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Il FMI: gli investimenti pubblici si ripagano da soli

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Prosegue il ritorno al buon senso economico del Fondo Monetario Internazionale sotto la guida di Olivier Blanchard. Che ora scopre, dati alla mano, che un dollaro speso in infrastrutture ne genera quasi tre

di Larry Summers, dal Financial Times

Qualcuno dice che l’acronimo IMF significhi in realtà “it’s mostly fiscal” (“è per lo più fiscale”, n.d.t.). Il Fondo Monetario internazionale è da sempre uno dei più agguerriti sostenitori dell’austerità come rimedio alla crisi finanziaria, e ogni anno bacchetta decine di paesi ‘fiscalmente indisciplinati’. Il consolidamento fiscale – eufemismo per tagli alla spesa pubblica – è la precondizione per mettere in moto i programmi di salvataggio dell’FMI. Ancora l’anno scorso, l’FMI considerava il ‘buco’ fiscale degli Stati Uniti equivalente al 10% del PIL.

Dato questo quadro di partenza, il recente World Economic Outlook, il documento sulle prospettive economiche mondiali, è un testo molto interessante e di sicuro rilievo. Nella sua pubblicazione più importante, l’FMI raccomanda infatti di aumentare consistentemente l’investimento in opere pubbliche, e non solo per gli Stati Uniti, ma per la maggior parte dei paesi del mondo. Nel rapporto si sostiene che in un contesto di alta disoccupazione (è il caso della maggior parte dei paesi industrializzati) è molto più utile, per stimolare l’economia, indebitarsi per investire, piuttosto che tagliare la spesa o aumentare le tasse. Meglio ancora, l’FMI sostiene esplicitamente che investimenti pubblici correttamente concepiti finiscono per ridurre i deficit, piuttosto che aumentarli.

L’investimento in opere pubbliche si paga da solo. Come arriva l’FMI a simili conclusioni? Consideriamo un ipotetico investimento in une nuova autostrada, finanziato totalmente in deficit. Facciamo l’ipotesi, irrealistica e prudenziale, che il processo di costruzione dell’autostrada non generi alcuno stimolo economico. In seguito immaginiamo che l’investimento iniziale generi un ritorno netto del 6 per cento; anche questa è un’ipotesi molto restrittiva, alla luce delle stime comunemente accettate sui benefici degli investimenti pubblici. Quindi, le entrate fiscali annuali, corrette per tenere conto dell’inflazione, crescerebbero dell’ 1,5% della somma investita, poiché lo stato chiede circa 25 centesimi per ogni dollaro di reddito supplementare. Il tasso di interesse reale (il tasso d’interesse nominale depurato dell’inflazione) è inferiore all’1 per cento negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi industrializzati, da quasi 30 anni. In questo senso gli investimenti infrastrutturali possono ridurre il peso del debito sulle generazioni future.

In realtà, questo calcolo sottostima l’impatto positivo sul bilancio statale di politiche d’investimento “ben orientate”, come riconosciuto dall’FMITrascura infatti sia le maggiori entrate che provengono dai nuovi redditi dei lavoratori impiegati nella costruzione delle opere pubbliche, sia i benefici di lungo termine che scaturiscono da politiche anti-recessive. Si trascura cioè il fatto che rinviare la realizzazione d’infrastrutture carica un fardello sulle future generazioni, al pari dell’aumento del debito pubblico. Si ignora il fatto che aumentando la capacità produttiva di un sistema economico, l’investimento opere pubbliche aumenta la capacità di controllo del debito. Infine un punto decisivo: non si prende in considerazione la possibilità che lo stato generi un dollaro di investimento ad un costo molto inferiore a un dollaro, mettendo in gioco finanziamenti con capitale di rischio, sussidi fiscali, fondi di garanzia sui prestiti.

Quando si considerano questi fattori, l’FMI perviene al risultato che un dollaro investito corrisponde a un ritorno di circa 3 dollari. L’aritmetica di bilancio degli investimenti pubblici diventa ancor più attraente nel momento attuale: il livello di sotto-occupazione delle risorse permette di dilatare gli investimenti in infrastrutture senza penalizzare altre voci di spesa. Se stiamo entrando in una fase di stagnazione secolare, vaste risorse sottoutilizzate si renderanno disponibili nella maggior parte del mondo industrializzato, e per periodi non brevi. 

Se, per quanto riguarda l’investimento, il ragionamento si applica praticamente ovunque – con la sola eccezione, forse, della Cina, dove gli investimenti in infrastrutture sono già stati ampiamente utilizzati per un certo periodo – la strategia più adeguata differisce per ogni paese. Negli Stati Uniti c’è bisogno di programmi di bilancio a lungo termine, che considerino i benefici oltre ai costi. Una maggiore velocità nell’approvazione dei progetti non guasterebbe. Il governo può contribuire sostenendo l’investimento privato in settori come le telecomunicazioni e l’energia.

In Europa, bisogna creare nuovi meccanismi per lanciare progetti di infrastrutture che si autofinanzino, al di là dei limiti di bilancio attuali. Questo si potrebbe fare rafforzando la Banca Europea degli Investimenti, oppure utilizzando strategie di allocazione di capitali nel quadro di una riforma fiscale.

Sui mercati emergenti, bisogna innanzitutto scegliere programmi di spesa ragionevoli, che assicurino benefici economici certi.

Ma in tutti i casi il punto essenziale è riconoscere che in tempi di contrazione dell’economia, e di scarsi investimenti pubblici, ebbene sì, esiste “un pasto gratis” [allusione allo slogan “non esiste un pasto gratis” utilizzato da Milton Friedman per criticare l’approccio keynesiano, n.d.t.].  C’è un modo, cioè, per rafforzare l’economia e migliorare i propri bilanci. Il Fondo Monetario Internazionale, bastione dell’austerità ‘per il nostro bene’, è infine arrivato a rendersene conto. I paesi che avranno l’intelligenza di seguire queste indicazioni ne trarranno ampi benefici.

L’autore è docente universitario ad Harvard ed ex ministro del tesoro degli Stati Uniti

Fonte: http://blogs.ft.com/the-a-list/2014/10/06/why-public-investment-really-is-a-free-lunch/

Traduzione di Faber Fabbris

25 commenti su “Il FMI: gli investimenti pubblici si ripagano da soli

  1. ma Larry Summers lo stesso che ha fatto di tutto per deregolamentare i mercati finanziari quando era segretario del tesoro? bene…

  2. Io non ho chiaro ancora se ci si renda abbastanza bene conto che, anche senza volersi addentrare a cercare altre pulci nel ragionamento, si parla di “investimenti pubblici correttamente concepiti”; e che almeno nel caso Italiano NON si può MINIMAMENTE far conto su una tale ipotesi, anzi tutt’altro.
    In sostanza: va bene, voglio crederci, ma PRIMA dobbiamo sbarazzarci con ogni mezzo ed a qualunque costo dell’attuale “casta” politica (e non solo), POI razionalizzare la spesa pubblica (come minimo azzerando le poltrone e poltroncine inutili tipo ICE, portando i compensi a livelli accettabili e parametrati al PIL medio pro capite e SOPRATTUTTO ricalcolando TUTTE le pensioni e/o vitalizi col sistema contributivo, lasciandole semmai ai livelli attuali fino ad un certo limite che deve essere molto “sociale”, diciamo pari al PIL medio pro capite) ed il funzionamento di tutto il sistema (con sparizione di tutto ciò che grava inutilmente sui ceti produttivi, costi per professionisti vari in primis, dal notaio all’avvocato al tecnico della caldaia) e SOLO ALLORA potremo pensare di ottenere 3 al prezzo di 1.
    Perché in difetto NON raggiungeremmo MAI quell’effetto, cioè il magico moltiplicatore “pari a 3”, ma otterremmo anzi l’effetto opposto, il che è ESATTAMENTE ciò cui assistiamo oggi ed il motivo per il quale stiamo qui a perdere tempo in queste chiacchere oziose.
    Finché viaggiamo con i finestrini spalancati, il condizionatore al massimo, il portapacchi con le valigie (vuote) sul tetto dell’auto, l’acceleratore a tavoletta e le marce corte, non ha alcun senso insistere nel dire che per consumare poco in autostrada bisogna fare una buona messa a punto del motore.

    Ovviamente poi bisogna verificare che l’investimento iniziale porti effettivamente ad un rendimento del 6% o più. Perché si dà il caso che al momento dalle nostre parti si parli più che altro di investimenti in infrastrutture SENZA ritorno. Si pensi per esempio alla Civitavecchia – Livorno, per la quale è stato ampiamente dimostrato che anche nella migliore delle ipotesi (le previsioni di sviluppo del traffico fornite dai tecnici politicamente ammaestrati della Regione Toscana, estremamente ottimistiche, redatte in un momento molto diverso dall’attuale e già ampiamente smentite dalla realtà) il punto di pareggio non arriverà MAI. E quindi.
    Appare perfettamente ovvio che una Lira ben investita frutta più di una Lira tenuta in tasca; ma non è sufficiente dire che con l’acqua calda (per restare strettamente in tema) ci si lava meglio, è necessario anche fornirla quest’acqua calda. Al momento va di moda buttarsi in testa acqua ghiacciata, invece.

  3. penso propio che questa volta il signor g.e.o abbia propio ragione, ed anche i parametri di riferimento vanno bene, solo una cosa non mi convince del tutto,ed è il fatto che in questo paese purtroppo da molto tempo siamo in emergenza istituzionale, in quanto non abbiamo solo, una finta classe politica ,ma anche altri settori istituzionali, (finti inutili o corrotti) come( sindacati, magistratura,”industriali” ecc) ed è qui che lo stato dovrebbe rinnovarsi,sono in questi settori che dovrebbero essere indirizzate le riforme, ma non quelle che vogliono (o che dicono di aver attuato) renzi e berlusconi, ma riforme che andrebbero a colpire quell,enorme intreccio di conflitti di interessi istituzionali(che nessuno, si propio nessuno ha interesse a portare avanti) altrimenti tutto l,attuale impianto di corruzione che si mantiene come una piramide “istituzionale” cadrebbe. purtuttavia bisogna dire che il sistema economico attuale di cui il FMI è uno dei maggiori sponsor, non solo non è in grado di indirizzare gli stati (la politica ) o quel che ne resta, verso riforme di risanamento non solo economiche (di cui peraltro finora ci ha azzaccato quasi sempre poco, a volte commettendo “errori” banalissimi) ma anche istituzionali. comunque penso che per fare quello che dice lei ci vuole una riv….. un altro popolo , altre istituzioni. pertanto in attesa, forse qualche investimento mirato (pur considerando l,alta corruzione che c,è da noi ma non solo) potrebbe dare dei risultati, solo che ci dovrebbero dire anche come fare. forse come i francesi?

    • Non è questione di avere ragione. Il punto è che le raffinate teorie dei nostri grandi guru dell’economia prescindono totalmente da ciò che invece dovrebbe essere il loro principale riferimento, e cioé: la realtà dei fatti.
      Trovo non solo inutile, ma anche profondamente idiota, proporre soluzioni che appaiono del tutto FAVOLISTICHE se ci si dimentica che la scelta degli investimenti in Italia NON è orientata al benessere dei cittadini ma all’arricchimento personale e se ci si dimentica anche che il sistema “redistributivo” da noi non va nel senso di distribuire benessere e sicurezza negli strati sociali più bassi, ma lo concentra nelle mani della Casta e dei soliti noti.
      In Italia non ha proprio senso parlare di economia. Qui si tratta solo di fermare il ruba ruba ed il mangia mangia.

  4. […] soluzione sarebbe aumentare gli stipendi ai tedeschi e aumentare gli investimenti pubblici (lo dice perfino il FMI) ma lì non sono d’accordo i suoi datori di lavoro, cioè gli industriali e i banchieri […]

  5. […] soluzione sarebbe aumentare gli stipendi ai tedeschi e aumentare gli investimenti pubblici (lo dice perfino il FMI) ma lì non sono d’accordo i suoi datori di lavoro, cioè gli industriali e i banchieri […]

  6. È già un fatto positivo che l’istituzione che di fatto detta le politiche economiche agli stati più industrializzati inizi a mettere in discussione il paradigma che spazzò via trent’anni quello keynesiano.
    Lo vedo come uno “scricchiolio” di un senso comune che sta producendo solo disastri.
    L’approccio risente però chiaramente di un’incapacitá di fondo a proporre nuove soluzioni coerenti con le modifiche radicali intervenute nella società e che il “sistema keynesiano” ha così efficacemente prodotto. Non ci si rende ancora conto adeguatamente, secondo me, che è proprio quel sistema che è entrato in crisi negli anni 70 del secolo scorso ma si prende solo atto che il tentativo di superare quel sistema entrato in crisi reimponendo un modello neoliberista era un’illusione distruttiva. Non si va cioè a sperimentare una nuova soluzione percorrendo sentieri inviolati e sconosciuti ma si preferisce infantilmente … tornare indietro riproponendo banalmente politiche keynesiane. Di fatto, in forma rovesciata, è quanto accaduto quando si pensò di superare lo stato sociale keynesiano riproponendo il modello neoliberista.
    Se però non si saprà cercare nuove forme di organizzazione della società che facciano leva sui grandi risultati prodotti dalle politiche keynesiane e comprendere a fondo come è murata la società grazie ad esse, evento che keynes stesso teorizzò con la sua consueta lucidità, anche questo “ripensamento” e ritorno al passato non produrrá quei risultati miracolosi che sono troppo illusoriamente prospettati nell’articolo

  7. L’osservazione di ‘bruno’ è sensata e interessante: per superare l’impasse neoliberista non basterà certo ‘tornare indietro’: è quello che dicono anche alcuni post-keynesiani italiani (per esempio Mazzetti). Però la crisi del keynesismo anni ’70 si colloca in uno scenario ben preciso di iperinflazione da costi, indotta dai paesi OPEC che volevano controbilanciare il ‘gold shock’ di Nixon (lo sganciamento della parità aurea) e recuperare il valore-oro. La situazione attuale è invece proprio quella classica della sottoccupazione senza inflazione (addirittura deflazione nella zona euro) e costo delle materie prime globalmente stabile dal 2008. In questo contesto l’approccio ‘keynesiano’ è totalmente coerente ed urgente.
    Quello che mi pare possa considerarsi come ‘datato’ è piuttosto il tipo di opere pubbliche al quale allude Summers. Esistono altre piste oggi più utili e generazionalmente razionali (penso soprattutto all’Italia) : la riqualificazione ambientale, la difesa del territorio e la messa in sicurezza dell’alveo dei fiumi (vedi Genova), l’acheologia, i musei, etc.
    Rispetto ai mutamenti della società e alla possibilità di riproporre le politiche keynesiane, il vecchio Johnny aveva ben anticipato la situazione di ‘accumulazione completa’ (nella quale i paesi occidentali si trovano oggi), e previsto una misura che potremmo aggiungere a quelle suggerite da Summers per far giocare il moltiplicatore: la riduzione dell’orario di lavoro (Prospettive economiche per i nostri nipoti, 1930).
    Ma il ‘Job Act’ (come vuole il provinciale anglicismo giornalistico) ha ben altre preoccupazioni… che non serva e faccia danni se n’è accorto persino Draghi!

  8. trovo che che le argomentazioni di bruno e faber (ma un po tutti i commenti) colgano bene il punto , e le argomentazioni sono ottime. credo che faber legga bene la realta economica (attuale) infatti essa è ideale per politiche keynesiani pero è innegabile il fatto che il keynesismo è qualcosa di troppo delicato e pericoloso per affidarlo nelle mani dei corrotti, criminali, ed ancora peggio a degli incapaci. quindi al di la di posizioni ideologiche, e necessario che insieme ad un,economia piu sensata e vicina agli interessi della collettivita tutta, e necessario un vero cambiamento delle istituzioni ,a iniziare dalla politica perche non riesco a capire come si applica keynes se non c,e uno stato veramente rappresentativo. pertanto concludo che kneysismo e liberismo sono antitetici. vorrei ricordare che non solo sul piano prettamente economico il liberismo è stato un disastro, ma le stesse motivazioni ideologiche del liberismo si sono rivelate chimeriche.

  9. È certo vero che la classe dirigente italiana attuale -e gli aggettivi portrebbero essere allargati nel tempo e nello spazio- è al di sotto del compito che le incombe. Però attenzione: l’alternativa presente è fra politiche economiche progressiste e retrograde, non tra governi capaci ed incapaci. Non avendo l’opzione massima (keynesismo praticato da classi dirigenti illuminate versus liberismo applicato da classi dirigenti mediocri) preferisco comunque un keynesismo approssimativo.
    Del resto, visto lo stato attuale dell’economia, riconoscere il fallimento pratico -e quindi teorico- dell’austerità espansiva, mia pare un enorme passo in avanti.
    Rileggendo Gramsci, d’altra parte, le tare delle classi dirigenti italiane vengono da lontano: ma per riassorbirle è certo che un sistema economicamente più sano e ‘democratico’ (capace, in definitiva, di redistribuire in maniera più giusta) è fra gli antidoti migliori.
    Empiricamente, propongo di confrontare le classi dirigenti e l’humus culturale del primo dopoguerra (politiche economiche progressiste- in quasi tutti gli schieramenti politici) a quelle dal ’75 ad oggi (politiche economiche retrograde, in quasi tutti gli schieramenti politici). Vedete un po’ voi…

    • Boh. A me pare che oltre il 50% del PIL nazionale passi per le mani dello Stato. Che spende parecchio, tra l’altro, in investimenti pubblici. Sarebbe secondo qualcuno possibile aumentare ulteriormente tale quota? Senza manadre tutto a ramengo definitivamente, intendo?
      A me sembra che il nostro Paese oggi sia la prova tangibile e reale del fallimento non solo del “neoliberismo”, ma soprattutto del “Keynesismo reale”; esattamente come l’Europa Orientale in altra epoca è stata la prova del fallimento del socialismo reale. In Italia l’espansione del debito publico, l’intervento dello Stato e gli investimenti pubblici si fano come si fanno in Italia. Non dico che “non possa” funzionare; dico che prima bisognerebbe aggiustare la macchina eliminando le storture.

      • Andrei cauto sul … fallimento soprattutto del “keynesismo reale”.
        In primo luogo credo sia abbastanza ambizioso parlare di “keynesismo reale”.
        Dopodichè del keynesismo ovvero il sistema che si è basato sulle politiche e sulle strategie delineate da Keynes tutto si può dire tranne che sia fallito. Il trentennio in cui le sue teorie furono applicate a partire da beveridge in inghilterra fino a permeare tutti paese industrializzati (tant’è che samuelson commentò che tutti gli economisti erano diventati keynesiani) è stato indubbiamente un periodo di benesse mai verificatosi con quella evidenza e potenza non in analoghi periodi storici ma in ere storiche nel passato.
        Quello che chiami “fallimento” non è altro che l’esaurimento della validità storica di quelle politiche. Non è quindi un “fallimento” ovvero l’ottenimento di un risultato contrario alle aspettative ma lo svolgimento “coerente” di quanto prospettato dall’economista inglese. Tant’è che lo stesso Keynes nè premise in prospettive economiche per i nostri nipoti, il loro esaurimento dell’effetto propulsivo sull’economia.
        Quello che probabilmente è fallito e fallisce è semmai la nostra capacità di sviluppare a partire da quei risultati di rara efficacia una nuova forma di strategia economica che non neghi (la parola fallimento purtroppo contiene questa accezione) i miglioramenti della nostra qualità della vita prodotti da quel sistema (istruzione, salute, allungamento della vità, ecc.) ma che li raccolga e li sappia gestire superando le contraddizioni che sono intervnute e che sono insite del modo di produzione specificamente capitalistico

      • Il che rimanda alla (mia) solita ooservazione: ma quando Keynes era in vita, quanta parte del prodotto interno di una nazione passava per le mani dello Stato?

  10. L’ha ribloggato su ilblogdive ha commentato:
    così si scopre che

  11. L’ha ribloggato su Per la Sinistra Unitae ha commentato:
    “Lo dice il Fondo Monetario Internazionale, dovrebbe dirlo la #Sinistra, <>”.

  12. Risposta a .g.e.o.

    Il tasso marginale massimo in Francia era, nel 1946 (anno della dipartita di Keynes)
    dell’ 92%, corrispondente alla fascia >50k€ (dollaro del 2009). Cioè ogni € percerpito al di là dei 50.000 annui entrava per i 9/10 nelle casse pubbliche. Situazione simile negli USA (fonte: Piketty, Le Capital au XXI siècle).

