Se si cancellasse una settimana di ferie, il Prodotto Interno Lordo crescerebbe di un punto percentuale. E’ quanto si legge in questi giorni sui maggiori quotidiani che riprendono la proposta del governo di eliminare alcuni giorni di ferie, farcita di insensate previsioni sui presunti effetti positivi dell’aumento forzato di ore lavorate nel nostro paese.
In primo luogo non possiamo non ricordare che l’Italia è già uno dei paesi in cui si lavora di più, come mostra il grafico seguente.
Non si capisce in base a quale ragionamento un ulteriore incremento delle ore lavorative produrrebbe di per sé crescita economica. Se fosse così semplice, la Grecia dovrebbe essere il paese più ricco d’Europa.
E’ del tutto infondata l’idea che lavorare di più significhi crescere di più, ed il motivo è semplice: il PIL è dato dalla somma di consumi, investimenti, spesa governativa ed esportazioni nette (cioè la differenza tra esportazioni ed importazioni) più altre variabili minori. Non c’è nessuna ragione per la quale l’aumento di ore di lavoro annuali dovrebbe incrementare significativamente una di queste grandezze (anzi, la diminuzione di tempo libero potrebbe arrecare danno al settore turistico).
In presenza di una domanda calante, o nel migliore dei casi costante, un maggiore volume di lavoro porterebbe al limite ad aumentare le scorte, che vengono di norma conteggiate nella contabilità nazionale (si tratta comunque di una componente di scarso peso), se gli imprenditori decidessero di sfruttare le nuove ore “gratis” per aumentare la produzione. Ma persino questo è improbabile: considerando le aspettative negative (il 2012 vedrà un calo del PIL del 2,4% secondo Confindustria, dell’1,9% secondo il FMI e per il 2013 si prevede un’ulteriore contrazione dello 0,2 – 0,3 per cento, a seconda delle stime) le imprese saranno indotte a produrre di meno, non di più, anche nella speranza di smaltire l’invenduto del periodo precedente. Non si può quindi ragionevolmente prevedere nessun effetto positivo sul PIL.
Quale sarebbe dunque l’effetto di una diminuzione dei giorni di ferie e quindi di un aumento delle ore lavorative? Anche qui il ragionamento è semplice. Se le imprese decidono di produrre lo stesso quantitativo di beni e servizi dell’anno precedente, e se ogni lavoratore avrà un orario annuale più lungo, le imprese avranno bisogno di meno lavoratori. Se il mercato del lavoro fosse totalmente flessibile, ciò si tramuterebbe immediatamente in una maggiore disoccupazione, come ad esempio hanno mostrato Krugman ed Eggertsson con il “paradox of toil”, il paradosso della fatica: se tutti decidiamo (o se ci viene imposto) di lavorare di più, serviranno meno persone per realizzare gli stessi beni.
Per fortuna il mercato del lavoro presenta ancora qualche residua rigidità in uscita, nonostante la sostanziale abolizione dell’art.18, il che può eventualmente indurre i datori di lavoro a programmare la produzione di più merci a fronte di più ore di lavoro disponibili, abbassando il prezzo di tali merci, nella speranza di venderne di più. Ciò sarebbe possibile considerando che il salario dei lavoratori rimarrà invariato, anche se lavoreranno più ore. Tuttavia va tenuto conto che la produzione di più merci richiede più materie prime, che hanno un costo; pertanto questo discorso ha meno peso di quel che sembrerebbe a prima vista, soprattutto nel settore industriale.
L’abbassamento dei prezzi porterà ad un aumento della domanda e quindi alla ripresa? E’ improbabile. Durante una fase di crisi, la tendenza è favorevole alla contrazione della spesa e l’aumento del risparmio. Anche una diminuzione del prezzo non necessariamente significherà un aumento dell’output, come ad esempio accade nel modello illustrato da Emiliano Brancaccio nell’Anti-Blanchard.

