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Perché la #ManovraDelPopolo non è Keynesiana

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di Laura Penacchi, economista

Sembra che il problema sia il deficit al 2,4% – come pensano, da fronti opposti, i cultori del debito ad oltranza e le vestali, presenti anche nel Pd, della stabilità dei conti pubblici – e non, invece, la composizione della manovra.

Al di là delle numerose beffe che la lettura del Def sta facendo emergere (per esempio la scomparsa di detrazioni fiscali importanti per le famiglie o della Naspi per i giovani disoccupati utilizzata per finanziare in parte le nuove misure), dalla composizione ipotizzabile della manovra trapela un forte squilibrio in favore della spesa corrente e a danno della spesa in conto capitale e per gli investimenti, squilibrio risultante dalla somma dei trasferimenti monetari (in cui si traducono la falsa quota 100 per le pensioni e il cosiddetto reddito di cittadinanza) e delle numerose riduzioni fiscali, tra cui l’embrione di flat tax, le quali costituiscono spesa corrente indiretta.

Tale squilibrio mostra un’assonanza non con Keynes – come pretenderebbe il ministro Savona – ma con Reagan. Non siamo, infatti, di fronte alla concentrazione di risorse nella creazione diretta di lavoro e negli investimenti produttivi – questi sì finanziabili anche in deficit – che Keynes e i keynesiani come Hansen, Meade, Minsky auspicavano per affermare la piena e buona occupazione, in quanto rimedio alla tendenza strutturale del capitalismo al sottoutilizzo dei fattori fondamentali della produzione, lavoro e capitale.

Siamo invece di fronte alla riproposizione di forme di supply side economics, tanto cara a Reagan e a Bush, in cui è del tutto rimossa la necessità di fare i conti con i problemi strutturali del paese, compresa la sua bassa propensione a creare lavoro, perché ciò a cui ci si affida è spesa corrente, per di più finanziata in deficit, consistente in benefici fiscali e trasferimenti monetari – quale è anche il reddito di cittadinanza – tali da non scalfire il dogma dell’autoregolazione del mercato.

Con lo Stato usato solo come Pantalone e non come soggetto strategicamente innovatore, in uno spirito sostanzialmente a favore di un mondo autonomo minuto (con la grande impresa, gli investimenti in ricerca e innovazione, la scuola e l’Università del tutto trascurati), affidando il rilancio dello sviluppo prevalentemente al Nord e lasciando ulteriormente ai margini il Mezzogiorno (per il quale è sparita la riserva di investimento del 34%), compensato con elargizioni assistenzialistiche.
Questa riedizione di vecchi approcci – alla faccia del tanto strombazzato cambiamento! – è tanto più sconcertante se riferita alla gravità della situazione globale odierna, per la quale in molti denunziano i segnali del probabile scatenarsi di una nuova grande crisi, dopo quella, gravissima, del 2007/2008 in realtà mai davvero finita.

Si consideri un segnale in particolare: il debito globale totale (pubblico e privato), invece di diminuire come era negli auspici, dal 2008 ad oggi è aumentato di 72mila miliardi di dollari e ne è anche vertiginosamente cresciuta la rischiosità, poiché la sua emissione è prevalentemente avvenuta attraverso corporate bond con rating speculativo e con minore protezione contrattuale, di cui hanno fatto incetta l’universo del risparmio gestito e i fondi di investimento, meno vincolati dalle regole prudenziali a cui sono state sottoposte le banche. La ripresa mondiale poggia, dunque, su basi estremamente fragili, il suo motore è chiaramente drogato dal debito, la sua caratteristica di fondo è l’accumulo di “bolle”: immobiliari, finanziarie, bancarie, petrolifere.

La stessa forte ripresa statunitense avviene al prezzo di un incremento sostenuto di un deficit pubblico già molto elevato, di tassi di interesse reali molto bassi e di un mercato azionario segnato da rendimenti esponenziali (il 16% in media negli ultimi 5 anni, il 22% nel solo 20017) in grado di generare proventi anomali per un totale di 10 trilioni di dollari, il che sottende un’ulteriore espansione del debito privato. Tratti analoghi si rintracciano anche in altri contesti, dal Giappone alla Cina, a molti paesi emergenti.

