Le misure fiscali di Obama hanno ridotto la disoccupazione? E in generale i costi hanno superato i benefici? Queste semplici domande sono state rivolte dalla Chicago Booth (proprio quella Chicago Booth) a un panel di economisti che periodicamente risponde a domande sull’attualità economica. I risultati sono a dir poco schiaccianti.
Alla prima domanda ha risposto sì l’82% degli economisti interpellati e sono il 2% si è detto in disaccordo (il resto non ha ha risposto).
La percentuale aumenta se si considerano le risposte pesate per il grado di “convinzione”. In tal caso, conteggiando solo chi ha risposto, la percentuale degli economisti che ritiene che l’intervento fiscale di Obama abbia ridotto la disoccupazione arriva al 97%.
La seconda domanda è ancor più interessante, perché il vantaggio della riduzione della disoccupazione potrebbe essere compensato dai costi dell’intervento stesso. Ma anche considerando tutti questi costi, la stragrande maggioranza (75% tra chi ha risposto) ritiene che lo stimolo fiscale sia stata una buona idea e i convintamente contrari rimangono una piccola minoranza:
Ma la cosa più divertente è che l’unico ad aver risposto negativamente ad entrambi i quesiti è stato Alberto Alesina e per di più dicendosi molto convinto della risposta data
Forse il Corriere potrebbe scegliere come editorialista economico qualcuno della restante quasi totalità degli economisti.
(Si ringrazia Alessandro Guerani per la segnalazione)
Alesina. LOL
Piena bocciatura di Alasina & C., sconfessati dai dati reali, i quali dimostrano l’infondatezza delle loro teorie, e dall’opinione di tanti economisti: facciano pubblico ammenda e ritornino sui banchi di scuola a studiare economia e, possibilmente, diritto, così come avevo proposto in un mio commento –proprio alle teorie alesiniane in materia di lavoro- pubblicato anche su questa rivista nel gennaio 2011 e di cui mi permetto di riportare uno stralcio qui di seguito:
A PROPOSITO DELL’ART. 18: PROF-ECONOMISTI E VACANZA DEL DIRITTO.
In un articolo tempo fà pubblicato sul Corriere della Sera, “Ricchezza, Equità, Troppi gli equivoci”, gli autori prof-economisti Alesina e Giavazzi, parlando delle misure economiche “salva-cresci Italia”, non resistono, neanche essi, alla tentazione di dire la propria in materia di disciplina legale del lavoro, diventato oramai un vero e proprio must per la categoria, quasi uno status symbol. Sembra, in effetti, che oggi nessuno possa fregiarsi del titolo di prof se non si è cimentato sul tema. Che poi lo faccia anche chi di diritto non ha nessuna cognizione, cadendo in “troppi equivoci” e strafalcioni da matita blu (del prof), questo non importa gran che: il titolo di prof autorizza ad occuparsi di tutto, non solo a propinarci le tante “verità” e prof-ezie in materia economica (poi per lo più smentite dai fatti, senza peraltro che nessuno dei tanti prof si senta almeno ridicolizzato e pronto a far pubblica ammenda), ma anche giuridica. A dire il vero, nella stessa materia economica i prof –proprio perché prof- ritengono di essere autorizzati a dire tutto e il contrario di tutto, con argomentazioni che a noi –ma non siamo prof- sembrano perlomeno illogiche, e già per questo poco o niente credibili. E così, ad esempio, gli autori dell’articolo sopra citato affermano –peraltro in armonia con una qualunquistica quanto vecchia opinione (circolante anche all’epoca della grande crisi del 1929)- che, se in Italia la produttività è cresciuta molto meno che negli altri Paesi, ciò è colpa dei sindacati, e quindi dei lavoratori (anche se, aggiungono pudicamente –bontà loro-, qualche colpa ce l’ha pure qualche imprenditore): tesi che brilla non solo per il suo approccio non scientifico, ma soprattutto per la sua contestuale clamorosa contraddittorietà, atteso che solo qualche riga prima, riportando i dati di una (scientifica e documentata) ricerca di Banca d’Italia e Università di Sassari, gli stessi autori rilevano, con buona dose di naiveté, che nel periodo successivo all’introduzione dell’euro, la produttività è cresciuta in quelle