Indiano d’origine “prestato” a Harvard, Amartya Sen, 76 anni, Nobel per l’Economia nel 1998, è una delle massime teste pensanti del nostro presente. Guru liberal, raro esemplare di filosofo-economista, in questa intervista comparsa sul “Giornale” non lesina scudisciate contro la costruzione dell’euro e il vangelo dell’austerity. Criticando anche la sinistra italiana: non pervenuta.
Professor Sen, cominciamo con un’ottima domanda. Che cos’è la felicità?
Una condizione complessa, sicuramente più ampia di quella descritta dagli utilitaristi à laJeremy Bentham, per i quali sarebbe una massimizzazione del piacere. Dimensione imprescindibile per una vita piena è invece la libertà, pertanto ogni dispiegamento di mezzi ha senso se produce un’espansione delle nostre libertà sostanziali. Per capire è utile la distinzione medievale tra “agente” e “paziente”: la felicità è piena quando l’uomo è “agente”. Questo si vede bene nell’amore: quello vero allarga le nostre potenzialità e di certo non le avvilisce.
Pensa che la situazione che stiamo vivendo in Europa sia felice?
Credo che il sentimento prevalente in Europa sia l’infelicità. Nel sostenerlo non misuro una sensazione soggettiva, ma registro uno status quo che nega le maggiori libertà umane. Se non trovo lavoro, o se sono malato e non posso curarmi, la mia libertà è impedita. L’infelicità è il corollario, a prescindere da come possano poi sentirsi effettivamente le persone.
Perché siamo arrivati a questo punto?
Il tracollo europeo nasce una politica d’austerità fallimentare che ha prodotto l’attuale scenario di povertà e disoccupazione. Lo dico in qualità d’economista, perché la nostra è una scienza empirica. E una legge fondamentale dell’esperienza è imparare dagli errori. Il regime d’austerity, in vigore da anni, sta conducendo al baratro l’Europa.
E l’Italia? Il termometro dello spread s’è raffreddato, eppure il tasso di disoccupazione non accenna a calare, le attività chiudono…
Anche l’Italia ha dovuto adottare politiche sciocche. Ma nessun paese europeo è al riparo dai danni di questa politica deflazionistica. La Germania stessa ne sente gli effetti, poiché sono venuti meno i mercati per le sue esportazioni. Sostenendo ciò, mi ricollego a un assioma base dell’economia novecentesca: senza domanda l’economia piange. Dovremmo riattualizzare Keynes.
Nessun paese europeo è un’isola, potremmo dire. Cosa si può fare per invertire la rotta, dovremmo inaugurare un “New Deal” europeo?
Il problema è endemico. Nell’Unione europea manca una visione politica ragionata abbastanza forte da ergersi a contrasto di quanto è pattuito in sede intergovernativa. Per questo servirebbe una dichiarazione all’unisono di Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e in generale di tutti i paesi vessati da vincoli di bilancio. L’Unione europea deve lasciarsi alle spalle la controproducente austerità. E va adottato un grande programma di politica economica europea pro sviluppo.
In passato ha espresso la sua contrarietà all’unione monetaria europea. Se non avessimo adottato l’euro adesso staremmo meglio?
Sono stato contrario all’euro per motivi di tempistica. L’unione monetaria avrebbe dovuto essere adottata dopo l’unione fiscale e politica e non prima di questa. Saltando lo scalino, invece, gli stati ancora “nazionali” hanno perso il controllo sulla propria politica monetaria. Creando situazioni ad alta tensione: i tedeschi che accusano i greci d’essere pigri, i greci che accusano i tedeschi d’essere dei Kapò. Non è di certo questa l’unità europea immaginata da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi negli anni quaranta sull’isola di Ventotene.
Serve la politica quindi. Al riguardo, Anthony Giddens ha difeso la tradizionale dicotomia destra-sinistra (a differenza del premier Monti). Per lei l’opposizione è ancora utile?
