Sin dagli anni ’90 e ancor più dal 2000 in poi siamo stati bombardati da idee, che forse oggi mostrano la corda, sulla globalizzazione. Si è detto, ad esempio, che lo stato nazionale era un relitto del passato impossibile da difendere e, anche qualora fosse stato possibile, era da superare in ogni caso.
Questo approccio positivo alla globalizzazione veniva accompagnato dall’idea, forse non sbagliata in sé, ma certamente inattuata e forse velleitaria, che era necessaria più globalizzazione, nel senso di maggiori poteri alle istituzioni internazionali in un quadro tuttavia molto differente da quello dato, un quadro di democratizzazione delle decisioni prese a livello globale.
Questo però, come si diceva, non è avvenuto e oggi saremmo invece di fronte a una riscossa dello stato nazionale. Lo spiega Dani Rodrik in un articolo su Project-Syndacate. Per Rodrik:
La crisi finanziaria globale ha mandato in frantumi il mito della fine dello stato nazionale. Chi ha salvato le banche, pompato liquidità nel sistema, lanciato stimoli fiscali e fornito sussidi ai disoccupati per sventare una catastrofe? Chi sta riscrivendo le regole sulla supervisione e regolamentazione dei mercati finanziari per prevenire un’altra crisi? Chi si prende la colpa per tutto ciò che non va? La risposta è sempre la stessa: i governi nazionali. Il G20, il Fondo monetario internazionale e il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria hanno spesso agito in modo marginale.
Interessante anche l’analisi sulla situazione europea, molto aderente alla realtà:
Anche in Europa, dove le istituzioni regionali mostrano una certa solidità, sono stati gli interessi e i policy maker nazionali, soprattutto nella persona del cancelliere tedesco Angela Merkel, a dominare le scene. Se la Merkel fosse stata meno desiderosa di austerità per i Paesi europei fortemente indebitati, e se avesse convinto il proprio elettorato nazionale della necessità di un approccio diverso, la crisi dell’Eurozona si sarebbe svolta in modo del tutto differente.
Aggiungeremmo solo che in queste occasioni, paradossalmente, un’istituzione internazionale come il Fondo Monetario ha cercato, sia pure in modo estremamente tiepido, di contenere la furia tedesca per l’austerity, instillando qualche dubbio sull’efficacia della “austerità espansiva”.
Rodrik prosegue con una serie di esempi che dimostrano come vi sia ancora un forte attaccamento all’identità nazionale da parte delle persone, che non sentono affatto delegittimata dalla storia la propria appartenenza ad uno stato nazionale. Tra questi, particolarmente curioso è quello di Internet che per certi versi
si è rivelato meno sconfinato di quanto sembra: secondo uno studio gli americani sono più propensi a visitare i siti web dei Paesi che sono fisicamente vicini rispetto a quelli lontani, anche dopo aver controllato la lingua, il reddito e altri fattori
Nonostante ciò, per Rodnik “siamo ancora in balia del mito calante dello stato-nazione” che fa sognare agli intellettuali “schemi di governance globale poco plausibili” e serve ai politici come “pretesto per l’impotenza”.
Forse sarebbe il caso di stare più con i piedi per terra e anzi valorizzare lo stato nazionale come “strumento dell’azione collettiva”, insiste Rodrik:
Il laissez-faire e la tecnocrazia internazionale non forniscono una valida alternativa allo stato-nazione. L’erosione dello stato-nazione non fa un granché bene ai mercati globali se mancano i reali meccanismi di governance globale. […]
Le sfide odierne non possono essere affrontate da istituzioni che non esistono (ancora). Per il momento, le persone devono optare per soluzioni adatte ai governi nazionali, che rimangono la speranza migliore per l’azione collettiva. Sarà anche un relitto lasciatoci in eredità dalla Rivoluzione francese, ma lo stato-nazione è tutto ciò che abbiamo.
Una riflessione, quella recente di Rodrik, che si congiunge a quella iniziata tempo addietro dall’autore per “smontare” i falsi miti del laissez-faire.
Uno di questi miti è la capacità dell’economia di mercato, senza intervento statale di alcun tipo, di produrre i beni e servizi utili che la comunità richiede (un’idea che, per inciso, Keynes non condivideva). Parlando di Milton Friedman, il grande economista che riportò al centro del pensiero economico i principi liberisti, Rodrik cita un fatto emblematico. Negli anni ’80 Friedman tenne una trasmissione televisiva intitolata “Free to Choose”:
L’immagine di Friedman che la maggior parte delle persone conserverà sarà il sorridente, minuto, umile professore che regge una matita di fronte alle telecamere di “Free to Choose” per illustrare la forza dei mercati. Ci sono volute migliaia di persone in tutto il mondo per fare questa matita, diceva Friedman – per estrarre la grafite, tagliare il legname, assemblare i componenti, e immettere nel mercato il prodotto finale. Nessuna singola autorità centrale ha coordinato le loro azioni; questa impresa è stata compiuta grazie alla magia del libero mercato e del sistema di prezzi.
Sembrava tutto giusto, all’epoca. Ma dopo trent’anni la fine di quella storia è un po’ differente:
Oggi giorno, la maggior parte delle matite nel mondo sono prodotte in Cina – un’economia che è un mix peculiare di impresa privata e direzione statale. […] Dato il successo economico della Cina, è difficile negare il contributo delle politiche governative di industrializzazione […] i pensatori come Friedman lasciano un’eredità ambigua e sconcertante, perché sono stati gli interventisti ad avere successo nella storia economica, laddove conta davvero la realtà.
Insomma, il futuro sembra, come del resto ha dovuto in una qualche misura ammettere anche l’Economist, appannaggio di quelle economie miste che mixano bene Stato e mercato. Rodrik lo spiega con una metafora che riassumiamo così: come per fare una buona limonata bisogna mescolare bene il succo di limone con l’acqua e lo zucchero, per fare una buona economia occorre mescolare appropriatamente stato e mercato.
L’epoca di Reagan, Thatcher e Friedman è stata nel lungo periodo una mina per il benessere e la prosperità.
A tutti gli effetti, presentò il governo come nemico del mercato. E ci rese dunque ciechi di fronte all’evidente realtà che tutte le economie di successo sono, di fatto, delle economie miste. Sfortunatamente, l’economia mondiale si sta ancora confrontando con quella cecità in seguito ad una crisi finanziaria risultata, in misura non trascurabile, dall’aver lasciato i mercati finanziari troppo liberi di correre.
Non semplifichamo, non è un problema giuridfico di forma dello Stato , ma di dimensione e di strumenti a dispsizione. Il debole della costruzione eURIOPEA è A MANCANZA DI UNA BANCA cENTRALE PRESTATORE DI ULTIMA ISTANZA, CIOè DI NON ESSERE UNO STATO FDERALE COME GLI USA. NEGLI USA PRIMA SI COSTRUì LA FEDERAZIONE E DOPO IL DOLLARO FEDERALE SOSTITUì QUELLO DEI SINGOLI STATI. NOI ABBIAMO FATTO IL CONTRARIO E MAL CE NE INCOLSE