di Guglielmo Forges Davanzati* per Keynes blog
L’ultimo Rapporto OCSE (link) mette in evidenza il fatto che il tasso di disoccupazione è in crescita in quasi tutti i Paesi industrializzati e, in particolare, nell’eurozona e in Italia. Banca d’Italia, fin da 2010, registra che la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti (link), e che la crescita della disoccupazione riguarda principalmente la componente giovanile della forza-lavoro. Il tasso di attività di individui di età compresa fra i 15 e i 64 anni, nel 1993, era del 58%, a fronte del 42% di quello di individui collocati nella fascia d’età 15-24. Nel 2004, il tasso di attività nella fascia d’età 15-64 è aumentato collocandosi a oltre il 62%, mentre, nello stesso arco temporale, si è ridotto il tasso di attività giovanile, collocandosi intorno al 35%. Nel corso degli ultimi anni, il divario fra occupazione “adulta” e occupazione giovanile è costantemente aumentato, portando il tasso di disoccupazione giovanile a circa il 40% (fonte ISTAT), fatto del tutto inedito nella storia dell’economia italiana. Ciò nonostante, sembra che il dibattito su questi temi si concentri quasi esclusivamente sulle misure di contrasto al fenomeno, in assenza di una preventiva individuazione delle cause.
Il fenomeno viene imputato da molti commentatori a effetti di labour hoarding, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare, con i conseguenti costi (monetari e di tempo) connessi alla specializzazione dei nuovi assunti. In tal senso, la disoccupazione giovanile viene imputata alla bassa dotazione di “capitale umano specifico”, derivante dalla bassa dotazione (o dalla totale assenza) di competenze associate al learning by doing.
Si tratta di un’interpretazione per alcuni aspetti discutibile, almeno se riferita all’Italia.
1) L’ipotesi del labour hoarding vale sotto la condizione che le aspettative delle imprese siano ottimistiche, ovvero che si attendano un aumento della domanda già nel breve-medio termine. Diversamente, non si spiegherebbe per quali ragioni esse razionalmente decidano di non licenziare, mantenendo manodopera “in eccesso” rispetto ai volumi di produzione da realizzare e, dunque, sostenendo costi senza ottenere benefici di breve periodo. Data questa condizione, l’ipotesi del labour hoarding sembra essere in evidente contraddizione con la percezione che le imprese italiane hanno in merito alla durata della crisi. Si stima, a riguardo, che oltre il 50% degli imprenditori italiani ritiene che la recessione in atto durerà ancora almeno due anni (link), ed è una stima che può considerarsi prudenziale.
2) Fatte salve le dovute eccezioni, il sistema produttivo italiano è composto da imprese di piccole dimensioni e poco innovative. Anche in questo caso, l’ipotesi del labour hoarding – con riferimento all’Italia – sembra poco convincente. Se la tecnologia utilizzata, infatti, non richiede lunghi e costosi processi di apprendimento, non si capisce per quale ragione le imprese non licenzino, potendo – nel far questo – ridurre i costi di produzione di breve periodo ed eventualmente assumere (con costi di formazione pressoché irrisori) nelle fasi espansive del ciclo.
Queste considerazioni inducono a ritenere che, almeno nel caso italiano (e, ancor più, nel caso del Mezzogiorno), la (relativa) tenuta dell’occupazione di lavoratori in età adulta dipende semmai da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono alla struttura familiare. In altri termini, il costo del licenziamento, in questi casi, è sia economico1 sia psicologico2, ed è indipendente dalla specializzazione degli occupati.
L’opinione dominante – schematizzando – fa propria la convinzione, apparentemente lapalissiana, secondo la quale sono gli individui più produttivi ad avere la più alta probabilità di essere assunti. Sul piano normativo, ciò implica mettere in campo politiche che rimuovano le barriere che ostacolano un’allocazione della forza-lavoro basata sul “merito”. E’ bene chiarire che si tratta di una tesi fallace da un duplice punto di vista. Innanzitutto, non è chiaro come possa essere quantificato il merito, e quale relazione si intenda istituire fra merito e produttività. Il “merito” ha natura qualitativa e, in quanto tale, può essere oggetto di misurazione esclusivamente in modo discrezionale, se non arbitrario. La produttività del lavoro (ammesso che anche questa sia misurabile, ovvero “isolabile” dalla produttività degli altri fattori produttivi) è il rapporto fra la quantità prodotta e le ore-lavoro impiegate. La differenza che passa fra produttività e merito è esattamente quella che passa fra lavorare molto e lavorare bene: con ogni evidenza, nulla assicura che lavorare molto implichi lavorare bene. In secondo luogo, questa tesi si fonda implicitamente sul presupposto secondo il quale la competizione nel mercato del lavoro avviene in un “vuoto istituzionale”, ovvero non risente di variabili che attengono all’ambiente sociale e familiare nel quale gli individui si formano.
In palese contraddizione con questa impostazione, si rileva sul piano empirico (link) che, dal 2000 al 2012, in tutti i Paesi dell’eurozona è notevolmente aumentato il numero di individui che si rivolge a conoscenti, amici, parenti nell’attività di ricerca di lavoro. Si osservi che il periodo considerato è caratterizzato da un notevole incremento delle diseguaglianze distributive. (link)3.
Questi due fenomeni inducono a ritenere che il peggioramento della distribuzione del reddito genera un potenziamento del ruolo delle “reti relazionali” nell’attività di job search, configurando una dinamica del mercato del lavoro nella quale le relazioni di potere e di gerarchia assumono sempre più rilievo, e sempre meno rilievo assumono le caratteristiche personali. Il che, peraltro, si associa – come ampiamente documentato sul piano empirico (link) – alla riduzione del grado di mobilità sociale: i figli delle famiglie con più alto reddito ottengono good jobs, a fronte del fatto che le famiglie con più basso reddito vedono i loro figli collocati in condizioni di disoccupazione, sottoccupazione, precarietà4.
A ciò si aggiunge il fatto che i giovani provenienti da famiglie con redditi elevati hanno un salario di riserva più alto rispetto a coloro che provengono da famiglie con basso reddito. Un elevato salario di riserva – derivante essenzialmente dai risparmi delle famiglie d’origine – consente di acquisire un più elevato potere contrattuale (in quanto consente di attendere più tempo per la stipula del contratto di lavoro) e, conseguentemente, consente anche di attendere più tempo per accettare un’offerta di posto di lavoro In tal senso, l’aumento delle diseguaglianze distributive rende il mercato del lavoro sempre più duale.
E’ evidente che un meccanismo di allocazione della forza-lavoro basato su reti relazionali ha effetti di segno negativo sulla dinamica della produttività del lavoro. Ciò a ragione del fatto che gli individui provenienti da famiglie con redditi elevati “spiazzano” gli individui provenienti da famiglie con più basso reddito, non perché più produttivi, ma semplicemente perché le famiglie d’origine hanno redditi più alti e maggiori e migliori “reti relazionali”. In tal senso – e contro la visione dominante – la disoccupazione giovanile non ha nulla a che vedere con il fatto che i lavoratori adulti sono iperprotetti. E, contro la visione dominante, è semmai il peggioramento della distribuzione del reddito a contribuire a ridurre la produttività del lavoro.
Non è un fenomeno nuovo quello della trasmissione ereditaria della povertà. L’“ideologia del “merito” che ha guidato le politiche economiche degli ultimi decenni non aiuta a risolvere il problema (e, di fatto, non lo ha minimamente attenuato), dal momento che il fenomeno si auto-alimenta soprattutto in contesti di crescente polarizzazione dei redditi.