A mio avviso la distinzione c’è e affonda nei valori fondamentali delle due parti. Idealmente, la sinistra è garante della felicità, diritto da assicurare universalmente con l’interventismo statale. La destra originariamente è stata il bastione dei diritti proprietari; ora, più genericamente, difende le libertà individuali e il libero mercato. Personalmente sono di sinistra. Penso, però, che la sinistra debba prestare attenzione ai capisaldi liberali della destra. Il bipolarismo destra-sinistra è rintracciabile, seppure con cospicue diversità, sia negli Stati Uniti sia in Europa. Non si può dire lo stesso dell’Italia. Ed è deprimente che nel paese di Antonio Gramsci non si scorga un’agenda politica che possa definirsi veramente “di sinistra”.
(Intervista uscita su “Il Giornale” del 19 gennaio 2013 con il titolo “Il denaro non fa la felicità? Invece sì”)
L’intervista ad Amartya Sen è molto bella. E dice profonde verità. Purtroppo le ragioni della politica economica europea hanno anche altre radici. Armonizzare le politiche fiscali e pervenire all’unità politica europea, prima ancora di battere una moneta unica, avrebbe avviato un processo molto lungo, destinato forse a non concludersi mai. Nel bel mezzo di svalutazioni competitive a cascata, chi avrebbe messo più mano all’armonizzazione fiscale? Certo, oggi ci ritroviamo un Fiscal Compact che rischia di mandare al macero ogni sogno di unità europea. Mi viene da pensare, che il sogno dell’Europa Unita non ha avuto statisti all’altezza di un così importante obiettivo. Una cosa mi piacerebbe chiedere all’insigne cattedratico: cosa ne pensa della lite in atto sul bilancio dell’Unione…che per la prima volta prende impegni di circa 60 miliardi superiori al budget messo a disposizione degli Stati Membri?
Lo squilibrio, la dinamica di struttura, la ricomposizione della domanda effettiva via legge di Engel e investimenti, sono il tratto distintivo e dinamico dell’economia capitalistica. Le istituzioni preposte al governo della domanda effettiva e della sottesa dinamica di struttura, sono cambiate assieme all’evoluzione dell’organizzazione della produzione e della società. Diversamente sarebbe inconcepibile crescita economica e piena occupazione.
In ordine di tempo sono riconoscibili due modelli di governo della domanda effettiva, almeno degli ultimi 70 anni: il new deal rooseveltiano e il liberismo della signora Thatcher e del presidente Reagan. Con la crisi delle istituzioni legate al modello neoclassico (2007-8), si ripropone il tema del governo della domanda effettiva. Ad oggi non conosciamo le prossime istituzioni del capitale , ma la fine dell’era neoclassica schiude una riflessione inedita sulle nuove istituzioni del capitale. Il 2007-8 è stato un risveglio amaro per tutti; ci troviamo tra un’era economica (finita) e un’altra era (da costruire), con delle istituzioni-modelli (Thatcher-Reagan) consolidati: globalizzazione, integrazione dei mercati finanziari, allargamento della forza lavoro e nuova divisione internazionale dello stesso.
L’esito e lo sbocco della crisi delle istituzioni reaganiane non sarà la riproposizione (corretta) delle politiche rooseveltiane del dopo ’29. Il successo di queste ultime era legata all’assenza di policy pregresse adeguate. La riproposizione delle stesse policy in un’economia aperta non avrebbe lo stesso esito. Sicuramente un conforto, ma un conto è aumentare la domanda interna in un’economia chiusa, un’altra cosa è aumentare la domanda interna in un mercato aperto e integrato. L’effetto macroeconomico sarebbe un multiplo nei migliori dei casi, se non un approfondimento delle divergenze tecno-economiche tra i Paesi. Forse il successo delle politiche neomercantiliste è proporzionale all’assenza di una policy pubblica della domanda effettiva, la quale ha cooperato-concorso al suo consolidamento. La Germania, non di meno la Cina e il Giappone, gli stessi BRICS, hanno governato la globalizzazione via contrattazione e innovazione tecnologica per conquistare quote crescenti di commercio internazionale, ma l’effetto è una contrazione della domanda effettiva aggregata. Gli stessi Stati atomizzati, rappresentativi d’interessi territoriali nell’economia globalizzata, hanno “ricostruito” la competitività territoriale via “Stato minimo”, concorrendo a ridisegnare il lavoro internazionale. Per questo la riduzione delle tasse e del costo del lavoro hanno assunto un peso così importante, pregiudicando, però, le fondamenta della macroeconomia della domanda effettiva. Sostanzialmente le politiche rooseveltiane, pur nelle migliori intenzioni, non sono plausibili. Persino la banca pubblica rooseveltiana non è più riproponibile, almeno che non diventi un fatto ideologico. Infatti, il sottostante del credito a imprese e famiglie è il capitale, non i depositi. Una rivoluzione ancora tutta da comprendere, soprattutto nelle sue implicazioni.
Quindi le istituzioni del capitalismo sono sempre in movimento e diverse da quelle precedenti, ma tale diversità si vede principalmente nel rapporto tra capitalisti e Stato, più che nel rapporto capitale-lavoro. Il conflitto capitale-lavoro è “macroeconomicamente cieco”; rappresentano interessi a volte confliggenti e a volte convergenti, ma mai coincidenti. Infatti, gli interessi del capitale sono diametralmente opposti agli interessi del lavoro, senza dimenticarci che senza lavoro e capitale non ci sarebbe né capitale, né il lavoro. Ma il lascito del modello neoclassico è la percezione di se medesimi come più rappresentativi o più forti di quello che in realtà sono. La crescita del PIL è percepita come propria “proprietà”. Probabilmente l’esito o il frutto avvelenato di un’era che ha messo al centro della riflessione economica, filosofica e sociologica, il merito individuale. Il sapere e il saper fare dei capitalisti e della forza lavoro sono l’altra faccia della medaglia delle politiche neoclassiche: solo l’offerta crea la sua domanda . L’effetto? La rimozione dello Stato come agente economico della domanda effettiva.
La differenza tra l’era rooseveltiana e quella reaganiana-neoclassica è proprio nel ruolo dello Stato, a tutto vantaggio di capitale e lavoro, nonostante perseguano interessi particolari, ignorando gli effetti macroeconomici dei loro comportamenti. Più precisamente, gli investimenti anticipano reddito (profitti) futuri, mentre salario e profitti sono distribuiti sul reddito disponibile, ma il reddito di oggi è legato a filo doppio agli investimenti per anticipare il profitto di domani. Un circuito ingovernabile da classi che giustappunto rappresentano interessi particolari, ma non esaustivi dello sviluppo economico e tanto meno il suo motore. Alla fine solo lo Stato conosce gli effetti delle politiche individuali, presentandosi come l’unico attore della domanda effettiva. Più precisamente, senza governo della domanda effettiva non è possibile alimentare il conflitto di classe (robinsoniamente parlando).
Ma il lascito del liberismo è più potente di quanto non s’immagini: la trasformazione della ricchezza da grandezza stock a grandezza flusso è l’incredibile “innovazione” pseudo keynesiana del modello liberista. Per via endogena ha creato moneta e domanda aggiuntiva, sganciata dalla produzione di beni e servizi, ma capace di alimentarla non via distribuzione del reddito, ma via incremento del capitale (delle imprese e delle famiglie). Non era necessario aumentare i redditi (profitti o salario) per garantire lo sbocco della produzione, bastava la valorizzazione del capitale e la sua presunta liquidità, cioè il flusso della ricchezza garantiva la domanda corrente di produzione. La domanda effettiva non ha (aveva) le sue radici nel reddito da lavoro dipendente e autonomo, ma nel crescente flusso della ricchezza delle famiglie e delle imprese. Per un lungo periodo il modello liberista ha sostituito lo Stato come agente economico via moneta endogena, ma la cecità degli attori si è ripresentata; diversamente non potremmo comprendere le fondamenta macroeconomiche della microeconomia. Il fantasma della domanda effettiva di Keynes è ritornato. Un fantasma che i due capitalismi, rooseveltiano prima e reaganiano dopo, hanno risolto per vie diverse, ma che oggi necessita di nuovi e più avanzati equilibri. L’era rooseveltiana (florido di reddito e diritti) ha creato delle istituzioni tese a ripristinare la domanda effettiva via spesa pubblica e crescita del potere contrattuale del lavoro, contenendo e controllando la moneta via banca centrale e divisione tra banca commerciale e banca d’investimento; l’era reaganiana (florido di reddito) si fondava sul leverage della ricchezza. Caduto l’effetto leva, è caduta la domanda effettiva.
