C’è un grosso errore di prospettiva nella bagarre che si è generata intorno alla discussione sulle politiche di riforma del mercato del lavoro. Di questo ne sono fermamente convinti Maurizio Franzini e Michele Raitano che, in un articolo su “nelMerito.com” spiegano:
“Il 30% di coloro che, in un dato anno, sono titolari di un contratto a tempo indeterminato sperimenta nei 5 anni successivi almeno un episodio negativo. Ciò vuol dire che lo status lavorativo/contrattuale peggiora e dal contratto a tempo indeterminato si passa a un contratto a termine oppure a una posizione da parasubordinato oppure ancora si finisce in disoccupazione o in Cassa integrazione; in molti casi, si esce perfino dalle forze di lavoro, non risultando più registrati nei Casellari amministrativi. Questa percentuale cresce al di sopra del 40% se il periodo di osservazione si estende a 10 anni. E’ interessante osservare che le quote di “caduta” sono abbastanza simili nel corso dei decenni, ciò vuol dire che già negli anni ‘80 e ‘90 le storie lavorative individuali erano molto fluide, in contrasto con la retorica della “rigidità del posto fisso”.
Questo spiega un sostanziale stato di “liquidità” del nostro mercato del lavoro, che denuncia anche uno stato patologico dello stesso, poiché la flessibilità dovrebbe piuttosto indicare la presenza di meccanismi che consentono una dinamica di “mobilità” in un quadro di reali opportunità esistenti, mentre la realtà italiana dimostra di non essere in grado di creare domanda di lavoro aggiuntiva. Semplicemente perché la nostra produzione ha poca domanda, interna ed estera.
Franzini e Raitano sottolineano pertanto che:
“ ..la generica contrapposizione tra rigidità e mobilità appare, nel nostro paese, poco idonea a orientare gli interventi da adottare. Una politica che si proponesse di introdurre la mobilità rischierebbe di essere inutile quanto lo è ogni tentativo di realizzare quel che già esiste. Naturalmente si può sostenere che la mobilità esistente sia insufficiente e che la riforma deve proporsi di accrescerla. Ma sarebbe bene rendere note le ragioni di una tale scelta. E queste non dovrebbero omettere di spiegare perché un mercato del lavoro “liquido” come il nostro abbia mancato di produrre effetti positivi sulla crescita, l’occupazione e l’eguaglianza. L’attenzione per questa spiegazione potrebbe aiutare a guardare anche in altre direzioni, in cerca dei nodi più intricati da sciogliere per far sì che il lavoro si moltiplichi, migliori di qualità e assicuri una vita dignitosa.”
E d’altra parte è sotto gli occhi di tutti come il sistema esistente non abbia sortito alcunché quanto ad una inversione nei trend dell’occupazione.
Si sta facendo insomma il ragionamento sbagliato e per giunta nel momento più sbagliato, visto che stiamo attraversando un periodo di recessione. Andare in una direzione, perlomeno correttiva di uno stato delle cose che è in assoluto peggioramento, sarebbe la prima cosa da fare per evitare che il sistema continui a franare.
E tutto questo dovrebbe e potrebbe esser detto molto chiaramente anche a Bruxelles, non ha dubbi Antonio Lettieri su “Eguaglianza e Libertà”:
“In altri termini, dire riforma del mercato del lavoro non ha alcun significato. Il punto è stabilire in che direzione si intende riformare. L’equità sta nell’accrescimento delle tutele per chi ne è privo (i giovani e le donne colpite dalla precarietà, innanzitutto), non nella riduzione delle tutele per tutti. I sacerdoti della deregolazione dei mercati utilizzano cinicamente la crisi – appunto come in Grecia in Spagna – per attuare le riforme che in condizioni normali non sono realizzabili. Il governo Monti, proprio per l’autorevolezza che ha acquisito in Europa, può sforzarsi di spiegare alle tecnocrazie europee che vi sono politiche sbagliate – come l’esempio della Grecia mostra drammaticamente. La riforma del lavoro fin qui delineata fa parte delle politiche sbagliate. Al tempo stesso inique e inefficienti per i paesi che debbono praticarle e, in definitiva, per il destino stesso dell’eurozona.”
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