* Università del Salento
___________
Note
1 Per l’ovvia ragione che, in questo caso, il licenziamento comporta la riduzione di reddito della famiglia.
2 Per l’altrettanto ovvia ragione che è psicologicamente costoso licenziare un familiare.
3 Come certificato dall’OCSE, la diseguaglianza distributiva è notevolmente aumentata a partire dagli anni Ottanta al’interno di tutti i Paesi industrializzati. Al 2012, l’indice di Gini, riferito all’Italia, oscilla intorno allo 0,36 a fronte di una media OCSE circa uguale a 0,30.
4 Come riconosciuto da Mario Draghi: “il successo professionale di un giovane sembra dipendere più dal luogo di nascita e dalle caratteristiche dei genitori che dalle caratteristiche personali come il titolo di studio” (link). Sul tema si vedano S.Bowels and H.Gintis, The inheritance of inequality, “Journal of Economic Perspective”, (16): 3-30 e, per il caso italiano, A. Rosalia, Relazioni intergenerazionali: il ruolo della famiglia, CEPR 2011.
Allora.
Il punto 1) sul labor hoarding manca di logica. Come si fa a presumere che le imprese licenzino/non assumano solo in mancanza di prospettive ottimistiche a breve? Mi sembra più logico aspettarsi che COMUNQUE vengano mantenute in casa le risorse più esperte se l’aspettativa è per una ripresa futura, a breve o a lungo che sia. Questo perché il tempo da aspettare per vedere la ripresa si presume ben più breve di quello necessario per trasformare un neoassunto in un esperto. Inoltre il punto non è la decisione di “non licenziare manodopera in eccesso”, ma semmai “chi licenziare o non assumere” per limitare l’eccesso di manodopera.
Il punto 2) mette a fuoco una parte dell’economia Italiana. Ovviamente il labor hoarding riguarda l’altra parte. Non i baristi o gli autisti, ma evidentemente tecnici specializzati, ma anche personale di vendita dei negozi …
Poi. Questa analisi, ormai fondata su assunti a mio avviso estremamente discutibili, discrimina tra lavorare “molto” e “bene” … come se in Italia le scelte di assunzione avvenissero in modo meritocratico, anziché per raccomandazione o conoscenza. Realtà che spiega anche i diversi redditi tra neoassunti “bene” e neoassunti “figli di nessuno” molto meglio di quanto non faccia il discorso sul “posso aspettare”.
Per il resto, abbastanza d’accordo. Stiamo andando incontro ad una polarizzazione sociale sempre più spinta. L’attuale selezione a numero chiuso per l’accesso alle facoltà universitarie non migliorerà certo questa situazione, riducendo (ulteriormente) la competizione tra i neolaureati ed assicurando invece l’accesso a lavori pregiati ad un numero minore di questi; ed è facile immaginare che studenti provenienti da famiglie prive di relazioni importanti troveranno barriere e difficoltà ben più difficili da superare. Non ci aspetta un bel futuro. Del resto, così è sempre stato nella storia dell’umanità: sono sempre esistite caste, famiglie, classi sociali con confini relativamente poco permeabili. La ricerca dell’uguaglianza è cosa abbastanza nuova nella storia del mondo, la democrazia come strumento per arrivarci lo è ancora di più. E ciò cui stiamo assistendo inquesti tempi in Italia è il fallimento della democrazia. Ricordo a questo proposito che l’elettorato continua ad eleggere, o addirittura a sostenere, persone e partiti che hanno dimostrato al di là di ogni possibile dubbio di fare gli interessi propri e della cosiddetta “casta” a totale scapito di quelli della collettività.