Con la crisi del 2007-8 è difficile comprendere lo stato delle istituzioni. Si riaffaccia la necessità di ripristinare la domanda effettiva con delle istituzioni adeguate, via produzione reale e lavoro, ma il contesto internazionale, come i lasciti del liberismo, non si possono rimuovere con una bacchetta magica. La lotta di classe dei capitalisti descritta da Gallino è finita, nel momento esatto che è stata vinta. La cecità dei capitali descritta da Marx e Smith si è ripresentata. Non è più funzionale alla riproduzione del capitale; la cecità del capitale richiede un’ancora solida: la domanda effettiva. Sicuramente le prossime istituzioni della crescita economica, del capitale e del lavoro, saranno ancorate a migliori e (forse) solide basi. Al momento abbiamo atteggiamenti e comportamenti opposti: la Cina, gli Stati Uniti, il Giappone e tutti i Paesi BRICS, pur nelle loro particolari forme, hanno ripreso a considerare la domanda effettiva come politica economica. Negli Stati Uniti si rafforza il ruolo pubblico e comincia ad affacciarsi una politica liberal per il lavoro e lo stato sociale; in Cina lo Stato padrone non ha mai smesso di guidare i processi di trasformazione economica e comincia a considerare la domanda interna come qualcosa da sostenere, anche via crescita dei salari; il Giappone si pone il problema della moneta e sussume la Banca Centrale, anche se non ha assunto la domanda effettiva come modello.
L’Europa rimane ancorata a modelli d’equilibrio neoclassico e liberista. È indiscutibilmente lo snodo della crisi. Le politiche adottate dall’Europa hanno permesso la speculazione (estera). Il problema dell’Europa è l’equilibrio e, quindi, la competitività internazionale; non la domanda effettiva. Ma l’era dell’equilibrio lascia il posto a delle politiche attive. Alla fine anche l’Europa sarà costretta a misurarsi con il problema della domanda effettiva, del lavoro, del capitale e dell’economia reale. La direzione è questa. Si tratta di capire come e chi guiderà il processo di costruzione delle nuove istituzioni del capitale europeo e internazionale. L’uscita dalla crisi passa dalla ricostruzione della domanda effettiva, dal lavoro e dal capitale, via domanda aggiuntiva (pubblica).
All’interno di questo grande scenario, come si colloca la rappresentanza del lavoro, che comunque è condizionata dai lasciti (non rimuovibili) della globalizzazione? Come si può disegnare o guidare la necessaria e, ormai, prossima genesi dello sviluppo tra soggetti che per la prima volta sono costretti a ripartire da modelli rooseveltiani, ma non più applicabili nelle forme precedenti?
Chi, che cosa e come cambia l’economia è lo sfondo del chi, che cosa e come rappresenta il sindacato e il capitale.
Reblogged this on Perchè anche di informatica si può ridere……e talvolta risparmiare.
I wrote this back in 2001:
Rites of Passage
The Child of Consensus
Conceived in post WWII politics, and baptized in the political waters of the 90’s, a new common currency- the euro- assumed its position on January 1, 1999. Representatives of the prospective member nations masterfully achieved political consensus by both the absence of objectionable clauses and the inclusion of national constraints, as manifested in the Treaty of Maastricht. During that tumultuous process, with deep pride, the elders grasped and shielded the credit sensitive heel of the infant euro. The ‘no bailout’ directive for the new ECB (European Central Bank) emerged as a pillar of the political imperative to address the ‘moral hazard’ issue that so deeply concerned the political leadership, and, two years later, that same rhetoric of fiscal responsibility continues to ring at least as loudly when the merits of the EMU (European Monetary Union) are proclaimed. Unfortunately, however well intended as protection from a genetic proclivity toward fiscal irresponsibility, the naked heel is but a magnet for the financial market’s arrows of our hero’s mortal demise.
As Apollo’s chariot adeptly carries its conflagration from east to west, the European Monetary Union carries its members on the path of economic growth. Unlike the path of the sun, however, the path of an economy continuously vacillates, including occasional dips into negative territory. And, like the sign most rental car agencies post by the entrance for returning cars about to drive over a one way bump strip, the new EMU, with its lurking unidirectional bias, could do a service to it members with a similar posting – WARNING- DO NOT BACK UP!