In Europa, mentre si prepara la fine del quantitative easing, la crescita rimane anemica ed è elevatissimo lo scarto tra il volume di lavoro desiderato e quello reso disponibile da parte delle imprese. Ovunque risultano accentuati i rischi, la volatilità dei tassi di cambio, la vulnerabilità agli shock esterni, anche perché, mentre gli investimenti calavano drasticamente, i profitti hanno continuato a crescere: nel secondo trimestre del 2018 i profitti sono cresciuti negli Usa del 16% grazie al condono per il rimpatrio dei capitali di Trump e al suo taglio fiscale a vantaggio degli utili societari, i quali hanno trasferito 1500 miliardi di dollari dal bilancio federale, con un incremento del deficit di pari ammontare, alle grandi Corporations, premiando per un quarto del totale i redditi annui superiori al milione di dollari, il che ci parla di quello che ci aspetterebbe in Italia se la reaganiana flat tax leghista venisse realizzata integralmente.

È tutto ciò che si intende quando si parla di tendenze alla secular stagnation che persistono: non tassi di incremento del Pil quantitativamente bassi o nulli (che in effetti non si verificano, come invece si aspetterebbero gli scettici a proposito di tale teoria), ma, con le parole di Larry Summers, una «crescita ordinaria realizzata mediante politiche straordinarie e speciali condizioni finanziarie», le quali incoraggiano il rischio abnorme, un indebitamento malsano, la formazione di bolle che, a loro volta, pongono le premesse per nuove crisi.

Nel momento in cui i populismi dilagano e emergono varie somiglianze con gli anni ’30 del Novecento, qui andrebbe collocata la vera sfida odierna: mettere meglio a fuoco questo aspetto fondamentale del funzionamento del capitalismo e cioè la «problematicità del suo processo di investimento» e la difficile connessione tra «problematica degli investimenti e destino del lavoro», una connessione per la cui fragilità strutturale certo non costituisce risposta il combinato disposto flat tax/reddito di cittadinanza caro al governo italiano gialloverde, in cui il neoliberismo si mostra all’opera intrecciato con il populismo e il sovranismo.

da “il manifesto” del 9 ottobre 2018

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7 commenti su “Perché la #ManovraDelPopolo non è Keynesiana

  1. Non sono d’accordo, se ciò che viene definito come spesa corrente sarà in realtà costantemente ripetuto in futuro (se non fosse così allora si che la manovra è ridicola): in tal caso il suo impatto è comunque keynesiano perché avrà stabili effetti moltiplicativi. Più precisamente:
    1) se il reddito di cittadinanza non sarà una-tantum, ci saranno degli stabili consumi addizionali che aumenteranno la propensione media la consumo, e quindi il moltiplicatore: infatti, visto che i percettori dovrebbero essere persone in condizione di povertà spenderanno presumibilmente tutto o quasi, con un tasso di risparmio tendente a zero (ciò anche perché la stabilità del reddito li pone al riparo sul futuro);
    2) se la flat tax non sarà anch’essa una-tantum, non si potrà dimenticare che una delle componenti autonome che il moltiplicatore keynesiano amplifica è proprio la tassazione media, che si abbasserà in modo duraturo

