La storia ci insegna che le confederazioni di stati sono un po’ simili a quel che furono le baronie feudali di un tempo: anarchia, tirannia e in ultimo guerre erano il prodotto delle divisioni esistenti. Una grande lezione della storia è così quella che si ascrive alla nascita degli Stati Uniti d’America, all’indomani del varo della Costituzione, con la presa in carico della gestione dell’ economia da parte di Alexander Hamilton che, a fronte dei debiti delle ex colonie, istituì l’emissione di titoli di stato garantiti dalla tassazione e iniziò a battere moneta.
E’ rispetto a questo scenario paradigmatico che il britannico “Economist” si chiede se anche l’Europa, in “cronica crisi finanziaria”, possa finalmente conoscere un suo “momento Hamiltoniano”.
I fatti, finora, ci dicono il contrario: riferimenti al federalismo fiscale sono sostanzialmente ancora molto vaghi e non sembrano essere nelle corde di Francia e Germania, paesi con maggiore voce in capitolo. E nel frattempo la “perfida Albione” viene accusata di antieuropeismo. Recentemente a Davos il premier britannico Cameron ha pronunciato tuttavia parole degne del migliore sostenitore degli ideali dell’europeismo, affermando che l’esistenza di un’unione di stati solida e vitale deve fondarsi sulla presenza di un prestatore di ultima istanza (ciò che la BCE non è), l’integrazione economica e la flessibilità nel far fronte agli shock, i trasferimenti fiscali e il debito collettivo.
Per Hamilton il debito era il “necessario prezzo per la libertà”. Ma è la diversità di prospettive che in Europa spinge le cose nel senso contrario a quello che ci si dovrebbe aspettare. L’Europa appare infatti orientata alla costruzione di una fiscalità da cui discenda la coesione politica, un percorso inverso da quello compiuto dagli allora nascenti Stati Uniti d’America. E l’eredità di quel percorso di costruzione dello stato americano ne rappresenta ancora la fondamentale ossatura: esistono regole di bilancio per gli stati, ma il governo centrale è abilitato ad intervenire e la Federal Reserve è banca centrale a pieno titolo, ossia prestatore di ultima istanza. Facendo dell’ironia, l’Economist paragona così l’Europa a un insieme di individui che camminano su una fune in equilibrio precario senza reti di sicurezza. E tutti i progetti in ballo (vedi il fondo salva stati) sono in buona misura “pezze a colori” che non alterano la struttura di fondo di una costruzione che sempre più si sta rivelando sbagliata.
Non esistono i presupposti perché l’Europa diventi a breve una federazione simile agli Stati Uniti d’America. Ma dei passi intermedi possono essere fatti, debbono essere fatti. L’Economist non ha dubbi: il federalismo fiscale è una condizione minimale che deve realizzarsi in Europa per correggere l’estrema fragilità di tutto il suo impianto economico. Il giornale britannico non rimane nel vago e indica alcuni strumenti possibili e urgenti: “Una banca di garanzia dei depositi a livello europeo potrebbe evitare corse agli sportelli. Una messa in comune del debito potrebbe arrestare la corsa dei debiti sovrani. Anche senza un grosso budget, uno schema di assicurazione per la disoccupazione potrebbe essere creato per schivare gli shock asimmetrici.”
Noi ci permettiamo di chiosare il commento dell’Economist dicendo che l’Europa si trova come a dover salire una scala mobile al contrario. Ma non può incolpare altri che se stessa per il modo in cui ha costruito l’Euro. Eppure almeno un modello da seguire l’aveva.