di Stefano Lucarelli, Daniela Palma, Roberto Romano da Economiaepolitica.it
La crisi economica in corso è stata acuita dalle fragilità che caratterizzano il sistema istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. Le cattive teorie economiche su cui le politiche monetarie e fiscali europee sono disegnate hanno svolto un ruolo rilevante. Tuttavia, nel caso italiano, le criticità risultano accresciute da un sistema produttivo già caratterizzato da profonde difficoltà[1].
Queste sono legate principalmente alla crescente incapacità di sviluppare all’interno del sistema produttivo nazionale le innovazioni tecnologiche necessarie a mantenere una posizione di rilievo sui mercati internazionali. A partire dalla fine degli anni ’80 in poi l’incremento degli investimenti privati si è tradotto, nella maggior parte dei casi, in un incremento delle importazioni dall’estero che non si è accompagnata ad una ripresa delle esportazioni sufficiente ad evitare un incremento del disavanzo commerciale; in queste condizioni di ritardo tecnologico, laddove si potessero realizzare politiche espansive sul lato della domanda, queste non si tradurrebbero automaticamente in opportunità di crescita. In altri termini, l’aumento dei beni strumentali impiegati dalle imprese può costituire un vincolo estero e può innescare un processo di riduzione del reddito nazionale[2]. La quota degli investimenti in macchinari[3] sul PIL è una variabile che continua ad assumere un ruolo importante nella spiegazione dei tassi di crescita. Ma attenzione a proporre un generico aumento degli investimenti! Infatti l’evoluzione qualitativa dei beni di investimento – che si traduce in processi produttivi che necessitano di un minore impiego dei beni strumentali tradizionali – è diventata sempre più importante, è cioè cresciuta la rilevanza del progresso tecnico disembodied[4].
Ogni cambiamento nella composizione dei beni strumentali, indotto ad esempio dall’evoluzione tecnologica, ha conseguenze sui processi produttivi in cui essi sono impiegati, dunque anche sulla composizione dei beni di consumo finali. Immaginiamo di trovarci dinanzi a due sistemi economici, il sistema A e il sistema B, caratterizzati da una bilancia commerciale in pareggio: le importazioni sono uguali alle esportazioni. Se nel sistema B, grazie alla ricerca e sviluppo, vengono diffusi beni strumentali in grado di sostenere una produzione a più bassi costi e in grado al contempo di incidere anche sulla stessa evoluzione dei beni di consumo, vi saranno due conseguenze: i nuovi beni di consumo prodotti in B potrebbero sostituire i beni di consumo che B importava da A. Inoltre i nuovi beni strumentali prodotti in B saranno richiesti dalle imprese impegnate in A per preservare la propria competitività. In assenza di un incremento delle conoscenze sviluppate in A, si verrà così a generare un peggioramento della bilancia commerciale in A e un miglioramento della bilancia commerciale in B. Il vincolo tecnologico assume così le caratteristiche di un vincolo commerciale. In un’area economica che utilizza un’unica moneta e che non prevede meccanismi di riequilibrio fiscale o commerciale, la dinamica appena illustrata risulta incorreggibile.
Nel corso degli ultimi 25 anni (1987-2012) i principali Paesi industrializzati in Europa hanno contratto gli investimenti in rapporto al PIL. A ciò è corrisposta una crescita del rapporto fra la ricerca e sviluppo e il PIL e più in particolare del rapporto fra la ricerca e sviluppo delle imprese (BERD) e il PIL, che indica un progressivo spostamento della specializzazione produttiva su settori innovativi a più elevata intensità di ricerca. Questa importante trasformazione si inquadra nel più generale processo di sviluppo che ha coinvolto le economie più avanzate a partire dal secondo dopoguerra, portando alla ribalta il ruolo della ricerca scientifica e della innovazione tecnologica, prefigurando una nuova divisione internazionale del lavoro basata sulla produzione di beni high-tech.
Cosa ha comportato l’interazione tra progresso tecnico e l’evoluzione della domanda originata dalla crescita dei redditi pro-capite verso beni e servizi a maggior contenuto tecnologico?
Ha delineato i contorni di una dinamica strutturale tendente a sollecitare la redistribuzione della produzione da settori caratterizzati da una domanda in termini relativi in declino, verso altri invece in espansione e caratterizzati dalla presenza di nuovi prodotti. Non tutti i Paesi manifestano gli stessi andamenti, ma il quadro generale è quello di un rafforzamento della spesa in ricerca e sviluppo parallela a una riduzione degli investimenti in macchinari[5]. Solo per fare alcuni esempi, la Finlandia è caratterizzata da una netta riduzione della quota degli investimenti in macchinari sul PIL (circa l’8% nel 1987, di poco inferiore al 4% nel 2011) e da un contestuale netto aumento della quota BERD sul PIL (dall’1% a circa il 3% nello stesso periodo); la Germania mantiene un livello della quota BERD sul PIL di poco inferiore al 2%, che appare sufficiente a garantire una tendenza decrescente del rapporto investimenti in macchinari/PIL (da circa il 7% a circa il 5% nel periodo considerato). Anche la Francia è caratterizzata da una riduzione della variabile investimenti in macchinari/PIL (dal 4,5% nel 1987 a circa il 3,5% nel 2010) e da una costanza della quota BERD/PIL di poco inferiore all’1,5%.
Diversamente dagli altri Paesi, l’Italia manifesta un ristagno della quota BERD/PIL, che resta sempre al di sotto dell’1% e che non tende mai a crescere, accompagnandosi ad una crescita della quota investimenti in macchinari/PIL nel periodo che va dal 1992 sino al 2008.