La diminuzione dei prezzi (retta dell’offerta che passa da AS a AS’) non porta ad un aumento dell’output (Y). Tratto da “Anti-Blanchard”, di E.Brancaccio e semplificato per questo articolo da Keynes blog
Si potrebbe tuttavia obiettare che la diminuzione dei prezzi renderebbe le merci italiane più competitive sui mercati internazionali e quindi stimolerebbe le esportazioni. Può darsi, e comunque entro i limiti giustificati dalla cosiddetta “competitività di prezzo”, che sono divenuti però sempre più ristretti, a fronte della cresciuta importanza dell’innovazione di prodotto. In ogni caso, in un momento di “recessione coordinata” come quello attuale, il traino dei mercati esteri sulla domanda appare plausibilmente assai poco significativo in relazione all’eventuale abbassamento dei costi realisticamente possibile con l’aumento dell’orario di lavoro annuale. Ben diverso sarebbe, per dimensioni e quindi efficacia, l’effetto di una svalutazione della moneta, come accaduto negli anni ’90.
Come abbiamo più volte sottolineato, i problemi di produttività del nostro paese non sono certo legati a orari troppo corti o ad un mercato del lavoro troppo rigido, ma in primo luogo a fattori, per così dire, “sul lato del capitale”: specializzazione arretrata e frammentazione del tessuto produttivo in imprese al di sotto della dimensione ottimale.
Pertanto la riduzione delle ferie, in questa fase, avrà nella migliore delle ipotesi un effetto nullo o poco significativo sul PIL. Nella peggiore, potrebbe addirittura incidere negativamente sull’occupazione.
Ben altra è la scala dei problemi e ben altre dovrebbero essere le soluzioni. Continuare a insistere sul lato dell’offerta, caricando sui lavoratori il peso di ogni “riforma strutturale”, non ci tirerà fuori dalla recessione nel breve periodo e non assicurerà la crescita nel lungo. Anzi, è possibile che non farà altro che peggiorare le cose, facendoci per giunta perdere tempo prezioso.
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Interessante articolo che mi consente di evidenziare alcuni punti che sono sfuggiti.
1) In merito alla riduzione delle ferie o allo spostamento delle festività alla domenica: anche ammesso che ci sia un effetto positivo sul pil, tale effetto è, in termini di crescita, limitato all’anno dell’introduzione delle nuove norme. L’anno successivo, infatti, l’effetto calendario – su cui si conta – è praticamente azzerato. Quindi in cambio di un beneficio illusorio e temporaneo, si toglie permanentemente la possibilità ai lavoratori di utilizzare come meglio credono il trade-off tempo di lavoro / riposo (e poi dicono che noi siamo statalisti e illiberali).
2) Concordo poi con l’idea che non vi è nessun automatismo tra orari di lavoro e crescita del pil.
Come non vi è assolutamente nessuna evidenza che aprendo le attività commerciali alla domenica aumenti il consumo (il quale dipende da quanto le famiglie guadagnano), ma che determini solo un differente modello di comportamento (anziché acquistare al sabato si acquista alla domenica, sperando di non avere code alla cassa), così la riduzione delle ferie o l’accorpamento delle festività, non necessariamente porterà ad aumentare la produzione. La quale, oltre che finire in magazzino se non viene smaltita dalle vendite (che dipendono da altri fattori), potrebbe indurre – come avviene nelle grandi imprese rilevate dall’Istat – a ridurre gli orari di lavoro. Infatti nei primi quattro mesi di quest’anno, a causa del calo delle vendite (il fatturato deflazionato con i prezzi alla produzione è sceso del 5,9%), la produzione industriale è stata ridimensionata del 6,2%. Tale riduzione è stata conseguita riducendo la base occupazionale al netto della cig del 2,4% e ai sopravvissuti è stato chiesto di ridurre le ore lavorare dello 0,9% (in media per ogni occupato) rispetto allo stesso periodo del 2011 (il che, se fosse confermato per l’intero anno, annullerebbe il presunto guadagno dell’1% in seguito all’accorpamento delle festività). Poiché in tal modo le ore lavorate in complesso dal settore industriale scendono solo del 3,3% la riduzione della produzione del 6,2% è stata ottenuta riducendo anche i ritmi di produzione del 3% in media per ogni ora lavorata.