imprese che hanno investito inventando nuovi prodotti e cercando nuovi mercati. Con ciò stesso dando ragione a chi –con ben maggiore rigore scientifico- afferma che il calo della produttività in Italia è da imputare, non ai lavoratori (e al sindacato), ma ad una imprenditoria incapace di investire nei fattori incidenti sulla competitività e la crescita, e cioè appunto, innanzitutto, l’innovazione tecnologica e l’internazionalizzazione. Senza dire poi della forzatura, ingiustificata e fuorviante, di spostare il dibattito sull’equità da una doverosa e seria riflessione sul rispetto dei principi costituzionali in materia di partecipazione alle spese pubbliche –eguaglianza, capacità contributiva, progressività del sistema tributario, (art. 53 Cost.)- ad un’asserita demonizzazione della ricchezza, con la conclusione, davvero bizzarra, che l’equità consisterebbe nel togliere diritti sacrosanti a chi ne gode (invece che estenderli a coloro che non ne godono). Leit motiv quest’ultimo assai diffuso e caro ai due autori, che anche in altri interventi -vedasi “Essere prudenti è poco saggio”, Corriere della Sera- esprimono lo stesso concetto moralistico affermando che la riforma del mercato del lavoro deve mirare ad eliminare la disparità fra giovani e anziani attraverso la riforma dell’attuale sistema di protezione per chi perde il lavoro (e non di chi vi entra), e cioè, in parole chiare, togliendo a chi ne gode i suddetti diritti (c.d. flessibilità in uscita). Anche in tale occasione la giustificazione data dai due è quanto meno poco scientifica ed azzardata: la diminuzione della disoccupazione, essi dicono, in Spagna passata dal 17,8% al 8,3% nei dieci anni successivi al 1997, sarebbe effetto dell’abolizione, a partire da detto anno, di vincoli simili a quelli previsti dal nostro art. 18, ma non spiegano perché -nonostante detta abolizione- negli anni successivi la disoccupazione spagnola è arrivata a livelli record fino all’attuale 23% (rispetto al 9% dell’Italia); come non spiegano pure perché, per perseguire l’obiettivo che <> , la soluzione sarebbe quella di far pagare alle imprese stesse una parte dei sussidi di disoccupazione, quando è proprio tale funzione deterrente che giustifica quell’art. 18 che essi vogliono abolire: come non dar ragione al loro accorato invito ad essere … imprudenti! Ma, dove i due si superano, piazzandosi in ottima posizione nella gara di ignoranza e disinformazione dilagante in materia, è a proposito di riforma del diritto del lavoro, laddove (Corriere della Sera, cit.), dopo aver sentenziato che i giovani non possono più aspettarsi un “diritto all’illicenziabilità” e dopo aver bocciato i sindacati (e per contro promosso “l’ottima Fornero”: si sa, i prof danno voti), tacciati di rifiutare il dialogo su questi temi e di disinteressarsi dei giovani e dell’equità intergenerazionale, giungono alla –trita e acriticamente recepita- soluzione del contratto a tempo indeterminato per tutti, “rescindibile” per motivi economici: cioè, in parole povere, abolizione dell’art. 18, rimanendo questione soltanto di quanto un’impresa debba pagare al dipendente licenziato e non più di reintegro nel posto di lavoro. Lasciamo ai prof-economisti –perché questo è il loro mestiere- la discussione sul piano economico, e segnatamente sull’indimostrata e tutta da dimostrare idoneità di una tale misura a determinare la crescita del Paese, anche se appare lecito avanzare almeno qualche dubbio e porre loro qualche domanda: può considerarsi indispensabile detta riforma se la norma in questione ha in realtà un’applicazione del tutto marginale (non si applica alle aziende fino a 15 dipendenti, che rappresentano il 97% del nostro Paese, e al 67% dei lavoratori, nel totale delle cause di licenziamento la questione “reintegro” rappresenta una percentuale minima)? Può ragionevolmente sostenersi che la norma impedisce gli investimenti e allontana i capitali stranieri, quando nel nostro Paese esiste una flessibilità –di diritto e di fatto- dei contratti di lavoro che non trova pari in nessun altro paese (senza parlare dei lavoratori in nero, delle false partite IVA e associazioni in partecipazione, degli escamotages legalizzati –lettere di dimissioni in bianco, ecc.