    Quanto al carico fiscale medio (che non ha molto senso, perché non tiene conto della distribuzione) passa in Francia dal 22% nel 1945 al 48% nel 1990, cui corrisponde un aumento del PIL da 50miliardi di euro nel ’45 a circa 300 nel 1990 (a euro reali, ovviamente, fonte: INSEE – Istat Francese). In termini di PIB procapite si passa da 3000$ a 17500$ sullo stesso arco di tempo (fonte : Maddison: Statistics on World Population, GDP and Per Capita GDP, 1-2006 AD).

    La produttività oraria (PIL/ore lavorate) aumenta Nello stesso periodo in Francia di un fattore 5,6 (fonte:F. Pigalle)

    In altre parole, l’evoluzione del PIL è stata amplissima proprio in occasione dello sviluppo dello stato sociale, e dell’aumento del prelievo fiscale.

    Il trentennio liberista ha ridotto la ripercussione dei redditi verso il basso, senza, sostanzialmente abbassare il carico fiscale (In Gran Bretagna, per esempio, è fisso al 40% dal 1975, nonostante la Tatcher). Non è dunque il volume del carico fiscale, ma la sua distribuzione che conta (Svezia e Zimbabwe hanno rispettivamente 47% e 49%, ed indici di Gini – gravità delle disuguaglianze- del 25% e del 50%).

    • ???
      Ha senso prendere ad esempio l’evoluzione dell’economia Francese tra l’imediato dopoguerra ed il picco dello splendore più recente?

      • Certo, perché è esattamente dopo quel periodo che si impone la deriva monetarista: operata prima, con qualche esitazione, da Giscard d’Estaing, piani Fourcade -1974- e Barre -1976,ma soprattutto con il ministero Muroy, 1983 (“le tournant de la rigueur”), dopo un tentativo di resistenza di Mitterrand.
        Per una analisi più recente, confrontiamo l’effetto delle politiche liberiste negli ultimi anni (ministeri Mauroy, Chirac, Balladur, e soprattutto Bérégovoy) sul debito pubblico.
        L’aumento è sistematico.
        L’unico periodo recente nel quale si fanno politiche anticicliche è quello 1997-2002 (ministero Jospin, pur con qualche contraddizione) segnato in particolare dall’introduzione delle 35ore.
        È l’unico momento in cui il debito/pil diminuisce (l’ultimo anno non deve essere considerato perché Jospin si dimette il 21 aprile).

        Aggiungo che il bilancio della ‘Securité Sociale’ (INPS+SSN in Francia) è addirittura in surplus negli anni 1998-2001 (come del resto il bilancio dell’INPS italiana, vedasi magistrale articolo di Luciano Gallino: http://archivio.eddyburg.it/article/articleview/9273/0/19/)

        Per vederla più alla lunga, ecco il debito pubblico (a moneta costante) dal 1797.

        Dire insomma che le politiche keynesiane hanno fatto aumentare il debito è quanto meno un po’ approssimativo, come spero apparrà al lettore distaccato.

  13. […] che collega la maggiore disuguaglianza con il calo della sindacalizzazione. Poi, naturalmente, “gli investimenti pubblici sono un pranzo gratis“, nel terzo capitolo del World Economic Outlook dell’autunno 2014. Nel mezzo, il FMI ha […]

  14. […] Tuttavia il moltiplicatore è ritornato sulla scena dopo la crisi. Negli anni cinquanta e sessanta, all’apice del Keynesismo, si stimava che il valore del moltiplicatore fosse approssimativamente pari a due. Negli anni novanta e duemila le stime econometriche mostravano valori molto bassi, assestandosi intorno a 0,5-0,7. Nel 2009 il FMI e la UE portano le stime del moltiplicatore all’interno di una forchetta tra 0,9 e 1,7 (Marcuzzo, 2014). Finalmente abbiamo di nuovo un moltiplicatore che moltiplica, perché questo non si può non vedere – come nel caso dell’Europa dell’austerità – quando la spesa autonoma si riduce. [continua…] […]

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