di Davide Antonioli e Paolo Pini
In questi giorni si costruisce il nuovo governo Renzi. Il “lavoro” è annunciato come uno dei pilastri del programma di governo da attuare nel mese di marzo. Renzi parte dal JobsAct abbozzato a gennaio. Occorre riprendere le sue criticità e verificare poi in che direzione si muoverà il governo. Segnerà quel cambio di verso che il futuro primo ministro ha annunciato, oppure si appresta ad essere una tappa ulteriore senza soluzione di continuità con il passato?
Il JobsAct potrebbe semplicemente inserirsi nel solco di una politica neo-liberista che informa le attuali proposte di riforme strutturali. Semplificazione, meno burocrazia e meno regole potrebbero sottendere una confermata volontà di deregolamentare il mercato del lavoro, rendendolo ancora più flessibile, non solo in entrata, ma anche in uscita, riducendone le tutele.
Se questo fosse l’obiettivo, esso si inscriverebbe appieno nel solco della politica europea della flessibilità del lavoro per riacquistare competitività con le svalutazioni competitive interne, del lavoro. Se così fosse, il programma sarebbe da rigettare. Appropriate sarebbero le osservazioni di Cesare Damiano, o di Stefano Fassina, quelle ancor più critiche di Francesco Sinopoli, e molto diverso sarebbe l’approccio del governo Renzi rispetto alla visione del “decalogo del lavoro” di Sergio Bruno .
Il programma sul lavoro dovrebbe invece segnare una discontinuità rispetto al passato, e non avvalorare le tesi “riformiste” di Scelta Civica e del senatore Pietro Ichino. Si dovrebbe andare verso una radicale eliminazione del supermarket dei contratti per indurre le imprese ad investire in capitale cognitivo ed in innovazione organizzativa, invece di introdurre un contratto a tutele progressive che si affianchi alle decine di modalità esistenti senza modificare i diffusi comportamenti difensivi delle imprese. Se si vuole introdurre il contratto a tutele progressive, lo si faccia non a complemento dell’esistente, ma in sostituzione di molto dell’esistente.
Al contempo, l’enfasi quasi ossessiva sulla riduzione generalizzata del costo del lavoro come strumento per accrescere la competitività, nega sia il ridotto peso che ha il lavoro nei costi complessivi dell’impresa, sia la rilevanza dell’innovazione nei processi e nei prodotti, nella qualità del lavoro. Questi sono invece fattori cardine per contrastare la stagnazione della produttività che frena sia competitività che retribuzioni, e quindi domanda di mercato, estera ma soprattutto interna.
La riduzione del cuneo fiscale, il nuovo mantra, avrebbe un senso positivo solo se almeno queste tre condizioni sono rispettate:
a) che sia concentrata nelle fasce di lavoro a basso reddito, in modo tale da costituire una leva significativa per sostenere redditi netti e quindi consumi interni;
b) che privilegi le imprese che investono in innovazione, tecnologie verdi e conoscenza, e non si applichi in modo generalizzato a tutte le imprese;
c) che sia realizzata nel quadro di una revisione delle detrazioni fiscali e delle aliquote fiscali marginali sui redditi, in modo da introdurre una ben maggiore progressività della tassazione.
Inoltre, taluni interventi sul lavoro, più che sul mercato del lavoro, presenti e da rafforzare nel JobsAct sono essenziali: rappresentanza e diritti, assegno universale, minimi salariali, scuola e formazione. Questi sono volti ad estendere i diritti e le opportunità, coniugando i primi con le seconde; sarebbe una strada opposta a quella delle riduzioni delle tutele del lavoro praticata da decenni. Se si vuole rilanciare la competitività di qualità delle imprese sui mercati, occorre partire da questi nodi.
Convivono poi nel JobsAct idee di politica industriale pubblica per i settori strategici, sia tradizionali e maturi, sia innovativi. Questa non può che essere complementare a politiche macro, e quindi orientata a sostenere, in primis, la domanda interna, di cui l’impresa percepisce sia la mancanza congiunturale che la rilevanza strutturale. Creare domanda interna senza investimenti pubblici, però, è oggi illusorio ed il lavoro senza questa domanda non si crea. Al contempo, avere una idea di politica industriale significa scegliere come e dove posizionare la nostra manifattura nel mercato globale, in termini di tecnologie, produzioni e domanda, e ciò implica cambiamenti strutturali del sistema economico, non solo crescita della domanda. L’Europa è anche il luogo dove si intende lanciare il nuovo Industrial Compact con l’obiettivo di portare la manifattura al 20% del Pil nel 2020 (EC, 2014). Anche a questo occorre rapportarsi se non si vuole rischiare l’isolamento ed il declino industriale.
Non dimentichiamo però che l’attivazione di forti investimenti passa attraverso la rimozione dei vincoli di bilancio (3% deficit/Pil e 60% debito/Pil) (Pini, 2013) imposti ai paesi dell’eurozona, se non si vuole rimanere ad un puro esercizio retorico. Pensare che le riforme strutturali si realizzino nel rispetto di tali vincoli condanna non solo l’Italia a periferia dell’Europa, ma la stessa idea di Europa.