Nella Figura 1 mettiamo in relazione investimenti in macchinari e la BERD per vedere in quale misura la dinamica dell’investimento è correlata alla dinamica strutturale del sistema produttivo in funzione del grado di specializzazione in settori ad alta intensità di ricerca. Maggiore è il rapporto BERD/investimenti in macchinari, più il processo di accumulazione risulta essere knowledge intensive e viceversa.
Di particolare interesse è la performance della Finlandia con un rapporto BERD/investimenti sempre al di sopra del 10% che è tendenzialmente crescente sino a raggiungere l’80%, diversamente dall’Italia che ha un rapporto stabilmente al di sotto del 10%. All’interno di questi due estremi troviamo tutti gli altri Paesi analizzati, che comunque registrano una crescita del suddetto rapporto, in particolare la Germania e la Spagna.
L’Italia è un caso limite, ma rappresentativo del nuovo paradigma: è il Paese che più di altri ha investito in beni strumentali, ma allo stesso tempo è anche il Paese con la peggiore crescita del PIL.
L’economia italiana si contraddistingue per un rapporto BERD/investimenti assolutamente stagnante, che porta il Paese da un lato a mantenere elevata la quota di beni strumentali necessari alla produzione, dall’altro a far sì che la domanda di beni strumentali sia sempre meno soddisfatta dalla produzione interna, a fronte di una specializzazione produttiva dinamicamente sempre più lontana dalla frontiera tecnologica e perciò insufficiente a mobilitare adeguate competenze tecnologiche[6].
Fig. 1 – Andamento del rapporto BERD/Investimenti in Macchinari (1987-2011)
Fonte: elaborazioni su dati OCSE
Il ruolo del modello di accumulazione e della sua capacità di incorporare i processi di innovazione tecnologica non può prescindere dal livello di sviluppo in cui si colloca un determinato Paese. Infatti, a partire dagli anni ’80, la crescita degli scambi commerciali internazionali risulta essere alimentata in maniera crescente dalle produzioni high-tech (passando da una quota del 15% di fine anni ’80 ad una quota dell’ordine del 30% negli anni ’90[7]), ed è rispetto a queste che si è andata sempre più misurando la capacità competitiva delle economie avanzate. La tenuta della capacità produttiva dei diversi Paesi rispetto al vincolo estero si è andata così definendo in base alla capacità di esportare nei mercati dei prodotti high-tech, tenuto conto che la diffusione dei processi di innovazione ha portato contestualmente anche ad una maggiore domanda di questi beni e ad un aumento delle relative importazioni.
Diversamente da quanto avvenuto nell’ambito dei maggiori paesi industrializzati, a partire dagli anni ’80, e in tempi più recenti in una significativa schiera di Paesi nord europei, in Italia l’aumento dell’intensità tecnologica delle importazioni manifatturiere non ha infatti trovato un adeguato bilanciamento nell’aumento dell’intensità tecnologica delle esportazioni. I deficit commerciali del Paese nelle produzioni high-tech derivano dunque da uno scompenso strutturale tra domanda di tecnologia – coerente con quella degli altri ad industrializzazione avanzata – ed offerta di tecnologia, ed il loro accentuarsi nel lungo periodo non è che un esito del peggioramento di questo scompenso. La dipendenza dei processi innovativi dall’uso di beni strumentali, che sono la componente maggioritaria delle produzioni high-tech, ha naturalmente aggravato tale scompenso.
Considerata la natura particolare della crisi italiana, una richiesta di sostegno indiscriminato agli investimenti risulterebbe controproducente: dato il sentiero di sviluppo su cui si colloca l’Italia, contribuirebbe alla crescita del disavanzo commerciale italiano. Si tratta invece di comprendere la dinamica strutturale del sistema e di riprogrammare la struttura produttiva del Paese. Occorre entrare nel merito di cosa produrre, di come farlo e per chi, sollecitando una modifica della specializzazione produttiva verso settori a più alta intensità di ricerca e sviluppo. Solo la produzione di beni innovativi in grado di indirizzare un cambiamento tecnologico che vada oltre i confini nazionali può ridurre in modo durevole il disavanzo commerciale del Paese[8]. Questo è ciò che si dovrebbe intendere per politica industriale.
* Stefano Lucarelli, Dipartimento di scienze aziendali, economiche e metodi quantitativi, Università di Bergamo; Daniela Palma, ENEA-UTT (Unità Trasferimento Tecnologico); Roberto Romano, Dipartimento contrattazione della CGIL Lombardia con incarichi di studio e ricerca.
Bibliografia
DULLECK U. e FOSTER N. (2008), Imported Equipment, Human Capital and Economic Growth in Developing Countries, Economic Analysis and Policy, vol. 38 n. 2, pp. 233-250.
FERRARI S. (2012), Crisi internazionale e crisi nazionale, Moneta e Credito, vol. 65 n. 257, pp. 49-58.
LEON P. (1965), Ipotesi sullo sviluppo dell’economia capitalistica, Boringhieri, Torino.
PALMA D. e PREZIOSO S. (2010), Progresso tecnico e dinamica del prodotto in un’economia ‘in ritardo’, Economia e Politica Industriale, vol. 37 n. 1, pp. 33-634.
PARRINELLO S. (2010), The Notion of National Competitiveness in a Global Economy, in Vint J., Metcalfe J.S., Kurz H.D., Salvadori N. e Samuelson P. (a cura di), