta.

di Vladimiro Giacchè da MicroMega 3/2013

MICROMEGA 3/13 SCHEDA

Nel mezzo della più  grande crisi dal dopoguerra MicroMega sceglie di dedicare uno dei suoi almanacchi monografici all’economia (in edicola da giovedì 21 marzo). Più precisamente, il tema è quello del Ritorno dell’eguaglianza. Se è vero, infatti, che la questione sociale è tornata prepotentemente di attualità anche nel “ricco” Occidente, oggi più che mai vale la lezione di Norberto Bobbio, per il quale senza la “stella polare” dell’eguaglianza viene meno la stessa ragion d’essere della sinistra e di qualsiasi riformismo. Il volume, che si apre con i contributi dei due curatori, Emilio Carnevali e Roberto Petrini, ospita innanzitutto un lungo saggio del Premio Nobel dell’Economia Joseph Stiglitz, scritto in collaborazione con Mauro Gallegati e intitolato “Se l’1% detta legge”: la crisi economica scoppiata nel 2008 – spiegano i due economisti – non ha fatto altro che aggravare tendenze già in atto e frutto di scelte politiche precise, in base alle quali i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

A seguire, Mario Pianta, Francesco Bogliacino e Michele Raitano spiegano come e perché la disuguaglianza dei redditi è cresciuta in Italia e nel mondo negli ultimi trent’anni, mentre Marcella Corsi affronta il tema di una disuguaglianza ancora molto sottovalutata nell’ambito delle scienze economiche: quella fra uomini e donne, fra lavoratori e lavoratrici. Federico Rampini ricostruisce il processo di sviluppo in atto in paesi emergenti come Brasile, Cina e India, dove l’accesso a diritti non monetizzabili come salute, longevità e istruzione si è enormemente incrementato rispetto al passato recente grazie ad un ruolo attivo esercitato dalle istituzioni pubbliche nel governo dell’economia.

Una cospicua parte del volume è inoltre dedicata alle politiche economiche, ovvero alle ricette possibili per una più equa distribuzione della ricchezza, e alle strategie per una declinazione pratica e concreta del principio di eguaglianza. Si collocano in questa sezione i saggi di Nicola Acocella, Paolo De Ioanna, Alessandro Guzzini, Vladimiro Giacché e Giovanni Perazzoli.

Non mancano le controversie fra punti di vista diversi, all’interno della sinistra, sul modo di concepire l’uguaglianza e i “beni comuni” (come mostrano i due dialoghi fra Pietro Reichlin e Sergio Cesaratto e fra Ugo Mattei e Massimo Pivetti). Sempre al tema del rapporto fra eguaglianza, libertà, pari opportunità, lavoro e crescita sono dedicati infine gli interventi – a metà strada fra teoria economica, riflessione filosofico-morale e indagine sociologica – di Maurizio Franzini, Alessandro Roncaglia, Pierfranco Pellizzetti e Raffaello Lupi.

Un numero ricchissimo e da non perdere. Una bussola fondamentale per capire la crisi e per provare ad uscirne… con una società più giusta.

da giovedì 21 marzo in edicola e su ipad [link]

La via italiana ai salvataggi bancari: pagare senza controllare

«L’Europa riscopre la banca di Stato». Con questo titolo il Sole-24 Ore del 2 febbraio scorso ci ha informato della nazionalizzazione del gruppo bancario-assicurativo olandese Sns Reaal. Costo dell’operazione: 3,7 miliardi di euro. Vale a dire 200 milioni in meno di quanto costano allo Stato italiano i Monti-bond per salvare il Monte dei Paschi di Siena. Ma con una differenza non piccola: mentre lo Stato olandese potrà subito entrare nel capitale e quindi nella gestione di Sns Reaal, questo in Italia avverrà solo e soltanto se Mps non sarà in grado di rimborsare il prestito e pagare gli interessi.
Siamo l’unico paese europeo che non è voluto entrare, neanche nell’emergenza, nel capitale delle banche in difficoltà. Non si è mai andati al di là di prestiti. In Italia l’ingresso dello Stato nel capitale delle banche è stato, sin dall’inizio di questa lunga crisi, non soltanto rifiutato: in verità esso non è mai neppure entrato nel dibattito pubblico. Nella prima fase della crisi, allorché il gruppo Unicredit fu costretto precipitosamente a un cospicuo aumento di capitale, tanto dal governo quanto dall’opposizione (rispettivamente Tremonti e Veltroni) si levarono subito voci che esclusero recisamente l’ingresso dello Stato nel capitale di quella banca. Né si può dire che questo abbia garantito che lo Stato italiano non impegnasse risorse per salvare le banche socializzandone le perdite. Non soltanto lo Stato ha offerto a più riprese prestiti alle banche in difficoltà (prima i Tremonti-bond, poi i Monti-bond), ma il governo Monti ha inserito nel cosiddetto decreto «Salva Italia» la garanzia dello Stato italiano su tutte le obbligazioni bancarie di nuova emissione (già collocate sul mercato dal dicembre 2011 in avanti). Di fatto, qualora una banca fallisca, i suoi obbligazionisti potranno ricevere dallo Stato italiano il corrispettivo del danaro a suo tempo investito in obbligazioni di quella banca. In tal modo, nel contesto di una manovra di maggiori tasse e minori spese per 24 miliardi, è stata così inserita una norma che espone lo Stato a perdite potenziali stimate in non meno di 80 miliardi di euro (a tanto ammontano infatti le obbligazioni bancarie di nuova emissione). È pur vero che le garanzie possono anche non essere mai escusse, ma la sola eventualità che questo accada fa rabbrividire. In ogni caso, la linea dei governi italiani in relazione alle crisi bancarie che si sono profilate all’orizzonte in questi anni è sempre stata: pagare senza controllare. E in ogni caso l’acquisizione del controllo delle banche in difficoltà da parte dello Stato è sempre stata esclusa anche solo dal novero delle possibilità.

Monte dei Paschi: la crisi di una banca privatizzata

In occasione dello scandalo bancario più recente, quello che ha investito il Monte dei Paschi di Siena, questo atteggiamento di esclusione aprioristica è stato favorito dalla versione dei fatti che è stata offerta all’opinione pubblica. I problemi del Monte dei Paschi sono stati infatti interamente addebitati ai rapporti tra quella banca e la «politica». Rapporti ben concreti, intendiamoci (in particolare i legami tra il top management di quella banca e il Pd sono così palesi da non richiedere neppure di essere ulteriormente ribaditi). Ma ridurre tutto a questo significa dare una lettura a dir poco parziale di quanto è accaduto.
In verità, quella del Paschi è una vicenda emblematica, che ci racconta un pezzo importante della storia di questo paese negli ultimi vent’anni. E che ci insegna come una banca privatizzata possa perseguire un orientamento al profitto di breve termine che si rivela distruttivo, senza per questo perdere i condizionamenti politici e le logiche clientelari che un tempo si rimproveravano alle banche pubbliche. Proviamo quindi a mettere un po’ in fila i fatti.
Nei primi anni Novanta il Mps viene privatizzato, come l’intero sistema bancario italiano, attraverso le Fondazioni bancarie (società miste pubblico-private senza fini di lucro, secondo la sentenza 300/2003 della Consulta), che ne assumono il controllo azionario. A fine anni Novanta, non vi sarà praticamente più alcuna banca pubblica (mentre ancora all’inizio del decennio il 73 per cento del sistema bancario italiano era in mano pubblica).
Allora si disse che quelle privatizzazioni erano necessarie non soltanto per fare cassa e comprarsi il biglietto per l’Europa e la moneta unica, ma anche per ammodernare il nostro sistema bancario e renderlo più efficiente. Furono così privatizzate tutte le grandi banche commerciali, tutte le banche a medio-lungo termine (che facevano credito per gli investimenti delle imprese), e addirittura banche di sviluppo come il Mediocredito centrale (mentre nel resto d’Europa gli Stati si guardavano bene dall’alienare le banche di sviluppo: si veda ad esempio il KfW tedesco).
L’influenza dei partiti sul Monte dei Paschi come su gran parte delle banche privatizzate non cessò (e tuttora perdura, se pensiamo che pochi mesi fa è stato eletto presidente dell’Associazione bancaria italiana Antonio Patuelli, già esponente di lungo corso del Partito liberale). Quello che cambiò furono i princìpi guida dell’attività bancaria: prevalse il criterio del profitto di breve termine e della «creazione di valore per gli azionisti», a sua volta identificata con l’andamento in Borsa del titolo. La gestione delle banche cominciò a seguire tutte le «mode» che favorivano la crescita in Borsa del titolo relativo. Inclusi la speculazione finanziaria sempre più spinta, l’uso di società veicolo fuori bilancio per aumentare la leva finanziaria (ossia per fare più operazioni con sempre meno capitale proprio) e l’utilizzo di prodotti finanziari derivati.
Nei primi anni Duemila, la moda prevalente nel sistema bancario internazionale fu quella della corsa alla crescita dimensionale attraverso fusioni e acquisizioni. Anche il sistema bancario italiano si concentrò molto. Troppo: nel senso che si creò un oligopolio di poche grandi banche. Tra fine 2006 e fine 2007 si ebbero le tre maggiori fusioni bancarie italiane: nel 2006 Intesa compra il San Paolo di Torino; a maggio 2007 Unicredit compra Capitalia; e nel novembre 2007 il Monte dei Paschi compra, strapagandola, Antonveneta. L’iniziativa di acquistare Antonveneta è del management e la Fondazione che controlla il Monte dei Paschi ne apprende praticamente a cose fatte. Il prezzo pagato è di 9,3 miliardi di euro. Gli organi di stampa osannano questa come le operazioni precedenti, parlando della formazione di «campioni nazionali» nel settore del credito.
La crisi che investe il sistema bancario negli anni successivi colpisce anche il titolo Mps e mette in luce ancora più chiaramente (ma era già chiaro all’atto dell’acquisto) che la Antonveneta era stata pagata troppo cara: oggi l’intero gruppo ha una capitalizzazione di Borsa di poco superiore ai 2 miliardi. I problemi del Monte dei Paschi emergono con questo acquisto, che svuota le casse dell’istituto senese. A questo punto, per migliorare i bilanci occultando le perdite (ma al prezzo di maggiori perdite successive) vengono effettuate le operazioni sui derivati di cui si è tornato a parlare in questi mesi. In più, sembrano accertate malversazioni e ruberie varie (ma non sono queste il punto essenziale). Infine, anche la crisi del debito pubblico italiano si ripercuote sul Monte dei Paschi. La banca senese – per avere rendimenti facili e ritenuti esenti da rischio – aveva infatti acquistato 25 miliardi di titoli di Stato italiani, perlopiù a lungo termine. E quindi dall’estate 2011 viene colpita dal crollo del prezzo di quei titoli. Nel 2012 l’Eba (European Banking Authority) chiede a diverse banche italiane – suscitando un vespaio – di effettuare un aumento di capitale: per Mps la stima del capitale necessario si attesta sui 3,4 miliardi di euro, a cui si aggiungono negli ultimi mesi altri 500 milioni (necessari proprio per coprire anche gran parte delle perdite dovute all’uso dei derivati).
Acquisto di un’altra banca a prezzi eccessivi, utilizzo dei derivati per coprire le perdite, acquisto massiccio di titoli di Stato con duration eccessiva e conseguenti perdite di portafoglio: tutto questo non è il prodotto della «politica», ma della gestione manageriale assolutamente inadeguata di una banca privata.

Campioni senza valore

E qui va sottolineato che se la gestione del Monte dei Paschi ha prodotto risultati fallimentari, la gestione degli altri «campioni nazionali» non ha dato risultati particolarmente brillanti.
Per restare in metafora, possiamo osservare che dal 2007 in avanti questi «campioni nazionali» hanno giocato in diversi campionati.
Quello dei dipendenti mandati a casa in Italia l’ha vinto Unicredit: 13 mila persone, contro 4 mila di Banca Intesa e 3 mila di Monte dei Paschi (ma in quest’ultimo, trattandosi di una banca più piccola, i tagli ammontano al 10 per cento del totale, in Unicredit «soltanto» all’8 per cento). Vanno poi aggiunte le esternalizzazioni di una parte del personale con lo strumento, di cui si è largamente abusato, dello scorporo di ramo d’azienda e vendita a società terze: 800 persone Unicredit, e adesso 1.100 al Monte dei Paschi (con un accordo aziendale non sottoscritto dal sindacato maggiormente rappresentativo, ossia la Fisac Cgil).
Sul campionato della distruzione di valore il giudizio è ancora sospeso: mentre Unicredit nel 2007, dopo la fusione con Capitalia, valeva 100 miliardi di euro e oggi ne vale appena 20,15 (dopo un aumento di capitale da 7 miliardi), il Monte dei Paschi ha comprato Antonveneta per 9,3 miliardi e oggi – assieme ad Antonveneta – ne vale appena 2,24. Una bella gara…
Hanno invece vinto tutti, ma in particolare Unicredit e Banca Intesa, il campionato del potere di mercato, ossia della rendita oligopolistica: in molte regioni, soprattutto al Nord, queste due banche erogano il 50 per cento del credito. Con quello che ne consegue in termini di condizioni di prezzo per gli imprenditori.
È andata malissimo, invece, in termini di qualità del credito. Che, a causa della crisi, ma anche delle inefficienze di questi grandi gruppi, è molto peggiorata. Dal 2007 al 2012 le sofferenze di Unicredit sono raddoppiate, quelle del Monte dei Paschi addirittura triplicate.
Insomma, a distanza di poco più di 5 anni, il bilancio delle ultime aggregazioni bancarie è assolutamente disastroso: rendite oligopolistiche, downsizing, distruzione di valore, peggioramento della qualità del credito, e ora restrizione del credito. Un bilancio fallimentare per tutti. Per i lavoratori e per gli azionisti, per le imprese e per i risparmiatori. E quindi per il nostro sistema economico nel suo complesso. Non è un caso se la Banca d’Italia vede ora nella restrizione del credito uno dei principali motivi (assieme alle politiche di austerity depressiva intraprese prima dal governo Berlusconi e poi da quello presieduto da Monti) del calo dell’attività economica e del prodotto interno lordo verificatosi nel 2012.
Tutto questo dovrebbe indurre a riconsiderare criticamente il percorso intrapreso dal nostro sistema bancario a seguito delle privatizzazioni degli anni Novanta, e a rimuovere il tabù tuttora assai diffuso nei confronti della proprietà pubblica delle banche. Si tratta di un tabù che va rotto, e non soltanto in Italia.

Il fallimento delle banche private e il credito come bene pubblico

La crisi attuale può essere considerata come la seconda fase della crisi iniziata nel 2007, che ha decretato la fine di un modello di sviluppo imperniato sull’enorme crescita degli assets finanziari e creditizi nell’intero mondo occidentale. Il problema è che alla prima fase della crisi, che aveva determinato il fallimento di fatto delle maggiori banche internazionali, si è reagito con enormi iniezioni di liquidità nel sistema da parte delle Banche centrali e con massicci interventi di salvataggio con denaro pubblico su scala mondiale, confidando che quel modello potesse rimettersi in moto. Questo ha ridato fiato a una grande finanza che a fine 2008 era in ginocchio, trasformato parte del debito privato in debito pubblico e aggravato la situazione delle finanze pubbliche in numerosi paesi.
In questo modo anche il dibattito sulle cause della crisi e sui rimedi da mettere in campo è stato spostato sul terreno, più tradizionale e congeniale ai teorici di matrice liberista, del contrasto al debito pubblico e quindi della necessità di ridimensionare il welfare e il ruolo dello Stato nell’economia. Il dibattito è stato così sequestrato da priorità pre-2007 e abbiamo potuto assistere a un surreale remake delle posizioni reaganiane in tema di Stato minimo («lo Stato è il problema, il mercato la soluzione»). Surreale in quanto tutto ciò avveniva a valle del più gigantesco fenomeno di socializzazione delle perdite della storia, con salvataggi su larga scala di banche e società finanziarie avvenuti grazie a un apporto di risorse pubbliche quantificato dalla Bank of England, nel suo Financial Stability Report del giugno 2009, in 14.000 miliardi di dollari (pari al 50 per cento del prodotto interno lordo cumulato di Stati Uniti ed Europa).
Ma questo spostamento dell’ordine e delle priorità del discorso economico e politico contemporaneo ha prodotto effetti molto rilevanti, e in particolare una regressione del livello del dibattito rispetto a quello che era andato maturando tra gli ultimi mesi del 2008 e il 2009, allorché l’emergenza economica legata al crollo dei mercati finanziari mondiali aveva fatto intravedere una vera e propria crisi di legittimità del capitalismo contemporaneo. Non può quindi stupire che per rintracciare interventi di qualità sul tema del credito e dell’assetto proprietario delle banche si debba ricorrere a lavori pubblicati nel 2009, come l’articolo di Costas Lapavitsas, Systemic Failure of Private Banking: A Case for Public Banks. Le tesi più importanti di questo saggio possono essere così sintetizzate:

1) Al centro della crisi oggi in corso vi è il fallimento sistemico delle banche private – tanto delle banche commerciali quanto di quelle di investimento.
«La vera portata del fallimento sistemico delle banche private non è evidenziata soltanto dalla bancarotta di fatto delle grandi banche [di investimento] causata da una gestione dell’informazione e da un governo dei rischi inadeguati. Le banche hanno fallito anche nel loro ruolo di tramite per l’acquisizione di beni essenziali per i lavoratori. La crisi del settore immobiliare ha creato milioni di senzatetto nei soli Stati Uniti, mentre un estremo indebitamento delle famiglie negli Usa, nel Regno Unito e altrove ha condotto a una forzata compressione dei consumi. La crisi ha evidenziato che il sistema bancario privato è inadatto a fare da mediatore per la domanda di abitazioni, pensioni e di molti altri beni che fanno parte del salario».

2) A fronte di questo, le proposte di riforma (anche da parte dei post-keynesiani) sono state troppo timide, limitandosi di fatto a suggerire metodologie di migliore regolamentazione e controllo dei rischi; in qualche caso, gli economisti mainstream si sono rivelati addirittura più audaci dei keynesiani, richiedendo una nazionalizzazione (sia pure temporanea) delle banche, e quindi ponendo di fatto in discussione il tema della modifica degli assetti proprietari delle banche quale strumento per uscire dalla crisi.