- che rendono la cessazione del rapporto di lavoro la cosa più facile al mondo, più dello 80% delle assunzioni nel nostro Paese è fatto con contratto precario, risolvibile in qualsiasi momento), oltre ad un livello salariale tra i più bassi in Europa? La risposta, che viene dal “campo”, da imprenditori come, ad es., De Benedetti, Abete, Colaninno, più che dalla teoria ancorata ai “miti” propagandati dai tanti <> (Valerio Selan), è no: «Togliamo di mezzo questa puttanata del dibattito sull’articolo 18. Io faccio l’imprenditore da 54 anni, non mi sono mai imbattuto nell’articolo 18. E quando incontro un amico americano che mi dice che non investe in Italia per l’articolo 18 scopro che non l’ha mai letto» (De Benedetti). Ma, lasciata ai prof economisti … l’economia, se proprio qualcuno si ostini ancora a pensare che il problema dell’Italia sia l’art. 18 e che la salvezza/crescita del paese dipenda dalla riforma delle regole del diritto del lavoro invece che dall’adozione di politiche industriali (inesistenti, e ciononostante ignorate dalle “ricette” salvifiche dei prof economisti, che pure di questo, e non di diritto, dovrebbero occuparsi), lascino essi a chi si occupa di diritto –o comunque a chi non ignora questo aspetto essenziale della società civile- la discussione sul piano giuridico, che dovrebbe essere necessariamente e logicamente preliminare, se non altro per il fatto indubitabile che di legge –in particolare art. 18 L 300/70- e di contratto (di lavoro) stiamo parlando, oltre che per la considerazione che, in forza di quei principi, il lavoro è innanzitutto un diritto ed un valore sociale costituzionalmente tutelato, non solo un rapporto economico, (artt. 1, c. 1°, e 4, c. 2°, Cost.). (omissis) ……………………. Per finire, una proposta (ovviamente provocatoria): lasciamo pure che i prof dicano la loro –è un diritto, in democrazia-, ma aspettiamoli poi, con fanfara e fiori, alla resa dei conti, quella dei fatti, i quali soli possono bocciare o promuovere, anche se in questo Paese l’amnesia (nel senso di dimenticare quello che si è detto il giorno prima) e l’irresponsabilità (nel senso di non rispondere delle proprie parole ed azioni) sono vizi talmente comuni da essere considerati oramai virtù da premiare (magari con nuovi e prestigiosi incarichi governativi, accademici, bancari, ecc.). A quel punto, che prima o poi inevitabilmente arriva, se i fatti -dando ragione a chi autorevolmente sostiene che le teorie macroeconomiche negli ultimi trent’anni propinateci dai prof economisti sono state «spettacolosamente inutili al meglio, e positivamente dannose al peggio, tant’è che noi viviamo nell’era buia della macroeconomia» (Paul Krugman, premio Nobel) e che <> (Guido Rossi)- dovessero dimostrare che, ancora una volta, i prof ci hanno raccontato inesorabili panzane (per non usare il più … raffinato “francesismo” di De Benedetti) e le manovre studiate (poco) non sono quelle che possono rappresentare la “vera” soluzione dei problemi del nostro Paese e determinarne uno nuovo sviluppo sostenibile; che a tale scopo non può servire né la riforma delle pensioni (che già in altri Paesi che l’anno adottata, Germania per es., si è dimostrata più dannosa che utile, con la conseguenza che già si pensa ad una giudiziosa marcia indietro) ed in particolare l’innalzamento dell’età pensionabile (che, inevitabilmente, porta con se l’effetto nefasto di un ulteriore innalzamento dell’età di ingresso nel lavoro dei giovani), né l’abolizione dell’art. 18 (che non fa crescere né l’occupazione né la produttività), né l’invenzione di nuove e fantasiose forme di contratto di lavoro (magari in aggiunta alle oltre quaranta già ideate dalla fervida fantasia di Biagi, ora oggetto di revisione critica anche da parte dei suoi stessi idolatri) che stravolgono l’unica forma correttamente ammissibile che il diritto del lavoro (quello vero – e veramente moderno- dei grandi giuslavoristi