Solo se tale fosse il senso del JobsAct e la volontà di politica economica che lo sottende, allora vi potrebbe essere spazio per articolarne i precisi contenuti e farne un programma di governo per il “lavoro”. Questo programma dovrebbe essere tale da fornire risposte chiare alle seguenti domande cruciali.
Primo, la visione programmatica del governo Renzi intende condurre l’Italia nella costruzione di un nuovo paradigma industriale fatto di tecnologie verdi e conoscenza (vedi Perez, 2013, e Pianta, 2013) sulla cui base fondare lo sviluppo della società europea per i prossimi decenni?
Secondo, il modello economico sottostante la visione programmatica riconosce alle istituzioni un ruolo regolatorio e di indirizzo del mercato, che, giova ricordare, è anch’esso una istituzione a cui è delegato il compito di regolare le transazioni tra soggetti economici?
Terzo, si intende recuperare l’idea delle “riforme di struttura” alla Riccardo Lombardi, oppure si adotta l’idea regressiva delle “riforme strutturali” che appartengono ad una cultura davvero ottocentesca e pre-keynesiana?
Quarto, si potrebbe prefigurare un ritorno a quell’entrepreneurial state alla Mariana Mazzucato (2013), nel quale la politica economica non si esaurisce nel sostegno della domanda pubblica come componente quantitativa della domanda effettiva, quanto si caratterizza come politica della spesa pubblica che concorre a realizzare le condizioni di specializzazione produttiva e di politica dell’innovazione, come ci ricorda anche Roberto Romano?
Sappiamo bene che i motivi di preoccupazione sono numerosi, e che probabilmente rintracciare risposte soddisfacenti alle precedenti domande nel programma di governo sarà una impresa ardua, per alcuni versi impossibile. Siamo combattuti tra il pessimismo della regione e l’ottimismo della volontà. Per il primo, non siamo certo confortati dalle modalità con le quali il governo si annuncia. Per il secondo, dobbiamo forse guardare oltre, soprattutto al dopo e al di fuori della prospettiva governativa.
Una versione ridotta di questo articolo è comparsa su Sbilanciamoci
Riferimenti
Bruno S. (2014), “Un decalogo per il Piano del Lavoro”, Sbilanciamoci.info, 14 gennaio: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Un-decalogo-per-il-Piano-del-Lavoro-21658.
Damiano C. et al. (2014), “Decalogo per il Jobs Act”, L’Huffington Post, 17 gennaio: http://www.huffingtonpost.it/cesare-damiano/decalogo-per-il-jobs-act_b_4616154.html.
EC (2014a), “Communication for a European Industrial Renaissance”, EC COM14/2, Brussels, 22 gennaio: http://ec.europa.eu/enterprise/initiatives/mission-growth/index_en.htm#h2-1
EC (2014b), “State of the Industry, Sectoral overview and Implementation of the EU Industrial Policy”, EC SWD 14/3, Brussels, 22 gennaio: http://ec.europa.eu/enterprise/initiatives/mission-growth/index_en.htm#h2-1
Fassina et al. (2014), “Memo per il programma di un governo di svolta”, The Huffigton Post, 8 febbraio: http://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/memo-x-il-programma-di-un_1_b_4751051.html
Ichino P. (2014), “Semplificazione e Flexsecurity”, pietroichino.it: http://www.pietroichino.it/?p=1079
Lombardi R. (2013), “Lombardi 2013”, convegno Fondazione Basso, 10-11 aprile, Roma: https://archive.org/details/2013_lombardi
Mazzucato M. (2011, 2013), The Entrepreneurial State. Debunking Public VS Private Sector Myths, Anthem Press, Londra, New York: http://marianamazzucato.com/projects/entrepreneurial-state/
Perez C. (2013), “Unleashing a Golden Age after the Financial Collapse: Drawing Lessons from History”, Environmental Innovation and Societal Transitions, vol.6, marzo, pp.9-23: http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2210422412000743.
Pianta M. (2013), “An Industrial Policy for Europe”, Paper alla “19th Conference on Alternative Economic Policy in Europe”, Londra, 20-22 settembre, in Global Research: http://www.globalresearch.ca/an-industrial-policy-for-europe/5362751.
Pini P. (2013), “What Europe Needs to Be European”, Economia Politica, vol.30, n.1, pp.3-12: http://www.rivisteweb.it/doi/10.1428/73097
Romano R. (2014), “Torna l’economia”, il Manifesto, 10 gennaio: http://ilmanifesto.it/torna-la-politica-economica/.
Sinopoli F. (2014), “Appunti su contratto unico e articolo 18 aspettando il «Job act»”, Associazione Paolo Sylos Labini, 10 gennaio: http://www.syloslabini.info/online/appunti-su-contratto-unico-e-articolo-18-aspettando-il-job-act/.