The Dynamics of the Instability
The euro-12 nations once had independent monetary systems, very much like the US, Canada, and Japan today. Under EMU, however, the national governments are now best thought of financially as states, provinces, or cities of the new currency union, much like California, Ontario, and New York City. The old national central banks are no longer the issuers of their local currency. In their place, the EMU has added a new central bank, the ECB, to manage the payments system, set the overnight lending rate, and intervene in the currency markets when appropriate. The EP (European Parliament) has a relatively small budget and limited fiscal responsibilities. Most of the governmental functions and responsibilities remain at the national level, having not been transferred to the new federal level. Two of those responsibilities that will prove most problematic at the national level are unemployment compensation and bank deposit insurance. Furthermore, all previous national financial liabilities remain at the national level and have been converted to the new euro, with debt to GDP ratios of member nations as high as 105%, not including substantial and growing unfunded liabilities. These burdens are all very much higher than what the credit markets ordinarily allow states, provinces, or cities to finance.
Since inception a little over two years ago the euro-12 national governments have experienced moderate GDP growth, declining unemployment, and moderate tax revenue growth. Fiscal deficits narrowed and all but vanished as tax revenues grew faster than expenditures, and GDP increased at a faster rate than the national debts, so that debt to GDP ratios declined somewhat. Under these circumstances investors have continued to support national funding requirements and there have been no substantive bank failures. Furthermore, it is reasonable to assume that as long as this pattern of growth continues finance will be readily available. However, should the current world economic slowdown move the euro-12 to negative growth, falling tax revenues, and concerns over the banking system’s financial health, the euro-12 could be faced with a system wide liquidity crisis. At the same time, market forces can also be expected to exacerbate the downward spiral by forcing the national governments to act procyclically, either by cutting national spending or attempting to increase revenue.
For clues to the nature and magnitude of the potential difficulties, one can review the US Savings and Loan crisis of the 80’s, with the difference being that deposit insurance would have been a state obligation, rather than a federal responsibility. For example, one could ask how Texas might have fared when faced with a bill for some $100 billion to cover bank losses and redeem depositors? And, once it was revealed that states could lack the borrowing power for funds to preserve depositors insured accounts, how could any bank have funded itself? More recently, if Bank of America’s deposit insurer and lender of last resort were the State of California rather than the Federal Reserve, could it have funded itself under the financial cloud of the state’s ongoing power crisis and credit downgrade? And, if not, would that have triggered a general liquidity crisis within the US banking system? Without deposit insurance and lender of last resort responsibilities the legal obligation of a non-credit constrained entity, such as the Federal Reserve, is systemic financial risk not ever present?
The inherent instability can be expressed as a series of questions:
*Will the euro-12 economy slow sufficiently to automatically increase national deficits via the reduction of tax revenues and increased transfer payments?
*Will such a slowdown cause the markets to dictate terms of credit to the credit sensitive national governments, and force procyclical responses?
*Will the slowdown lead to local bank failures?
*Will the markets allow national governments with heavy debt burdens, falling revenues and rising expenses the finance required to support troubled banks?
*Will depositors lose confidence in the banking system and test the new euro-12 support mechanism?
*Can the entire payments system avoid a shutdown when faced with this need to reorganize?
Conclusion
Water freezes at 0 degrees C. But very still water can be cooled well below that and stay liquid until a catalyst, such as a sudden breeze, causes it to instantly solidify. Likewise, the conditions for a national liquidity crisis that will shut down the euro-12’s monetary system are firmly in place. All that is required is an economic slowdown that threatens either tax revenues or the capital of the banking system.
A prosperous financial future belongs to those who respect the dynamics and are prepared for the day of reckoning. History and logic dictate that the credit sensitive euro-12 national governments and banking system will be tested. The market’s arrows will inflict an initially narrow liquidity crisis, which will immediately infect and rapidly arrest the entire euro payments system. Only the inevitable, currently prohibited, direct intervention of the ECB will be capable of performing the resurrection, and from the ashes of that fallen flaming star an immortal sovereign currency will no doubt emerge.
Warren Mosler
May 1, 2001
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