3) «Il fallimento delle banche private ha carattere sistemico, e le risposte dovrebbero avere del pari carattere sistemico, e l’obiettivo di mutare in termini permanenti l’equilibrio tra pubblico e privato nel settore finanziario. Le banche pubbliche potrebbero servire sia ad affrontare efficacemente la crisi, sia a ristrutturare il sistema finanziario e l’economia più a lungo termine».

4) L’intervento degli Stati e delle Banche centrali nell’affrontare la crisi ha reso disponibili alle banche fondi pubblici di rilevante entità, cercando però al tempo stesso di tutelare sia gli azionisti che gli obbligazionisti delle stesse.
Le iniezioni di capitale sono state gestite completamente nell’interesse delle banche, che le hanno sfruttate evitando di fare effettivamente pulizia nei propri portafogli (cosa che avrebbe avuto conseguenze dolorose per i loro azionisti e obbligazionisti). Di fatto, «per salvare le banche fallite le autorità hanno imposto costi molto elevati a carico della società nel suo complesso, proteggendo gli azionisti, gli obbligazionisti e i manager delle banche», e più in generale «la natura privata delle banche, evitando di assumere il controllo pubblico» di esse.

5) Invece «una risposta sistemica a questi fallimenti del sistema bancario dovrebbe includere la trasformazione delle banche commerciali private in banche pubbliche». Questo «renderebbe più semplice il compito di reagire alle pressioni immediate della crisi bancaria come pure di influire sul ruolo delle banche nel lungo termine».

6) I vantaggi di una pubblicizzazione delle banche secondo Lapavitsas sarebbero i seguenti:
a) ripristino della fiducia nella solvibilità delle banche stesse, in quanto le banche sarebbero coperte dalle garanzie e risorse dell’intera società. Questo risolverebbe i problemi di liquidità delle banche, riducendo la necessità di ricorrere alle Banche centrali (e quindi evitando di appesantire troppo i bilanci di queste ultime);
b) possibilità di affrontare in termini più trasparenti anche il problema della qualità degli assets delle banche stesse (evitando i tentativi di nascondere le perdite, aggirare i vincoli regolamentari e di minimizzare la portata degli stress test);
c) le perdite che dovessero essere evidenziate potrebbero essere attribuite ai vari stakeholders in maniera più trasparente ed equa di quanto sia avvenuto sinora: oltreché sugli azionisti, che sarebbero già stati espropriati di fatto dal fallimento delle banche ora rilevate dallo Stato, sui titolari di obbligazioni (domestici e stranieri) e sugli altri creditori. In particolare, i costi di un eventuale mancato pagamento dei creditori stranieri potrebbero essere oggetto di dibattito a cui seguirebbero decisioni consapevolmente assunte.

7) La creazione di banche pubbliche è qualcosa di più di una semplice nazionalizzazione, e non va ridotta a un semplice avvicendamento tra manager privati e burocrati statali. Le banche dovrebbero essere gestite in modo quanto più possibile trasparente, anche per mezzo di una rappresentanza, all’interno dei loro consigli di amministrazione, degli interessi dei lavoratori e della società civile.

8) La funzione di più lungo periodo delle banche sarebbe quella di erogare il credito, che va considerato come una public utility, al pari della fornitura di reti di trasporto, energia, acqua eccetera. Questo è particolarmente importante per la fornitura di credito alle piccole e medie imprese (che – a differenza delle imprese più grandi – non possono ricorrere direttamente ai mercati obbligazionari per finanziarsi) e per la fornitura di credito sociale ai lavoratori e alle famiglie in genere (per la casa di abitazione, l’educazione eccetera). In questo modo ad avviso di Lapavitsas sarebbe possibile invertire la tendenza degli ultimi trent’anni, rivelatasi nefasta, alla «finanziarizzazione del reddito personale». Più in generale, le banche pubbliche possono rivelarsi essenziali per promuovere investimenti in nuovi settori economici e per promuovere uno spostamento del baricentro sociale dagli interessi privati e individuali a quelli sociali e collettivi.
È fin troppo facile constatare la lontananza di queste osservazioni e proposte dalle ricette che ci vengono quotidianamente (ri)proposte nel contesto del dibattito sulla crisi. Ma non è questo il limite delle argomentazioni di Lapavitsas. Semmai, se queste considerazioni hanno un difetto, è quello di mettere assieme le funzioni, storicamente diverse, delle banche di credito a breve e a medio-lungo termine. Detto questo, le indicazioni di Lapavitsas sono utili per inquadrare il da farsi di fronte a due diverse emergenze: quella di banche in crisi, che hanno comunque bisogno di un supporto pubblico per non fallire (il caso Montepaschi, per intendersi), e quella più generale della restrizione del credito alle imprese. […]

Qui entra in gioco il secondo aspetto, quello del credito come «bene pubblico». Un bene pubblico di importanza strategica per il paese, in quanto dalla sua erogazione o mancata erogazione dipende in misura non piccola la crescita attuale e futura della nostra economia. Nel 2012, purtroppo, è successo quello che era lecito attendersi: il nostro sistema bancario interamente privato ha seguito (legittimamente, dal suo punto di vista) la logica della massima profittabilità di breve periodo, e quindi, in presenza di crediti problematici crescenti a causa della fortissima crisi in atto (-2,4 per cento il dato Istat definitivo relativo al prodotto interno lordo), ha ridotto il credito a imprese e famiglie. Secondo il centro studi di Unimpresa, i prestiti a imprese e famiglie hanno avuto nel 2012 un saldo negativo di 37,7 miliardi di euro rispetto all’anno precedente, segnando in termini percentuali un -2,5 per cento (le più colpite sono state le imprese, con una contrazione del credito del 3,3 per cento). La presenza di banche pubbliche, con un orizzonte di investimento di medio-lungo periodo, potrebbe consentire di affrontare la crisi in modo ben diverso. E questo non significa dilapidare denaro (fra l’altro, proprio le vicende del Monte dei Paschi insegnano che a volte dirottare i propri investimenti dal credito alle imprese a prodotti ritenuti più sicuri quali i titoli di Stato non porta fortuna…). Significa effettuare scelte razionali di carattere diverso da quelle effettuate dai banchieri privati: scelte nelle quali è incorporato non soltanto il profitto di breve, ma anche l’orizzonte di più lungo periodo della crescita economica complessiva del paese (che per l’azionista pubblico significa anche migliore remunerazione della propria attività attraverso le tasse, che ovviamente aumentano in ragione del miglioramento del ciclo economico). Un orizzonte che per definizione è precluso all’operatore privato. È precisamente per questo motivo che l’ingresso dello Stato nel capitale di Mps (direttamente o tramite la Cassa depositi e prestiti), non come socio finanziario interessato a un profitto immediato ma come azionista di riferimento di lungo termine, oggi rappresenterebbe la soluzione migliore.

Ricostruire un polo pubblico del credito a medio-lungo termine

Ma il tema della necessità, oggi, di un intervento pubblico nel sistema bancario, non si esaurisce negli interventi di emergenza su questa o quella banca. Come noto, la Banca d’Italia addebita parte della colpa della recessione in atto al razionamento del credito (oltreché alle misure di austerity depressiva). Come si è visto sopra, le banche privatizzate, già oberate dal peso delle sofferenze sui crediti pregressi, sono riluttanti a concedere nuovi crediti alle imprese (e quando li concedono lo fanno a un prezzo troppo elevato). Questo non vale soltanto per il credito a breve termine, ma anche e soprattutto per i crediti a medio-lungo termine: ossia precisamente quei crediti che sono legati a investimenti produttivi come ampliamento di impianti, ammodernamento tecnologico eccetera. È dal livello di questo genere d’investimenti che dipende in gran parte la crescita futura.
Per questo motivo è non soltanto necessario, ma urgente ricostruire una banca pubblica per il credito a medio e lungo termine, che possa prestare denaro alle imprese per questi scopi a tassi ragionevoli. Il concetto secondo cui il credito è un bene pubblico (e le banche devono quindi essere considerate come public utilities) è valido in particolare per il credito a medio-lungo termine. Questo concetto, che in Italia nella furia privatizzatrice degli anni Novanta è stato dimenticato, ormai viene recuperato anche nei paesi anglosassoni: persino l’insospettabile Regno Unito ora vuole una banca pubblica per il credito alle piccole e medie imprese. Mentre la Germania, come è noto, non ha mai smesso di giovarsi di una grande banca pubblica che fa credito alle imprese, il Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW).
Farlo anche in Italia non è difficile, e si può fare in diversi modi. Il più semplice è utilizzare una banca che già esiste e si trova nel perimetro pubblico, ma alla quale né il governo Berlusconi né quello di Monti hanno saputo dare una missione chiara: la Banca del Mezzogiorno-Mediocredito centrale (Bdm-Mcc). Si tratta di fatto del vecchio Mediocredito centrale, privatizzato sotto il governo D’Alema, totalmente sottoutilizzato dall’ultimo acquirente, Unicredit, e infine ceduto da questi a Poste italiane. Il percorso più lineare per la riattivazione di un istituto di credito pubblico a medio-lungo termine utilizzando il Mcc sarebbe: passaggio della banca sotto il controllo diretto di Cassa depositi e prestiti o del ministero dell’Economia e delle finanze; adeguata ricapitalizzazione; attribuzione alla banca di queste funzioni: credito a medio-lungo termine su tutto il territorio nazionale, credito agevolato, supporto (istruttoria e cofinanziamenti) a Stato e regioni per l’utilizzo dei Fondi europei; infine, stretta cooperazione e integrazione operativa tra Bdm-Mcc, Simest e Sace (queste due ultime società sono rispettivamente specializzate nel credito agevolato e nell’assicurazione alle esportazioni). In questo modo si potrebbe dar vita a un polo creditizio e assicurativo pubblico per lo sviluppo delle imprese, in grado di assisterle sia sul mercato domestico che nella loro internazionalizzazione. In tal modo si creerebbe finalmente anche quella export bank italiana di cui si parla invano da molti anni (allo stato di concreto c’è soltanto una convenzione tra Simest e Sace).
Quanto sopra può essere ottenuto anche creando ex novo una banca specializzata nel credito a medio-lungo termine o ampliando il perimetro delle funzioni attribuite alla Cassa depositi e prestiti e dando autonomia al suo interno a un comparto creditizio per le imprese. Ma entrambe le possibilità richiedono più tempo della soluzione proposta sopra e, nel secondo caso, una modifica statutaria della Cassa depositi e prestiti (la cui missione riguarda prevalentemente il finanziamento degli enti locali).
Ma come è chiaro, più importante del percorso prescelto è l’obiettivo strategico: ricostituire una presenza qualificata del pubblico nel settore creditizio, oggi interamente lasciato in balia di operatori privati. Insomma, invertire la rotta, almeno in questo settore, rispetto alle privatizzazioni degli anni Novanta e a quello che ne è seguito: il decennio a più bassa crescita dell’intero dopoguerra (Giacché 2012, p. 151).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

V. Giacché, 2012, Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, 2a ed. aggiornata e ampliata, Aliberti, Roma 2012.
C. Lapavitsas, 2009, Systemic Failure of Private Banking: a Case for Public Banks, Research on Money and Finance, Discussion Paper n. 13, 1/8/2009.
C. Peruzzi, 2013, «Sogno un socio finanziario di lungo termine», intervista ad

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88 commenti su “Apologia della banca pubblica

  1. Il problema invece è propio il contrario : in questo paese le banche non sono mai state realmente privatizzate. E la vicenda del MPS ne è la prova lampante : è nazionalizzata eccome, infatti è guidata a tutti gli effetti dal PD, cioé un partito politico.

    Sarebeb l’ ora di privatizzarle per davvero, ma si sa che da noi si cambia tutto per non cambiare nulla. Così che dopo 20 anni di prese per il culo, qualcuno si fa venire la brillante idea di tornare alla (pessima…9 gestione precedente.

    Povera patria…

    • Ti ricordo che i partiti politici sono associazionj private, composti da persone che hanno interessi privati e che gestiscono le banche attraverso fondazioni private. Le banche agiscono tutelando interessi privati, privatizzano i profitti e socializzano le perdite e rispondono a normative decise da enti privati sovranazionali. Mi dispiace, ma sono anni che il sistema bancario italiano non è più pubblico e quando lo era, è sempre stato considerato da tutti tra i più solidi.

      • I partiti sono pubblici che ti piaccia o meno. Se le NAZIONALIZZI a chi credi che vadano in mano? Ministero del Tesoro, quindi …
        A meno che tui non sia uno di quegli illusi tuipo M5S che pensano che la dirigenza della banca nazionalizzata verrà scelta tra il popolo e si farà a turno ogni 3 mesi… nel qual caso diamola direttamente a babbo Natale e facciamola finita.

        Eravamo solidissimi, infatti il banco ambrosiano ed altri scandali finanziari li abbiamo fatti dopo il 92… lascia perdere. pensala come vuoi, ma la verità è che non abbiamo mai privatizzato un bel niente.

        Il resto è fiato ai denti

      • Ah chiaramente non abbiamo mai privatizzato nulal perché I nostril politici non hanno mai volute rinunciare ad un grammo di potere, sia chiaro…

  2. Ah quindi adesso gli sbagli dei partiti politici sono “fallimenti del mercato” perchè i partiti sono “associazioni private, guidati da interessi privati”? No vabbè, stiamo scherzando? E chi è che permette a queste associazioni private di immischiarsi nelle attività economiche del paese?

    Evidentemente vi sfugge il problema di base del sistema bancario (di ogni paese, non solo italiano): l’azzardo morale innescato da una banca centrale che può stampare la quantità di moneta che vuole, prestandola a tassi fuori mercato alle banche che (siano esse in mano privata o pubblica) si sovraespongono confidando nel fatto che saranno sempre troppo grandi per fallire, whatever it means.

    Non è vero che i banchieri privati hanno solo interessi di breve termine: spesso sono remunerati con stock option non riscattabili prima di tot anni, proprio per evitare la concentrazione dei profitti sul breve termine. Come vedete il mercato una soluzione la trova, quando non si mettono in mezzo i politici. I quali, proprio come Alberto qui sopra faceva notare, hanno interessi personalistici e nessun sistema profitti perdite che li possa frenare dal fare scelte di breve periodo scellerate, tanto pagano i contribuenti.

    • Com’è che in Inghilterra, in Belgio, in Olanda, in Germania e in Francia lo Stato è dovuto intervenire per evitare il fallimento delle banche private, anzi privatissime?

      • Non si puo’ sembre buttarla in confusione e fare sempre un unico minestrone.

        Se le banche di così tanti paesi, allo stesso tempo, indipendentemente dalla proprietà sono in queste condizioni allora bisognerebbe capire che forse c’è una causa comune.

        Chiaramente questo pero’ non vuol dire che una banca pubblica non risponda a incentivi e a azzardi morali ben diversi da una privata. Il caso MPS è emblematico: è la solita banca italiana ad aver avuto necessità dell’aiuto pubblico. Ed è una banca molto piu’ pubblica di tutte le altre

      • Non faccio per nulla confusione: RBS in Inghilterra è stata nazionalizzata. Ing e Fortis lo sono in Olanda e Belgio, ecc.
        Sono fatti.
        Nè ho detto che Mps non si sia lasciata attrarre dalla finanza creativa dei derivati. Sul caso specifico ritengo anzi che l’azionariato di MPS doveva essere azzerato ed MPS nazionalizzata. Troppo comodo fare affidamento sui Monti o sui 3Monti bond e continuare a fare tutto come prima: i soldi li mette le Stato e loro li usano senza che vi sia un controllo o una condizione. Troppo comodo. Questo non è liberismo. E’ socializzazione delle perdite.
        Se si ritiene MPS importante, tuttavia, non resta che il controllo pubblico, se il pubblico vi deve mettere i soldi. E’ pura logica.
        Tutto il resto è aiuto di stato (e i liberisti dovrebbero essere contrari agli aiuti di stato; mentre i veri liberisti (non i fanatici fondamentalisti) non hanno nulla in contrario all’intervento dello Stato quando questi vi mette i soldi dei contribuenti).

      • Quello che sfugge è che in Italia MPS è la sola a essere stata (ufficialmente) salvata e gli scandali del suo management di nomina strettamente politica (PD& CGIL) sono sotto gli occhi di tutti quasi ogni giorno

        Ovvio che poi che in questo questo non è capitalismo il quale è riassumibile in “profitti privati e perdite private”. E non da ora

      • Non è affatto vero che il caso MPS è l’unico. Il sole 24 ore del 2 febbraio riferiva che gli aiuti presi dalle banche direttamente dallo Stato ammontano a 123 miliardi di euro. Il Mps ne vale 4.
        Quindi anche le altre banche hanno preso i soldi dallo Stato. E non sto contando i 255 miliardi presi dalla BCE attrraverso i due LTRO.
        Direi quindi che il sistema finanziario e bancario privato ha causato un bel po’ di casini per l’economia, ma non per i loro manager (ci ricordiamo le buoni uscite milionarie?).
        Tutto questo deve finire. Poichè non si può fare a meno del sistema bancario, non resta che ritornare a maggiori controlli e dare una bella stretta sul modo in cui le banche investono i soldi dei risparmiatori.

        @ Fasani, Il Banco Ambrosiano era privato, gestito da un certo Calvi (suicida? a Londra). Abbiamo la memoria corta?

      • No, lo stato italiano non ha ricapitalizzato banche per 125mld. Probabilmente l’articolo allude alle garanzie su bonds portati in EB
        Sta il fatto che solo MPS non ha nemmeno trovato qualcuno pronto a ricapitalizzare la banca come è invece è accaduto per esempio a Intesa e UCG

        I controlli c’erano Basilea 1 & 2 sono standard mondiali a parte tutto il resto. Nemmeno la sanità è così regolemantata. Queste regole inducono le banche a assumere comportamenti rischiosi (per esempio Northern Rock stava per staccare un mega dividendo a seguito dell’adozione di Basilea II al momento del bank run) e nel pubblico una falsa sicurezza

      • E’ vero: 119 miliardi dei 123 sono a garanzia dei titoli emessi dalle banche. Ma hanno coinvolto 258 istituti bancari. 258 (è chiaro?).

      • E’ chiaro che non c’entra nulla con ricapitalizzazione ma con garanzie fornite alla BCE.
        Solo MPS non ha troovato nessuno pronto a sottoscriverla

      • Ed è altrettanto chiaro che lo Stato si è impegnato per 123 miliardi a ripagare i titoli emessi da 258 istituti bancari.
        Lo ripeto: è comodo fare affari sapendo che, male che vada, pagano altri. E’ questo il vostro modo di intendere il libero mercato?

      • Sono due cose diverse: una cosa è l’insolvenza altra l’illiquidità

        In ogni caso è “comodo” perchè questo è cronismo, fascismo, socialismo (di destra forse)
        Non libero mercato che è altra cosa: profitto privato e perdite private

      • Dare garanzie sui titoli emessi non risolve nessun problema di liquidità.
        Semmai la liquidità è arrivata dalla BCE con i due LTRO (ma voi non siete quelli che dicono che la BCE stampa troppa moneta?).

        Per quanto riguarda MPS non so se era solvente o meno. Certo è che il capitale andava ridotto per le perdite accumulate e i fondi pubblici subentranti avrebbero dovuto comportare il trasferimento della proprietà della banca.

      • Sono titoli anticipati dalla BCE sotto un programma di cui manco ricordo piu’ il nome
        .
        Per il resto è quello che dicevo: MPS non ha trovato nessuno che sottoscrivesse l’aumento di capitale

      • Devi solo trarre la conclusione: o si lascia fallire MPS o è opportuno che sia nazionalizzata.
        La soluzione adottata, i Monti Bond (e prima i 3Monti), impiegano denaro pubblico senza che le banche siano chiamate a rispondere dei risultati (e i 3Monti Bond li hanno presi anche altre banche, non solo MPS). E dato che il bilancio pubblico non è quello di una banca centrale, che può emettere moneta, non si può far affidamento sullo Stato per avere liquidità. Se lo Stato deve mettere dei soldi, come è avvenuto in tutta Europa (Inghilterra e Germania inclusi), è bene che la banca sia nazionalizzata.

      • Più il sistema politico elettorale ha influenza sulle proprie banche centrali, più le banche private vengono graziate quando sbagfliano, più azzardo morale si innesca sui comportamenti futuri. Ma questo non è un problema di mercato, è un problema di interventismo.

        Le regole di Basilea 2 in base al quale la banca centrale deve accettare in contropartita i titoli di stato (guarda un pò, DI STATO) dei paesi europei senza pesarli in base al rischio quando le banche private vogliono rifinanziarsi non le ha scritto nostro signore sulle tavole della legge, ma i governi europei. Come l’allentamento di requisiti partimoniali su particolari strumenti finanziari che hanno poi innescato la crisi del 2008.

        Naturalmente si possono implementare nuove regolamentazioni, e nuove authorities, e nuove regole per limitare questi meccanismi.

        Però, ne esiste uno semplice: togliere alle banche centrali il privilegio di stampare moneta a piacimento (per rifinanziare le banche, siano esse in mano privata o pubblica poco cambia).

        Ovvio poi che l’attuale sistema (malato) in cui un minimo di competizione tra banche private esiste, è sempre meglio di un sistema in cui il governo alza il telefono e chiede alle banche in mano pubblica (in questo scenario, completamente sottomesse) di soddisfare i vizietti del governo di turno.

        Non è un caso che un paese come gli USA, che comunque esporta inflazione per vari motivi, ha una FED con un mandato molto originale (aumentare il PIL e l’occupazione? e come si fa? stampando soldi ?) MA ABBIA ANCHE un tetto massimo al debito pubblico inserito in costituzione.

      • Perchè se quelle banche falliscono non c è più la sicurezza che gli stati rifinanzino a tassi convenienti i loro enormi debiti pubblici. Naturalmente anche questi debiti pubblici, derivanti dalla improduttività della spesa pubblica e dai suoi livelli eccessivi, sono fallimenti del mercato, e senza ombra di dubbio non sarebbero più un problema istituendo banche pubbliche. Ai cui vertici verranno nominati manager di nomina politica che, proprio come i nostri politici, penseranno agli interessi di lungo periodo di tutti gli italiani e non alla prossima scadenza elettorale.

    • Dimenticavo Cipro. E’ sotto gli occhi di tutti come il mercato funzioni: per salvare le banche cipriote (private) si ricorre a quanto hanno depositato i clienti nelle stesse banche.
      Son tutti buoni a fare gli imprenditori con i … soldi degli altri.

  3. Ottimo contributo. Il pubblico (pure con tutti i suoi mali) è l’unico soggetto in grado di sviluppare un programma di sostegno alla crescita di lungo periodo. Il privato “pensa nel breve” ed è giusto così. Questo breve termine deve essere indirizzato in un progetto più ampio. Il “credito bene pubblico” sarebbe sicuramente un potente strumento anticiclico.

  4. @ Giorgio : la memoria mi funziona benissimo. Il mio comment era per dire che il sistema bancario poteva andare male anche prima.

    Comunque, il vostro rimane fiato ai denti.
    In Itlia non abbiamo mai privatizzato nulla, come la vicenda MPS dimostra a chi non ha gli occhi chiusi.

    Chiuso il discorso.

    • Chiuso per niente. Dato che Profumo (prima ad di Unicredit ed ora presidente del MPS) non è un funzionario dello Stato. Ed anche Unicredit ha avuto i suoi problemini.
      BNL è passata ai francesi. Solo per fare degli esempi.

      Ma ciò che conta, pubblica o privata che sia, è la logica con cui è stato permesso alle banche di condurre i loro affari. Ed è una logica fallimentare, come è evidente non solo in Italia, ma anche in Inghilterra, in Olanda, in Belgio, in Spagna, in Francia, a Cipro. Questo sistema non va: è fallimentare. Per vivere ha bisogno degli aiuti pubblici. ben 2700 dagli Stati Europei, senza contare i 1000 della BCE mediante LTRO.
      E’ ora di ripensare il modello e il sistema finanziario.
      Il discorso è più aperto che mai.

      • Per la precisione (se non fosse chiaro):
        2700 miliardi, gli aiuti degli stati europei, e 1000 miliardi dalla BCE
        (mi ero dimenticato di scrivere MILIARDI DI EURO).

  5. condivido l’articolo. E’ significativo che la maggior parte delle critiche non vadano oltre i confini nazionali, quando si è dimostrato che l’assalto alla dilligenza delle risorse pubbliche da parte delle banche private riguarda tutto l’Occidente. Ma anche l’attribuzione di tutto il problema al moral hazard dei banchieri è una visione letteralmente molto miope. Il ricorso al credito ha sostenuto un grande ciclo espansivo in condizioni di depressione della domanda. I banchieri ne hanno approfittato per i loro interessi, ma senza l’easy founding la grande crisi sarebbe arrivata diversi anni prima. Consideriamo anche la macroeconomia! una distribuzione del reddito regressiva non può alimentare la crescita.

    • Peccato che quando scoppia una crisi finanziaria, diversamente da una economica, tutto il sistema si inceppa e impiega decenni per uscirne(gli anni ’30 insegnano, soprattutto per come sono terminati).
      La crisi economica, dovuta ad una temporanea sovra-produzione, invece, solitamente si risolve in pochi trimestri.
      E queste sono considerazioni macro (e storiche).

  6. Non sono di certo Keynesiano che era un liberista forte e diede al capitale un salvagente sgonfio per salvarlo dall’annegamento indebitando al parossismo gli Stati e cioè noi cittadini. Il nostro mega debito pubblico è il frutto di politiche keynesiane. La Banca D’Italia, se non sbaglio è privata controllata da un pool di banche e da assicurazioni al 94% e per il 5,66% dall’INPS. Ecco spiegato lo scandalo MPS ed i mancati controlli, dove si è mai visto che ladri fungano da controllori di altri ladri? Per la BCE che è controllata dalle 17 banche nazionali che a loro volta sono controllate da banche private. La nazionalizzazione delle banche era stata già preconizzata da Carlo Rosselli nel 1930, egli le definiva ladri, avide di proprietà immobiliari, prestavano denaro e poco dopo ne richiedevano la restituzione, se il debito non era onorato si impossessavano dei beni.

    • Lo sai che tra il 1991 e il 2011 il debito pubblico è aumentato di 1230 miliardi e che, di questi, 1750 miliardi sono imputabili agli interessi passivi?
      In queste dinamiche non vi vedo nulla di keynesiano.
      Vi vedo invece la decisione – liberista – di separare la banca centrale dal Tesoro, con il risultato che paghiamo ogni anno 86 miliardi di interessi al sistema finanziario nazionale od estero (per oltre l’80%).

      • qual’era il rapporto interessi/pil prima del divorzio? qual’era nel periodo euro? quali erano i livelli assoluti di debito nei due periodi?

      • A parte il fatto che i dati potresti cercarteli anche tu (come si dice in un bel film: non sono la tua segretaria), resta il fatto che dei 1230 miliardi di crescita del debito, 1750 sono dovuti agli interessi sul debito. E’ un fatto. (E questo periodo include la fase dei bassi tassi nella prima parte del decennio scorso, sotto l’euro).

      • 1) ti do la notizia che pre-divorzio il rapporto interessi/pil era paragonabile all’attuale, su uno stock di debito metà dell’attuale: in pratica costava il doppio, eh si.
        2) !?!?!?! ti rendi conto che 1750 è maggiore di 1230 vero? numeri in allegria? e comunque non ha alcun senso come conto, accettalo.