come Santoro-Passarelli, Giugni, ecc., frutto dell’applicazione di principi di civiltà indisponibili e non negoziabili che nessuna crisi finanziaria, mercato, lezione economica, pseudo-modernismo o imposizione della BCE, può distruggere) ha elaborato in decenni di progresso civile e legittime conquiste democratiche, almeno facciano, i prof, pubblica ammenda e, dopo aver rinunciato al pomposo titolo, ritornino sui banchi di scuola! Almeno, dopo essere stati tediati dalle quotidiane lezioni dei garruli ed onnipresenti prof-economisti, potremo anche noi –se avremo ancora la forza di scherzare- riderci su, pensando a quello che a proposito degli àuspici diceva -e potremmo dire oggi dei prof-economisti- lo storico di quell’epoca: e cioè che questi antichi sacerdoti romani, quando si incrociavano per strada, non potevano fare a meno di sghignazzarsi addosso l’un l’altro!
Alla fine dell’articolo ho pensato ad un concetto: Bastian contrario.
Ma da dove deriva questa espressione? Non si sa esattamente ma sembra interessante….
http://it.wikipedia.org/wiki/Bastian_contrario
krugman ci ha scritto un commento su questo, qualche giorno fa, interessante molto
Knowledge Isn’t Power
JULY 31, 2014
Paul Krugman
One of the best insults I’ve ever read came from Ezra Klein, who now is editor in
chief of Vox.com. In 2007, he described Dick Armey, the former House majority
leader, as “a stupid person’s idea of what a thoughtful person sounds like.”
It’s a funny line, which applies to quite a few public figures. Representative
Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, is a prime current
example. But maybe the joke’s on us. After all, such people often dominate
policy discourse. And what policy makers don’t know, or worse, what they think
they know that isn’t so, can definitely hurt you.
What inspired these gloomy thoughts? Well, I’ve been looking at surveys
from the Initiative on Global Markets, based at the University of Chicago. For
two years, the initiative has been regularly polling a panel of leading
economists, representing a wide spectrum of schools and political leanings, on
questions that range from the economics of college athletes to the effectiveness
of trade sanctions. It usually turns out that there is much less professional
controversy about an issue than the cacophony in the news media might have
led you to expect.
This was certainly true of the most recent poll, which asked whether the
American Recovery and Reinvestment Act — the Obama “stimulus” — reduced
unemployment. All but one of those who responded said that it did, a vote of 36
to 1. A follow-up question on whether the stimulus was worth it produced a
slightly weaker but still overwhelming 25 to 2 consensus.
Leave aside for a moment the question of whether the panel is right in this
case (although it is). Let me ask, instead, whether you knew that the
pro-stimulus consensus among experts was this strong, or whether you even
knew that such a consensus existed.
I guess it depends on where you get your economic news and analysis. But
you certainly didn’t hear about that consensus on, say, CNBC — where one host
was so astonished to hear yours truly arguing for higher spending to boost the
economy that he described me as a “unicorn,” someone he could hardly believe
existed.
More important, over the past several years policy makers across the
Western world have pretty much ignored the professional consensus on
government spending and everything else, placing their faith instead in
doctrines most economists firmly reject.
As it happens, the odd man out — literally — in that poll on stimulus was
Professor Alberto Alesina of Harvard. He has claimed that cuts in government
spending are actually expansionary, but relatively few economists agree,
pointing to work at the International Monetary Fund and elsewhere that seems
to refute his claims. Nonetheless, back when European leaders were making
their decisive and disastrous turn toward austerity, they brushed off warnings
that slashing spending in depressed economies would deepen their depression.