Del resto, così è sempre stato nella storia dell’umanità: sono sempre esistite caste, famiglie, classi sociali con confini relativamente poco permeabili. La ricerca dell’uguaglianza è cosa abbastanza nuova nella storia del mondo, la democrazia come strumento per arrivarci lo è ancora di più……..ricordo al sig g.e.o che le crisi,per gli effetti di natura psicologiche che esse comportano sicuramente accentuano la rigidita sociale.tanto piu che questa è una crisi indotta per poter ristabilire una gerarchia sociale che sta tentando con ogni mezzo di bloccare quel processo di mobilita sociale che dal dopoguerra in poi si stava instaurando e se si valutano i dati di una ventina meglio trenta (sulla mobilita sociale)almeno nelle economie piu avanzate a partire dagli stati uniti si nota che c,è un arretramento di parecchi punti della mobilita sociale,che guarda coso questo arretramento corrisponde in una certa misura alla polarizzazione delle classi sociali ed all,arretramento (per certi aspetti )anche culturale della classe media…dovuto anche al maggior controllo che le classi sociali del mainstream controllano i media in una maniera quasi insopportabile
Trovo il suo articolo, contrariamente a cosa pensa geo, una perfetta fotografia della realtà ed è assolutamente interessante la tesi della “cattiva distribuzione del reddito” come causa della disoccupazione giovanile. Chi è nella rete delle piccole imprese (come me) e si confronta con aziende di analoghe dimensioni e più grandi potrà assolutamente confermare che fenomeni come “nepotismo” o “assumi il figlio di…” è pratica comune e solo una piccola parte delle assunzioni viene fatta con colloqui di lavoro e valutazioni che sfuggono a queste logiche. Saluti e complimenti.
Questo e’ un fenomeno endemico in Italia. Sempre esistito.
Ma non e’ nemmeno questo gran male come lo si vuol far passare, ha anche, e qui suscitero’ sicuro scandalo, alcuni aspetti assai positivi per il “sistema produttivo nazionale”.
Mi piacerebbe che tu li spiegassi. Per il sistema produttivo, a parer mio, sarebbe preferibile selezionare le risorse in base alla produttività più che alle parentele. Che il fenomeno sia endemico (e non solo in Italia credimi) è chiaro: molti imprenditori grandi e piccoli preferiscono persone “raccomandate”, o se vogliamo con un termine un pochino più pulito chiamarle “consigliate”, perché “tolgono lavoro” al selezionatore, inseriscono in organico una persona di cui c’è più probabilità di potersi fidare e il lavoratore è stimolato a rendere bene nel lavoro per non tradire la fiducia di chi “gli ha dato la spinta”.
Bè, ti sei risposto da solo, e molto meglio di come avrei saputo fare io, tra l’ altro.
mentre invece, all’ inizio della tua contro risposta hai posto una domanda retorica con annessa risposta puramente ideologica.
Come si puo’ stabilire in anticipo quale sarà la (“mitica”) produttività di un neo assunto?
E, inoltre, di quale produttività parliamo? Di quella ricercata da certi (la maggior parte) azionisti nel breve periodo o di quella di quella di lungo peroiodo e prospettiva? (per esempio).
Grazie della precisazione sull’ “endemicità” del fenomeno “italiano”, hai perfettamente ragione, non solo ti credo, ma lo scrivo da illo tempore.
Mi correggo scrivendo a rettifica :
“fenomeno endemico in particolare in Italia”
in luogo di:
“fenomeno endemico in Italia”
Si può dire, con un neologismo fresco fresco, che siamo entrati nell’era del feudalesimo informatico? Siamo governati da una elite tecnocratica-finanziaria che ricorda tanto la Corte di Versaille e i paesi ancien regime, che spreme i sudditi con tasse inique e spoglia i giovani del loro futuro; la società è piena di vassalli, valvassori, valvassini e servi della gleba; la democrazia è solo una finzione elettorale, i principi di uguaglianza e di merito son ridotti ad una farsa continua, mentre la rete, il nuovo oppio dei popoli, stordisce le menti in un falso comunitarismo qualunquistico incapace di creare qualsiasi radicata coscienza politica. Dulcis in fundo, non c’è nemmeno un Luigi XIV da mandare al patibolo! Le analisi degli economisti critici, poi, per quanto resistenziali, non producono alcun effetto pratico, perché non c’è alcuna forza politica di sinistra, che ad esse si ispiri, e quelle che lo fanno, si definiscono ancora “comuniste”, producendo un naturale motto di rigetto fra i cittadini. Il capitalismo assoluto che oggi domina incontrastato, nella subdola forma del feudalesimo informatico, dà poche vie di fuga per il cambiamento. Questa è l’amara verità del nostro tempo, il Terzo Segreto di Fatima…..
secondo me anche se in linea di principio si puo essere d,accordo sulla impalcatura del tuo discorso a mio parere c,è un errore di fondo e cioe :d,accordo che la democrazia è solo finzione elettorale, ma non addosserei la colpa alla rete che è solo uno strumento. ma piuttosto ai fallimenti storici delle ideologie del secolo scorso,oltre al fatto che nessuno di noi ha chiaramente in testa l,idea di societa che vorrebbe…quindi l,unica cosa che al momento e possibile fare è ,trasformare l,esistente in qualcosa che non umilia le persone oltre l,umanamente sopportabile, senza cercare (come qualcuno ancora si illude) vecchie ideologie che complessivamente hanno fallito…anche per scarsa valutazione delle caratteristiche dell,uomo,e delle sue aspirazioni piu profonde …
Concordo pienamente
Il termine “meritocrazia” fu usato la prima volta da Michael Young nel suo libro “Rise of the Meritocracy” (1958). Il termine era destinato a un uso dispregiativo, e il suo libro era lo scenario di un futuro distopico in cui la posizione sociale di un individuo è determinata dal suo quoziente intellettivo e dallo sforzo. Nel libro, l’esistenza di un simile sistema sociale finisce per portare a una rivoluzione in cui le masse rovesciano l’élite, che è divenuta arrogante e scollegata dai sentimenti del popolo.
(Da Wikipedia Italia)
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[…] della distribuzione del reddito a contribuire a ridurre la produttività del lavoro, scrive su “Keynesblog” il professor Davanzati, docente dell’università del Salento, di fronte alle cifre della […]
[…] della distribuzione del reddito a contribuire a ridurre la produttività del lavoro, scrive su “Keynesblog” il professor Davanzati, docente dell’università del Salento, di fronte alle cifre della […]
Sn una ragazza di 27 anni disoccupata… Pago tasse e mutuo bollette assicurazione bollo ecc con la mia famiglia.. Purtroppo non riusciro’ ad andare avanti per molto.. Mi sto vergognando di essere nata in questo paese… Diventato malsano e superficiale andate a prendere soldi alle persone che stanno bene e alle escort non alle persone che si sono costruite casa in una vita di fatica e sudore. Perseguitate quelli che vanno in giro con macchinoni costosi dalla mattina alla sera non i poveri cristiani come noi che pagano tasse su tasseanche per quella brutta gentaglia
Andro’in germania.. A questo punto.
[…] La risposta alla seconda domanda rinvia a un’evidenza empirica inoppugnabile: la precarietà ha effetti negativi sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla quota dei salari rispetto al PIL (link). Vi è ampia evidenza empirica che mostra che all’aumentare della flessibilità del lavoro – misurata dall’EPL (Employment protection legislation) – l’occupazione non solo non aumenta, ma, di norma, si riduce. Ancora più certo, sul piano empirico, è il fatto che la flessibilità riduce i salari. Va sottolineato che, a riguardo, rispetto agli altri Paesi OCSE, la situazione italiana è peculiare, per almeno tre fenomeni. In primo luogo, l’Italia è il Paese nel quale la protezione dei lavoratori ha subito la più drastica riduzione (l’EPL italiano, nell’ultimo decennio, si è ridotto nell’ordine dell’1.5% a fronte della riduzione, nel medesimo periodo, dello 0.5% circa per la media dei Paesi europei). In secondo luogo, le fluttuazioni del tasso di occupazione risentono sia della scarsa presenza della componente femminile della forza-lavoro sia, a questo collegata, di fenomeni di ‘scoraggiamento’, stando ai quali, in condizioni di elevata disoccupazione, bassi salari ed elevata probabilità di dover accettare un contratto precario, poiché la ricerca del lavoro è costosa e la probabilità di trovarlo è bassa, si rinuncia a cercarlo. In terzo luogo, in Italia le scelte di assunzione da parte delle imprese, più che in altri Paesi, risentono dell’esistenza di reti relazionali e parentali, che contribuiscono ad accrescere il dualismo del mercato del lavoro e ad accentuare l’immobilità sociale (link). […]
[…] La risposta alla seconda domanda rinvia a un’evidenza empirica inoppugnabile: la precarietà ha effetti negativi sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla quota dei salari rispetto al PIL (link). Vi è ampia evidenza empirica che mostra che all’aumentare della flessibilità del lavoro – misurata dall’EPL (Employment protection legislation) – l’occupazione non solo non aumenta, ma, di norma, si riduce. Ancora più certo, sul piano empirico, è il fatto che la flessibilità riduce i salari. Va sottolineato che, a riguardo, rispetto agli altri Paesi OCSE, la situazione italiana è peculiare, per almeno tre fenomeni. In primo luogo, l’Italia è il Paese nel quale la protezione dei lavoratori ha subito la più drastica riduzione (l’EPL italiano, nell’ultimo decennio, si è ridotto nell’ordine dell’1.5% a fronte della riduzione, nel medesimo periodo, dello 0.5% circa per la media dei Paesi europei). In secondo luogo, le fluttuazioni del tasso di occupazione risentono sia della scarsa presenza della componente femminile della forza-lavoro sia, a questo collegata, di fenomeni di ‘scoraggiamento’, stando ai quali, in condizioni di elevata disoccupazione, bassi salari ed elevata probabilità di dover accettare un contratto precario, poiché la ricerca del lavoro è costosa e la probabilità di trovarlo è bassa, si rinuncia a cercarlo. In terzo luogo, in Italia le scelte di assunzione da parte delle imprese, più che in altri Paesi, risentono dell’esistenza di reti relazionali e parentali, che contribuiscono ad accrescere il dualismo del mercato del lavoro e ad accentuare l’immobilità sociale (link). […]
[…] Even more certain, on the empirical level, is the fact that flexibility reduces wages. It should be noted that, in this respect, compared to other OECD countries, the Italian situation is peculiar, for at least three factors. First, Italy is the country in which workers protections have been the most drastically reduced (the Italian EPL over the last decade has reduced the order of 1 .5 % against a reduction in the same period of 0.5 % on average in Europe). Second, fluctuations in the rate of employment is affected both by the limited presence of women in the labour force and, linked to this, the phenomena of ‘discouragement’, according to which, under conditions of high unemployment, low wages and high probability of having to accept a precarious contract, as job seeking is costly and the probability of finding it is low, you give up looking. Third, in Italy, more than in other countries, businesses’ hiring choices are affected by the existence of networks of relationships and family links, which add to the dualism of the labour market and accentuate the social immobility (link). […]
Se siete interessati a tematiche che riguardano la meritocrazia, la digitalizzazione, la cultura informatica, il management, vi consiglio il seguente link:
http://saperi.forumpa.it/relazione/verso-la-pa-digitale-0
Si tratta probabilmente del blog più frequentato di tutta la PA su questi temi.
[…] basso titolo di studio, che vedono ulteriormente ridotta la loro retribuzione, in una condizione di bad jobs. 2) A ciò si aggiunge il fatto che i programmi di apprendistato riducono il potere […]
[…] titolo di studio, che vedono ulteriormente ridotta la loro retribuzione, in una condizione di bad jobs. 2) A ciò si aggiunge il fatto che i programmi di apprendistato riducono il potere contrattuale […]
L’ha ribloggato su terzapaginae ha commentato:
In altri termini: da un lato, i figli di famiglie con alto reddito e con titoli di studio elevati, che in assenza di domanda di lavoro coerente con le competenze acquisite, restano inattivi (o emigrano) e, dall’altro, i figli di famiglie con basso reddito e basso titolo di studio, che vedono ulteriormente ridotta la loro retribuzione.