      • Infatti i 1750 miliardi interessi sono compensati da ciò che tu non vuoi sentir parlare: l’avanzo primario, ovvero i 600 miliardi sottratti alle famiglie e alle imprese dalle politiche di rigore attuate in questi vent’anni.

        Guido Carli, che non può certo essere definito un comunista, considerava quasi eversivo che la Banca d’Italia non acquistasse i titoli emessi dal Tesoro.
        l risultato è che il debito è stato sempre più accollato al sistema finanziario, senza che la banca centrale potesse moderare le pretese dei mercati finanziari.
        Quanto al livello assoluto dei tassi, questi hanno incominciato ad aumentare a partire dalla shock petrolifero dei primi anni ’70 e che portò l’inflazione a due cifre fino agli anni’ 80. Ma prima della crisi petrolifera, i tassi erano bassi e gestibili. Dopo il divorzio, l’Italia ha avuto un po’ di problemi finanziari, non credi? Ad esempio il ’92, che tra l’altro portò all’uscita dello Sme.

  7. @ Walter,
    Perchè mai quando una BC presta dei soldi alle banche a un determinato tasso fa dell’interventismo? Chi lo dovrebbe stabilire il prezzo per i finanziamenti ricevuti dalla BC le stesse banche? Un po’ troppo comodo.
    AH ma tu sei per l’abolizione delle BC.
    E’ già stato sperimentato e non ha funzionato. Alla fine era necessario avere un prestatore di ultima istanza.
    Quanto all’aumento del pil e dell’occupazione, non dico che sia tutto merito della FED (non lo credo nemmeno io). Ma un contributo l’ha certamente dato (credo meno che sia merito dello Spirito Santo o della Mano Invisibile).

    Quanto alla possibilità che le “banche pubbliche” siano sottomesse al governo, vorrei farti notare che recentemente una banca privata, il cui AD è poi diventato ministro, si è data da fare per salvare quel carrozzone dell’Alitalia su esplicita indicazione del governo di destra (anzichè essere tranquillamente venduta ai francesi senza danni per i contribuenti).
    Come vedi, certi favori ai governi li fanno anche le banche private.

    • Sempre per Walter,

      negli Usa non è raro vero vedere i manager delle banche che vanno a fare i consiglieri economici del Presidente o il Segretario al Tesoro.
      Credi veramente che non vi sia una stretta relazione tra i due mondi?
      Semmai vi è da lamentarsi per l’intrusione della finanza nella sfera politica.

      Ora abbiamo avuto anche noi la possibilità di sperimentare questa “abitudine” di oltre Atlantico. E l’esito, dal mio punto di vista, non è stato certo dei migliori. Anzi, direi che è stato pessimo (sia per Monti che per Passera).

    • Per curiosita´, quando sarebbe stata sperimentata l´abolizione della banca centrale e non avrebbe funzionato?

    • Dovrebbero stabilirlo domanda e offerta, investitori e risparmiatori, non una banca centrale che può stampare e rifinanziare e modificare a convenienza il prezzo più importante del mercato, il tasso di interesse. No, non mi aspetto l abolizione della bc domani, magari la proposta di friedman di crescita annua fissa degli aggregati monetari non è male per cominciare, o ancora l inflation target e la politica monetaria della Bundesbank e ora della Bce. I problemi dell euro zona sono ben altri che la pol mon teutonica.

      La faccio io una domanda ora: fondiamo una banca pubblica che fornisce credito dove serve. Chi decide il limite di prestiti che può concedere ? I criteri per accedervi ? Se bisogna razionare, per quale motivo una azienda può finanziarsi e un altra no ? I manager in base a quale criterio sono remunerati ? In base alla crescita del PIL nell area dove operano ? E se il PIL scende, possiamo dare la colpa alla banca pubblica ?

      • Guarda che la banca centrale – in linea di massima – determina i tassi ufficiali guardando il ciclo economico (da un lato) e all’inflazione (dall’altro).
        La BCE è ossessionata dall’inflazione (che al momento non c’è). La Fed è preoccupata invece per la disoccupazione.
        Questo tasso non può essere determinato da investitori e risparmiatori, perchè sono le banche che si rivolgono alla BC per ottenere la liquidità, in funzione di ciò che da un lato succede a valle (forte richiesta di credito in fase di espansione e viceversa: qui entrano i risparmiatori e gli investitori) e dall’altro dalla propensione al rischio del sistema bancario (quindi in questa momento di crisi, anche se vi è richiesta di credito e vi abbondante liquidità presso le banche, queste non aprono i cordoni della borsa. La BC in questa fase cerca solo di rendere meno conveniente detenere la liquidità inutilizzata, riducendo i tassi ed invogliando quindi a concedere i prestiti. Ma può essere – come è il caso – che le banche preferiscano rimanere nonostante tutto liquide)

  8. Nessuno ha parlato (a parte voi) di abolizione della Banca Centrale. Ho detto invece che è già stata sperimentata l’assenza di un prestatore di ultima istanza.

    Da Wikipedia:
    Il Federal Reserve System conosciuto anche come Federal Reserve ed informalmente come la Fed è la banca centrale degli Stati Uniti d’America. La FED fu istituita con l’approvazione del Federal Reserve Act del 23 dicembre 1913 dal Congresso degli Stati Uniti e iniziò le sue operazioni nel 1914. L’approvazione del testo legislativo del Federal Reserve Act fu preceduta da un’indagine della National Monetary Commission, istituita nel 1908 dopo la grave crisi finanziaria del 1907, e da un lungo dibattito del Congresso. La National Monetary Commission produsse fino al 1911 una notevole quantità di studi e analisi sul sistema monetario e finanziario statunitense e sui sistemi monetari e sulle banche centrali presenti nei vari paesi dell’epoca. La Commission avanzò diverse proposte per l’introduzione di una istituzione che avesse il compito di prevenire e contenere eventuali crisi finanziarie.

    • Ma no. Prima della FED c´era comunque una banca centrale negli USA: era il sistema delle national banks istituito con il NBA da Lincoln per finanziare la Guerra Civile per il nord (emettevano greenback a fronte di tresuries) e fu la causa dei ripetuti panics bancari fino a convertire il sistema nella FED
      Gli USA hanno comunque una tradizione di assenza di banca centrale: ne abolirono ben due e di fatto le istituirono sempre per finanziare una guerra (come e´ il caso di tutte o quasi le bc)

  9. Anche in italia, all’epoca dell’Unità, vi era più di un istituto di emissione. Ma più istituti che emettono banconote non sono UNA banca centrale. Per di più quelle banche private che emettevano moneta non si comportarono in maniera cristallina.
    Il compito e l’istituzione della Banca d’Italia, come quello della Fed, fu quello di intervenire per evitare crisi e scandali finanziari, ponendosi anche come prestatore di ultima istanza.

    Curiosa poi la tesi che le banche centrali siano la causa delle guerre. E’ un po’ come prendersela con il termometro quando si ha la febbre. Saranno pure uno strumento per finanziare le guerre. Ma queste sono state condotte dagli Stati per i loro fini capitalistici, colonialistici, imperialistici, fascisti, ecc. Forse sarebbe il caso di mettere in discussione i governi che hanno perseguito con le armi quelle finalità.

    • A parte che le banche della FED sono piu´di una anche oggi (e infatti sulle banconote leggi puoi leggere piu´ banche di emissione), la costituzione di una banca centrale concentra le riserve al fine di massimizzare l´emissione di banconote e rendere piu´ complicata la loro conversione.

      Ho detto poi il contrario: le banche centrali sono lo strumento ottimale per finanziare guerre. Per esempio BoE, Banque de France, le 4 banche centrali create dagli USA furono tutte create per finanziare guerre.

      • …dimenticavo! Concordo sul fatto che i governi che costituiscono una bc sarebbero da mettere in discussione: la costituzione di una banca centrale si estrinseca nella concessione di un privilegio e monopolio statale tra l´altro quindi quanto di meno congeniale a un´economia capitalistica

      • Gianni, mi sembri stanco: io ho scritto: le BC ” saranno pure uno strumento per finanziare le guerre. Ma queste sono state condotte dagli Stati per i loro fini capitalistici, colonialistici, imperialistici, fascisti, ecc. Forse sarebbe il caso di mettere in discussione i governi che hanno perseguito con le armi quelle finalità”.

        Tu mi rispondi: “Ho detto poi il contrario: le banche centrali sono lo strumento ottimale per finanziare guerre”.

        Boh?!

        Quanto alla Fed, che non ha più il problema della conversione interna dei dollari dal 1933, il compito principale, più che di essere un forziere, è quello di condurre la politica monetaria, con tutte le implicazione del caso.

      • Fenomenale poi l’idea che una banca centrale sia contro la natura del capitalismo.
        Da una parte sostieni che è lo strumento ottimale per fare le guerre condotte dagli stati capitalistici, dall’altro dici che sono contro la natura del sistema capitalistico.

        Ma al di là di queste contraddizioni, che ti perdono vista l’ora, vi è un dato di fatto: tutti i paesi capitalistici si sono dotati di una banca centrale.
        Cosa dici? viviamo forse in economie socialiste a nostra insaputa?