La riforma del lavoro intesa come riforma del diritto del lavoro, non può non (se si vuole restituire alla parola riforma il senso nobile di altre epoche) essere anche ripristino della certezza del diritto. Il profluvio caotico di forme contrattuali o para contrattuali, l’incessante tormentosa modifica ( a volte di punti e virgole ) ha prodotto una mostruosa tendenza a ricercare la ripresa produttiva sul solo o prevalente versante della estrema flessibilità nell’uso del lavoratore e nella riduzione del salario reale. Allo abbattimento della dignità professionale del lavoro si è accompagnata la mancato radicale rimodulazione dell’enorme peso della casta improduttiva di uno stato elefantiaco e la mancata selezionata valorizzazione della innovazione nella ricerca e nella qualità innovativa. La spesa a pioggia, le corruttele e gli sprechi i tempi elefantiaci si sono compensati sul fronte dell’annichilimento della dignità del lavoro.
Vedremo se il governo Renzi – che non ci piace nella nascita, nelle componenti, nei volti- smentendoci nel nostro pessimismo, saprà realmente alle parole far seguire un intervento realmente riformatore ossia in opposizione a quanto sinteticamente richiamato sopra. Ridare dignità al lavoro, certezza del diritto, spesa selezionata, tempi brevi e certi.
Ancora con ste storie dello “stato elefantiaco”, della “casta improduttiva” e altre amenità da bar dello sport? E su un blog come questo? Ma stiamo scherzando?
[…] figure of the young Prime Minister Matteo Renzi. Keynesblog discussed widely the so-called “matteonomics” and Iodice does not seem convinced at […]
Job act, parola magica! Ma gli inglesismi tanto amati dai nostri odierni politici, oramai si è capito, sono mere furbate per nascondere verità che in italiano hanno nomi impronunciabili. Come Monti si era inventato la “spending review” per non parlare di “manovra finanziaria”, così ora Renzi si inventa il “job act” per non parlare di “articolo 18”. Ma, c’è da scommetterci, ancora una volta la “fissa” di questo governo, come di quello Monti, sarà, al di là di pudici paraventi, l’art. 18, o, per dirla con altre parole, la libertà di licenziamento: e con esso, inevitabilmente -perché le due “fisse” vengono normalmente (e subdolamente) propugnate in maniera inscindibile- quella del contratto unico a tempo indeterminato ma … liberamente risolubile in qualsiasi momento (idea comunemente –ed erroneamente- attribuita ad Ichino, che ne ha fatto il suo cavallo di battaglia, ma la cui paternità è in realtà di Biagi, che per primo la sostenne). E così il dibattito sul lavoro ancora una volta verrà, come in effetti viene, falsato e deviato dalla suo vera sede, continuandosi ancora ad ignorare che il lavoro non si crea liberalizzando i licenziamenti, ma eliminando le vere ragioni che impediscono lo sviluppo economico: tassazione insostenibile per imprese e lavoratori, bassi salari e precarizzazione selvaggia, burocrazia asfissiante e inetta, giustizia inefficiente e lenta, leggi incomprensibili. Quanto a quest’ultimo aspetto, indubbiamente passaggio obbligato è la semplificazione e razionalizzazione del quadro legislativo in materia di lavoro, ma non ci si può illudere di raggiungere questo obbiettivo con una mera operazione di maquillage delle oltre quaranta forme di rapporto di lavoro oggi previste, essendo, al contrario, indispensabile un intervento di rifacimento radicale che parta dalle fondamenta per liberarle dalle inutili e dannose sovrastrutture che nel tempo le hanno nascoste e massacrate. Per esser chiari: la vera, indispensabile, semplificazione che Renzi dovrebbe fare è il ritorno al sistema duale del rapporto di lavoro -autonomo o subordinato- eliminando gli ibridi e gli escamotage (c.d. lavoro parasubordinato), inventati dalla fervida fantasia dei nostri “moderni” (quale modernità!) e conformisti giuslavoristi ma in realtà inesistenti ‘in natura’ (giuridica), anzi contro natura. Non ci sono vie di mezzo, non esiste ‘in natura’ un tertium genus di lavoro che non è ne autonomo né subordinato (la pretesa legittimazione della parasubordinazione non può desumersi da una non pertinente e inconferente norma meramente processuale, art. 409, 3° c., cpc, scaltramente piegata ad una interpretazione che non regge ad un’analisi critica obbiettiva), il lavoro o è l’uno o è l’altro. E si sa che quando si cerca di coartare o, peggio, violentare la natura, questa si ribella. Infatti, tutti i problemi che nascono nell’interpretazione e applicazione delle norme in materia di lavoro c.d. parasubordinato, come tutte le difficoltà per definire le medesime (si veda da ultimo la riforma Fornero, monumento … alla chiarezza e alla ragione!) nascono proprio di qui, perché si è finito per creare una selva mostruosa ed inestricabile, in cui è difficile penetrare anche per un avvocato: figuriamoci per un imprenditore, il quale finisce per abbandonare –come dargli torto?- qualsiasi, pur volenteroso e ottimistico, progetto di nuove assunzioni.
ebbene si…uno che dice quello che pensa!
http://www.eppgroup.eu/it/mep/Tiziano-MOTTI