  2. Concordo con le osservazioni evidenziate dall’economista Laura Pennacchi circa la manovra tutta indirizzata sulla spesa corrente, in quando ritenuta di fatto un moltiplicatore per effetto di un incremento costante dei consumi resi possibili da due operazioni come il cosidetto reddito di cittadinanza e la flat tax. Ma esse sono semplicemente due manovre propagandiste per accontetare i propri elettori, gli uni al Sud e gli altri al Nord. In una situazione come è l’oggi la vera rivoluzione sarebbe stato una grossa spesa per investimenti per iniziare un’intervento programmato per ridurre i danni prodotti sull’ambiente e creare così da una parte posti di lavoro ed un effettivo moltiplicatore della domanda aggregata. Il Prof. Savona nel testo inviato, come ministro delle politiche comunitarie ha proposto esattamente un investimento di 50 miliardi per apportare un vero aiuto dello Stato per favorire una potenziale crescita sia diretta che indotta. Ma di tale proposta Salvini e Di Maio penso che nemmeno l’abbiano letta, visto che ciò che è necessario fare subito sia garantire le promesse prima delle elezioni europee. Di ciò che sarebbe necessario ed utile per una opportuna e sostenibile azione per garantire lavoro certo per i prossimi 20 anni, ci penserà qualcun altro, che abbia più senno pensando all’oggi investendo pensando anche e sopratutto per gli anni futuri.
    Incrementare in sè il debito, non collima con la teoria keynesiana, in quanto Keynes legava gli incrementi degli investimenti pubblici a precise condizioni in modo da creare le condizioni per indurre anche ad incentivare la spesa privata, la quale scatta solo e soltanto se ci sono una serie di altre condizioni, non ultimo il tasso di remunarione del capitale investito che risulti essere superiore a quello che si potrebbe percepire investendo sui titoli di debito degli Stati. Michelangelo Tumini coordinatore di S.I. Circolo di Osimo, Castelfidardo, Loreto ed Offagna – (Zona Ancona Sud)

  3. Sul principio di fondo l’articolo ha ragione, ma la stessa critica naturalmente vale per i governi degli ultimi 30 anni… Investimenti keynesiani sembrano abbastanza irrealizzabili all’interno dei vincoli di bilancio e delle regole anti-protezioniste imposti dall’Unione europea. Diminuire le tasse non è keynesiano, ma ancor meno aumentarle, soprattutto in fase di recessione (grazie Monti), e soprattutto se la differenza non va allo Stato ma ai “mercati” per pagare il debito pubblico. Le misure di redistribuzione del reddito non risolvono il problema alla radice (salvo se abbinate a una tassazione fortemente progressiva, come nel modello scandinavo), ma sono comunque meglio che niente (l’Italia è uno dei pochi Paesi europei senza un sussidio universale di disoccupazione) e aumentano la domanda interna.

    • @gengiss
      Quella su Monti è una BUFALA cosmica, che in Italia ha fatto 60 milioni di vittime, inclusi i professori di Economia, oltre all’estero.
      Berlusconi, non Monti. Le manovre finanziarie correttive del governo Berlusconi, in un quasi equivalente lasso di tempo (circa un anno e mezzo), sono state ben il quadruplo di quelle del governo Monti.
      Riepilogo delle manovre correttive (importi cumulati da inizio legislatura):
      – governo Berlusconi-Tremonti 266,3 mld (80,8%);
      – governo Monti 63,2 mld (19,2%);
      Totale 329,5 mld (100,0%).

      Vale a dire, per i sacrifici imposti agli Italiani e gli effetti recessivi Berlusconi ha battuto Monti 4 a 1. Per l’iniquità è stato anche peggio.

  4. Ma dove sta scritto che per essere keynesiano il deficit spending deve essere mirato sugli investimenti? Che deve finanziare riforme “strutturali” perché “strutturali” sono i problemi del paese? Questa sì che è una concezione supply side. Il DEF non è keynesiano solo perché non tiene conto del fatto che i tassi d’interesse sono endogeni: il che è tutt’altra storia.

  5. Premetto che non sono un economista e pongo la domanda seguente che magari risulterà sciocca: perché un aumento della spesa in deficit, dovrebbe aumentare il Pil e non invece l’inflazione? Grazie

    • in breve (e con vari distinguo) perché, se ci sono fattori produttivi disoccupati (capitali, lavoratori, impianti, ecc.), prima di prodursi inflazione si produce di più.
      Con un po’ più di dettaglio: nel breve termine si ha un po’ d’inflazione, perché si consumano le scorte prima di ingranare con gli aumenti produttivi, poi si impiegano i fattori produttivi disoccupati. Infine, se questi saranno tutti occupati si ha inflazione

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