        Buona notte. Mi sembra che ne hai proprio bisogno.

      • Allora concordiamo: le BC non sono uno strumento del capitalismo che è libertà di scambio e proprietà privata. Ma lo strumento della politica per perseguirei suoi fini concedendo privilegi e monopoli ai suoi clienti spesso per finanziare guerre

      • Vedo che la notte non ti ha dato ridato lucidità: le banche centrali sono essenziali per il capitalismo.
        Negare questo è negare l’evidenza. Ma è tipico di voi fanatici liberisti. Siete talmente fondamentalisti nella vostra religione che, se fossero attuate le vostre prescrizioni, il capitalismo crollerebbe. Rispetto a voi, Marx è un dilettante.
        E Adam Smith per voi deve essere un colluso con i monopolisti se scrive nella sua opera più famosa (La Ricchezza delle Nazioni):
        “La Banca d’Inghilterra (…) fu istituita in corporazione, in esecuzione di un atto del parlamento, in data 27 luglio 1694. (…)
        Agisce non solo come banca ordinaria, ma come una grande macchina dello Stato. Riceve e paga la maggior parte delle annualità che sono dovute ai creditori dello Stato, fa circolare i Buoni del Tesoro e anticipa al governo l’ammontare annuo della tassa sulla terra e di quella sul malto, le quali sono pagate solo dopo alcuni annui. In queste diverse operazioni, i suoi obblighi verso il pubblico possono talvolta averla costretta, senza alcuna colpa dei suoi direttori, a sovraccaricare la circolazione di cartamoneta”.
        (pp. 312-315 ed. Oscar Mondadori, 1977)

        Per voi deve essere una vera eresia. Non ci si può più fidare nemmeno di Adam Smith, se anziché denunciare il comportamento monopolistico e spregiudicato di emissione cartacea, ne giustifica – inopinatamente – i comportamenti delittuosi contro la fede del libero mercato e del rigoroso rispetto della regola aurea. Anatema a lui e alle sue 7 generazioni successive.

        Gianni_no: torna a riposarti.

      • Giorgio,
        a parte che le cose non sono vere perchè le dice qualcuno sia egli Adam Smith o il Mago do Oz ma il passo che riporti parla di una BoE creatura di stato e funzionante nell’interesse dello stato

        Le bance centrali sono sempre e ovunque stabilite dall’intervento statale a mezzo al concessione di privilegi e monopoli. Quindi non hanno nulla a che fare con la libertà economica bensi’ con la politica. L’hai peraltro riconosciuto anche tu

      • …ma il passo che riporti parla di una BoE creatura di stato e funzionante nell’interesse dello stato

        Da ricordare poi (ma forse c’è nel Wealth of Nations, quindi lo sai) che la BoE ebbe il monopolio dell’emissione di carta moneta in una vasta area intorno a Londra (poi esteso) fin dalla sua fondazione che ricordo fu per finanziare una guerra contro l’Olanda

      • Ti dispiace dirmi dove Adam Smith non direbbe il vero?

        Io non ho nessuna difficoltà a dire che le BC sono funzionali agli Stati.
        Quello che noto è che tu hai molte difficoltà a riconoscere che sono parti essenziali per le economie capitalistiche. Peccato che tutti i paesi capitalisti abbiano una banca centrale e che sia essenziale per la stessa sopravvivenza del sistema economico.
        Riesci a capire la sottile differenza?
        In alternativa devo pensare che il tuo paese ideale sia quello che ha il capitalismo, senza la presenza dello Stato. Una specie di capitalismo anarchico.
        In tal caso, continui a sognare ad occhi aperti. Primo, perchè non esiste. Secondo, perchè la libera concorrenza, se è mai esistita, porta inevitabilmente quantomeno agli oligopoli. E’ storia.
        Però puoi sempre andare su un isola deserta insieme a chi la pensa come te per realizzare il vostro sogno (mi raccomando: cercatevi un isola che abbia sufficiente oro per effettuare i vostri scambi, sempre che la divisione del lavoro di Adam Smith non sia contraria a vostri principi).

        Fammi sapere quando tornerai alla realtà.

      • Giorgio,
        il passo di Smith che citi è chiro: dice che la BC è una creatura dello stato e congeniale ai suoi interessi.
        Non c’è nulla di capitalistico in un monopolio legale, cioè concesso dalla politica

        La tua definizione di capitalismo è poi irrilevante: cosa conta è chi effettivamente eserciti l’attivià di indirizzo, decisionale. E questa puo’ essere facilmente stabilita da leggi, burocrazia, regolamentazione.

    • Curioso il termine “capitalistici” , in europa con un livello di tasse e spesa pubblica al 50% del PIL ci vuole coraggio a chiamare gli stati in questo modo. Perchè non li chiamiamo “mezzi comunisti”?

      Riguardo le banche centrali in generale ( e in riferimento ai commenti successivi): non sono necessarie al capitalismo, anzi la politica di continua svalutazione della moneta (che le bc attuando aumentando la base monetaria e provocando più inflazione, in modo più o meno spinto) disincentiva il risparmio, spinge artificialmente in sù i consumi, distorce l’equilibrio della struttura produttiva tra breve e lungo periodo ed è quindi dannoso per un capitalismo sano.

      E’ sicuramente necessario un prestatore di ultima istanza nel senso di “colui che rimedia a momentanee crisi di liquidità”: ma perchè le banche private non possono garantirselo da sole, con una logica assicurativa, associandosi liberamente, e hanno bisogno di una banca centrale che ha il privilegio (statale) di stampare soldi?

      Non si fa perchè, per come è concepita, la banca centrale in questo sistema non agisce solo da prestatore di ultima istanza nel senso che “rimedia alle crisi momentanee di liquidità” ma presta a chi ha problemi di vera e propria solvibilità, e infatti presta a tassi inferiori a quelli di mercato a banche che altrimenti fallirebbero.

      La soluzione (capitalista) è togliere questo privilegio ai banchieri centrali, lasciare le banche libere di associarsi per garantirsi da crisi di liquidità, e lasciar fallire le banche in crisi di solvibilità, come succede per tutte le altre imprese del mercato.

      Fatto ciò probabilmente una banca centrale esisterebbe comunque in ogni paese, per garantire l’affidabilità “sociale” di quella carta che chiamiamo “banconota”. Ma tale obiettivo sarebbe realizzato al meglio solo se la stessa bc non avesse la possibilità di distruggere il valore di quella cartamoneta a convenienza, creandola dal nulla.

      • Un sistema è definito capitalistico indipendentemente dal livello del pressione fiscale o dalla rilevanza della spesa pubblica.
        Il termine capitalistico definisce un sistema in cui i mezzi di produzione sono in mano a una classe, oggi si dice gli imprenditori, che si avvale di salariati.

        Quanto al resto sulla banca centrale, anche gli USA sono “mezzi comunisti” ?

      • E’ irrilevante: cosa conta è chi effettivamente esercita l’attivià di indirizzo, decisionale. E questa puo’ essere facilmente stabilita da leggi, burocrazia, regolamentazione.
        Mentre la proprietà ridotta a nominale

      • Gianni, La definizione di capitalismo non l’ho inventata io.
        Mentre voi confondete la concorrenza perfetta con il capitalismo. Peccato che esista anche il capitalismo oligopolistico (oltre che i monopoli) Sempre sistemi capitalistici sono.

      • Quindi secondo Giorgio un paese che ha il 99% di spesa pubblica e tasse su PIL è comunque capitalista perchè… perchè lo dice Giorgio. Anzi no, perchè i mezzi di produzione sono comunque in mano agli imprenditori. E com’è possibile che siano “per definizione in mano agli imprenditori”… Non si sa. In questo scenario gli imprenditori contribuiscono all’1% del reddito nazionale. Si vedono togliere il 99% dei loro utili. E hanno comunque “i mezzi di produzione in mano”.

        E’ capitalista, è così e basta.

        Perfetto, io ho sentito abbastanza e mi sono fatto un’idea della fondatezza economica dell’idea per cui “la ggente ha bbisogno della bbanca pubbblica”.

      • Giorgio
        continui a dire che le cose stanno cosi´perche´ l´ha detto qualcun altro
        A me va bene anche la tua definizione ma bisogna capire che significa e il fatto che la proprieta´ sia ascritta a qualcuno ma esercitata da altri cambia un bel po´ la sostanza delle cose

      • gianni: la tua definizione è insensata.
        infatti allora qualsiasi sistema comunista è in verità capitalistico: i mezzi di produzione sono in mano alla classe politico/burocratica.
        se poi vuoi dirmi che sei un anarchico, allora è un’altra storia.

      • @ Walter,

        ti consiglio un paese che risponde ai tuoi ideali: la Cina. La pressione fiscale e la spesa non superano il 30%.

      • @ Gianni_no,

        Le imprese pubbliche in Italia sono meno dell’8%.
        Il restante 92% è in mani ai privati. Non mi risulta che la famiglia Agnelli si faccia dirigere le sue imprese da altri. E così per tutti gli altri imprenditori privati. Se proprio vuoi fare il sofista, puoi parlare di capitalismo manageriale (se vogliamo dare rilevanza a Marchionne).
        Ma il capitalismo non ha niente a che vedere con le forme di mercato: è capitalismo anche quando è monopolistico. perchè la caratteristica saliente del capitalismo non è il grado di concorrenza, ma l’esistenza dei salariati e dei … capitalisti.