Instead, they listened to economists telling them what they wanted to hear. It
was, as Bloomberg Businessweek put it, “Alesina’s hour.”
Am I saying that the professional consensus is always right? No. But when
politicians pick and choose which experts — or, in many cases, “experts” — to
believe, the odds are that they will choose badly. Moreover, experience shows
that there is no accountability in such matters. Bear in mind that the American
right is still taking its economic advice mainly from people who have spent many
years wrongly predicting runaway inflation and a collapsing dollar.
All of which raises a troubling question: Are we as societies even capable of
taking good policy advice?
Economists used to assert confidently that nothing like the Great
Depression could happen again. After all, we know far more than our greatgrandfathers
did about the causes of and cures for slumps, so how could we fail
to do better? When crises struck, however, much of what we’ve learned over the
past 80 years was simply tossed aside.
The only piece of our system that seemed to have learned anything from
history was the Federal Reserve, and the Fed’s actions under Ben Bernanke,
continuing under Janet Yellen, are arguably the only reason we haven’t had a
full replay of the Depression. (More recently, the European Central Bank under
Mario Draghi, another place where expertise still retains a toehold, has pulled
Europe back from the brink to which austerity brought it.) Sure enough, there
are moves afoot in Congress to take away the Fed’s freedom of action. Not a
single member of the Chicago experts panel thinks this would be a good idea,
but we’ve seen how much that matters.
And macroeconomics, of course, isn’t the only challenge we face. In fact, it
should be easy compared with many other issues that need to be addressed with
specialized knowledge, above all climate change. So you really have to wonder
whether and how we’ll avoid disaster.
A version of this op-ed appears in print on August 1, 2014, on page A23 of the New York edition with the headline: Knowledge Isn’t Power.
OT (ma non troppo)
Qualcuno saprebbe indicarmi in questi paesi chi ha una banca centrale indipendente (monetarista) e chi prestatore di ultima istanza verso lo stato (banca centrale keynesiana)?
USA
Inghilterra
Giappone
Svezia
Norvegia
Danimarca
Svizzera
Francia pre euro
Grazie
Teoricamente hanno tutte una banca centrale indipendente. TEORICAMENTE (e fomalemente).
Non e’ indipendente , nemmeno formalmente, invece, la banca centrale cinese, credo. Ma son questioni di lana caprina, poste in questo modo.
Grazie della risposta…quindi nessuna è una banca centrale che possa acquisire i TdS sul mercato primario abbassando il tasso nominale.
Però possono emettere moneta sul mercato per far risultare i tassi reali di interesse = 0 (circa).Scusami se dico cose imprecise sto imparando.
Domanda: E’ un caso che gli ultimi 2 articoli (da me letti), pubblicati sul Corriere della Sera, Alesina e Giavazzi li abbiano scritti non più a 4 mani ma separati? Da qualche parte (ma non ricordo dove) ho letto che non vanno più d’accordo sull’austerità. Anche Giavazzi ha abbandonato Alesina?
Forse Giavazzi avrà capito che accompagnarsi con Alesina non giova all’immagine
Alesina fece i lavori proprio inerenti l’indipendenza delle banche centrali
“Odd Man Out”… Novello Galileo ? O ultimo soldato giapponese nel Pacifico ?
Fitoussi dai tempi di Mitterand parla dell’austerita’ come esito logico per le stanze dei bottoni europee, che in manzanza di un impegno comune allo stimolo rischiano di svenarsi per favorire le esportazioni altrui. Se invece di arrampicarsi sugli specchi Alesina ammettesse che il problema e’ mettere d’accordo i vari governi europei sarebbe di certo piu’ credibile, Ma, mi chiedo, perche’ il “Corriere” deve continuare ad arrampicarsi sugli specchi ?
[…] esempio pratico? Come acutamente riporta Keynesblog, la prestigiosa Booth University di […]