Quindi a che serve obbligare la gente a lavorare una o due settimane in più all’anno, se poi – visto il calo della domanda – si traduce in maggiore cig, in minore ore lavorate per addetto e in minore produttività oraria?
Grazie per questo commento che integra il nostro articolo.
Tutto ciò va nella medesima direzione della riforma del mercato del lavoro. Agire sulle ferie è sicuramente un’azione di bassa entità con scarsi benefici economici, ma con pesanti sacrifici e fatiche dei lavoratori. Anche questa inutile misura serve esattamente per la moderazione salariale, attraverso l’evidente effetto di ridurre l’occupazione, come ben argomentato nell’articolo. Almeno le grandi imprese (quelle che ovviamente interessano alla classe dominante oligarchica attuale) avranno necessità di meno personale per produrre gli stessi beni e servizi o potranno ridurre l’orario di lavoro. Mentre le piccole imprese continueranno a massacrare i lavoratori con orari ancora più pesanti. Il tutto avantaggerà le grandi imprese e società i cui profitti aumenteranno (sensibilmente) a scapito dei soliti salariati sfigati, ma non per aumentare la competitività delle imprese italiane, ma di quelle nord-europee, quando verranno a fare gli acquisti con i saldi di fine stagione, dopo gli esperimenti sulle cavie salariate a quattro soldi, con orari di lavoro più lunghi e la minaccia del licenziamento ex art. 18 da agitare come spauracchio per concordare forme sempre più miserabili di precarietà e stipendi da fame!! Comprise?
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Da leggere
Il sospetto è che l’idea di fondo del provvedimento nasconda un’altra finalità. L’aumento dei giorni lavorati dovrebbe ridurre il valore della paga media oraria e di conseguenza di tutti gli istituti in busta paga che vengono retribuiti sulla base di tale valore. In tal caso l’effetto è possibile che si rifletta sul Pil in termini di una riduzione dei consumi almeno per quelli derivanti dai percettori di reddito da lavoro dipendente e se non segue un aumento almeno di pari importo dei consumi provenienti da percettori di redditi di altra natura o di investimenti non vedo come possa tradursi in un aumento del Pil. Credo che il provvedimento rientri nell’ambito dela folle idea europea di spingere i paesi deboli a recuperare competitività attraverso una politica di moderazione salariale.
ci siamo accavallati nell’inviare il messaggio, ma sopra ho detto la stessa cosa che assolutamente la moderazione salariale è il fine di tutta una serie di riforme avviate dalla tecnocrazia europea. Cercando di imitare il successo tedesco, finiremo per essere il mercato ideale della germania che potra usufruire di salariati produttivi, sottopagati e soprattutto che sanno lavorare bene, nel cuore dell’Europa
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Ci aggiungerei che le ore lavorate per l’Italia non sono quelle della statistica ufficiale: i lavoratori precari di sicuro ne fanno di più. Comunque questo, più che un provvedimento del governo Monti, dovrebbe essere chiaramente percepito come un provvedimento del parlamento Berlusconi. Il padrone è ancora al suo posto.
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[…] grafico da keynesblog Share this:FacebookMoreTwitterStampaDiggStumbleUponRedditEmailLike this:Mi piaceBe the first to like this. Pubblicato in: Uncategorized ← Incesto: una legge in Italia rischia di normarlo Commenta per primo […]
L’aumento del monte orario lavorato (teorico) diminuisce il costo orario per addetto e di conseguenza si riflette sul prezzo alla produzione del manufatto e su altri parametri legati al costo per addetto.
Questo avrebbe effetti positivi (effettivi e non teorici) in presenza di un aumento di domanda, crescita di produzione ma del tutto irrilevanti in un momento di stagnazione, come l’attuale.
[…] 1411 (probabilmente grazie ai mini-jobs), 1774 in Italia e 2032 in Grecia, (Fonte OCSE). Invece qui la media delle ore lavorate nel 2010, tanto per conferma. Ok, quel che conta è la produttività […]
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