      • Appunto, dovrebbe essere la prova che siamo più comunisti noi della Cina ormai.

      • Bene. Non ti resta che acquistare un biglietto aereo per Pechino di sola andata, ove troverai il paese del liberismo.

      • Ma dai Giorgio
        lo stato italiano intermedia tra spesa e tassazione ben piu’ del 100% del PIL. E tu parli della percentuale in mani private delle imprese? Ma se hai un socio che ti confisca oltre il 60% del profitto pre-tasse (oltre tutto il resto) spieghi che significato ha “proprietà privata”?

      • Il mitico 68% di imposte sui profitti riportato dalla Banca Mondiale include gli oneri sociali, che più correttamente fa parte del costo del lavoro. Tolti i quali, le imposte sui redditi delle imprese scendono al 25,1% (24,9 in Germania, 36,7 negli Usa)

      • Certamente! 25% quando la sola IRES pesa da sola il 27.5% e senza considerare l´IRAP la cui base imponibile comprende in pratica i´intero valore aggiunto

      • Ancora una volta te la prendi con i dati ufficiali. Sono quelli della Banca Mondiale. Non vi sono poi solo le aliquote impositive, esistono anche le detrazioni, gli ammortamenti accelerati, ecc. E le statistiche internazionali, incluse quelle della Banca Mondiale, tengono conto di tutto. Non solo quello che fa comodo a voi. Quello che ne risulta è l’aliquota media effettiva.
        Ah dimenticavo, sei tu che hai ragione, mentre sono la Commissione Europea (relazione pressione fiscale-sommerso), l’Istat (calcolo del pil) e la Banca Mondiale che sbagliano (per i dati della Banca Mondiale, basta scaricarsi il pdf a questo link
        http://data.worldbank.org/data-catalog/world-development-indicators/wdi-2012
        andare a pag. 305 dove vi l’Italia e si scoprirà che il 68,5% include il 43,4% dalla stessa Banca Mondiale attribuito a “Labor tax e contributions”, overo agli oneri sociali che notoriamente sono inclusi nel costo del lavoro).

      • L´IRAP colpisce (anche) il costo del lavoro

      • Che????? I costi fiscalmenete deducibili sarebbero superiori a quelli civilisticamente deducibili? Nuvoloso su Marte? ;-)

      • Vedi che non capisci un tubo?
        Vai a vederti la p. 305 del rapporto, prima di sparare caxxate.
        Il labor tax e contributions indicati dalla Banca Mondiale sono la quota % sui profitti. D’altra parte per avere il profit tax devi fare il rapporto tax/profit*100

      • Io rispondevo a “Non vi sono poi solo le aliquote impositive, esistono anche le detrazioni, gli ammortamenti accelerati, ecc.”
        Non cambiare sempre discorso ;-)
        Poi l´IRAP e´ una tassa anche sul costo del lavoro. Se vuoi escluderla dal calcolo….

      • E chi te l’ha detto che l’Irap non è stata presa in considerazione dalla Banca Mondiale?

        Nel determinare la profit tax si tiene conto non solo dell’aliquota ires, ma anche di tutte le voci che consentono di attenuare la pressione fiscale, tale per cui la profit tax è appunto quanto si paga effettivamente di imposte sui profitti lordi.

        E per non cambiare discorso, ti sei convinto che il 68% è una balla?

      • Se le imprese pagassero veramente il 68% di tasse non esisterebbero imprese in Italia. Non è la prima volta che una statistica internazionale fa una cosa del genere. Ad esempio l’OCSE ci assegnava un EPL molto alto perché alla fine del rapporto di lavoro il datore di lavoro deve corrispondere il TFR al lavoratore. L’avevano scambiata per una tassa sul licenziamento, mentre quelli sono soldi del lavoratore prestati temporaneamente all’impresa (o da qualche anno dirottabili verso i fondi pensione integrativi).

      • Infatti l’Italia presenta una delle piu’ diffuse economie sommerse sulla faccia della terra. L’unico modo per sfuggire a un fisco del genere è “scomparire”

        Secondo me poi le statistiche WB sottostimano l’imposizione fiscale anche perchè non tengono conto del costo del tempo per correre dietro alla sua burocrazia

  10. anche questo come tanti articoli di sinistra sul sistema bancario, contiene un errore di fondo: il compito delle banche, quello di natura pubblicistica che giustifica l’intervento e la sorveglianza del potere pubblico non è “l’erogazione del credito” , con tutta la retorica connessa sul piccolo imprendirtore, sulle aziende in difficoltà da sostenere per via dell’occupazione e altre faccende che con il compito della banca hanno a che fare solo al contrario. Il compito delll banca è solo quello di garantire i depositanti, per permettere l’uso dei loro depositi per il sistema dei pagamenti. Ci sono state ottime banche che facevano quasi solo questo lavoro, investendo i depositi solo in titoli di stato velocemente liquidabili. Lo fa tuttora la Cassa Depositi e Prestiti, per cui il risparmio postale è l’unico garantito (probabilmente lo è anche in Grecia e a Cipro). e tutti i capitani coraggiosi ci vogliono mettere le mani sopra…per usarlo per i loro affari, tenersi i guadagni e non restituirlo se perdono…

  11. […] di Vladimiro Giacchè da MicroMega 3/2013Continua a leggere » […]

  12. come al solito c’è l’errore di considerare lo stato un qualcosa di terzo, di estraneo e superiore. perchè mai dovrebbe essere così? lo stato è soltanto un attore come altri, con alcune determinate caratteristiche, tra le quali di sicuro non c’è il “pensare a lungo termine” contrapposto al breve termine, per definizione (???????), dei privati. anzi: lo stato ragiona praticamente SEMPRE nel breve/brevissimo termine delle scadenze elettorali, a meno di fare modellini inverosimili in cui il vecchio politico si preoccupa dei giovani politici sotto la sua ala… questo al massimo potrebbe valere in un sistema dinastico.
    proprio l’idea della concorrenza non sorge eh. sempre colpa del maledetto liberismo e della deregolamentazione, come se i vari trattati di basilea non esistessero.
    lo stato può avere una funzione di controllo e regolazione, ma solo se ci si libera dall’idea interventista di predisporre un singolo binario che chiunque dovrà seguire: l’innovazione, finanziaria in questo caso, sarà sempre più veloce e troverà metodi per aggirare le regole (vedi qui: http://www.linkiesta.it/bancari-banchieri-il-binomio-spezzato-del-credito#ixzz2NuTPkMj4, il modello otd come generato da basilea I…); la soluzione alternativa della massima concentrazione monopolistica (la nazionalizzazione di tutto) è fallace per quanto detto sopra e per altri mille motivi; la soluzione è uno stato che si occupi di garantire massima trasparenza e che eviti il nascere di istituzioni sistemiche tbtf.

    • Ma dai. Lo stato è l’unico attore al mondo che puo’ disporre di quello che vuole, decidere le regole e imporle manu militari, è un monopolio assoluto, inespugnabile.
      Come è possibile assimilarlo a un qualsiasi altro agente?

  13. In generale, è desolante trovare dei presunti liberisti e sostenitori del capitalismo, che non sanno che cosa definisce il capitalismo e che, colmo dell’assurdo, si schierano contro Adam Smith (ma il “socio” del Giannino, quello vero, ossia l’ultra liberista Alessandro De Nicola non è presidente dell’associazione Adam Smith?)

    E’ poi curioso che portati al dunque, non rispondono: il nostro Gianni_no deve ancora dirci cosa farebbe sul caso MPS: deve fallire o deve essere nazionalizzata?

    • Giorgio
      è desolante trovare chi usa una definizione marxista (in salsa Scuola di Francoforte) per il sistema capitalista ricorrendo a un formalismo irrilevante rispetto a chi effettivamente esercita la proprietà privata

    • Certo che MPS deve fallire.
      Il fatto che sia salvatacon la prorietà privata dei contribuenti cioè violalandola, significa solo che non siamo in un sistema capitalistico.

      • Poichè le posizioni sono chiare e incompatibili, mi sento di dire solo che, per fortuna, le vostre teorie non vengono messe in pratica.

      • Infatti sono messe in pratica le vostre e i risultati si vedono ;-)
        E adesso e´ per lo meno chiaro che non viviamo in un sistema captalistico

      • Ti consiglio di raggiungere Walter a Pechino. Li troverete un paese liberista.

      • Quanto alla soluzione MPS è quella dei Monti Bond. Noto eversivo comunista, vero?

      • Monti lo giudico da quello che ha fatto e il peso dello stato con il suo governo e´ aumentato sull´economia italiana. Non diminuito.
        Tassazione e spesa pubblica sono aumentate, la burocrazia e´ cresciuta ancora. Il risultato era facilmente prevedibile

      • Beh, Monti non ha certo fatto una politica keynesiana. Con le sue politiche restrittive (mi dispiace per F. Spirito, ma l’avanzo primario è risalito al 2,5% dall’1% del 2011) ha solo accentuato la crisi. Il contrario di quanto hanno sempre detto gli economisti keynesiani in numerosi appelli e analisi.

      • Per i keynesiani bisogna tornare a Cirino-Pomicino ;-)

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