[…] In altri termini, le politiche attive del lavoro non solo non accrescono l’occupazione giovanile, ma disincentivano l’accumulazione di capitale umano e contribuiscono ad accentuare la segmentazione del mercato del lavoro: da un lato, i figli di famiglie con alto reddito e con titoli di studio elevati, che in assenza di domanda di lavoro coerente con le competenze acquisite, restano inattivi (o emigrano) e, dall’altro, i figli di famiglie con basso reddito e basso titolo di studio, che vedono ulteriormente ridotta la loro retribuzione, in una condizione di bad jobs. […]
[…] In altri termini, le politiche attive del lavoro non solo non accrescono l’occupazione giovanile, ma disincentivano l’accumulazione di capitale umano e contribuiscono ad accentuare la segmentazione del mercato del lavoro: da un lato, i figli di famiglie con alto reddito e con titoli di studio elevati, che in assenza di domanda di lavoro coerente con le competenze acquisite, restano inattivi (o emigrano) e, dall’altro, i figli di famiglie con basso reddito e basso titolo di studio, che vedono ulteriormente ridotta la loro retribuzione, in una condizione di bad jobs. […]
[…] La risposta alla seconda domanda rinvia a un’evidenza empirica inoppugnabile: la precarietà ha effetti negativi sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla quota dei salari rispetto al PIL (link). Vi è ampia evidenza empirica che mostra che all’aumentare della flessibilità del lavoro – misurata dall’EPL (Employment protection legislation) – l’occupazione non solo non aumenta, ma, di norma, si riduce. Ancora più certo, sul piano empirico, è il fatto che la flessibilità riduce i salari. Va sottolineato che, a riguardo, rispetto agli altri Paesi OCSE, la situazione italiana è peculiare, per almeno tre fenomeni. In primo luogo, l’Italia è il Paese nel quale la protezione dei lavoratori ha subito la più drastica riduzione (l’EPL italiano, nell’ultimo decennio, si è ridotto nell’ordine dell’1.5% a fronte della riduzione, nel medesimo periodo, dello 0.5% circa per la media dei Paesi europei). In secondo luogo, le fluttuazioni del tasso di occupazione risentono sia della scarsa presenza della componente femminile della forza-lavoro sia, a questo collegata, di fenomeni di ‘scoraggiamento’, stando ai quali, in condizioni di elevata disoccupazione, bassi salari ed elevata probabilità di dover accettare un contratto precario, poiché la ricerca del lavoro è costosa e la probabilità di trovarlo è bassa, si rinuncia a cercarlo. In terzo luogo, in Italia le scelte di assunzione da parte delle imprese, più che in altri Paesi, risentono dell’esistenza di reti relazionali e parentali, che contribuiscono ad accrescere il dualismo del mercato del lavoro e ad accentuare l’immobilità sociale (link). […]
porca miseria…sono un giovane disoccupato…menomale che stefania bigliardi ha parole di conforto per noi giovani…
http://notizielocali.notiziaultima.com/emilia-romagna/stefania-bigliardi-lotta-alla-disoccupazione-giovanile-deve-essere-una-priorita/2014/08/27
Io leggo i dati e mi metto le mani nei (pochi) capelli che mi restano…
Siamo messi sempre peggio ragazzi:
http://www.4minuti.it/news/editrice-europea-srl-disoccupazione-nuovo-record-storico-0078098.html
crisi senza fine…figli senza futuro
http://www.4minuti.it/news/editrice-europea-srl-disoccupazione-nuovo-record-storico-0078098.html
L’ha ribloggato su Pensieri provincialie ha commentato:
“contro la visione dominante, è semmai il peggioramento della distribuzione del reddito a contribuire a ridurre la produttività del lavoro.”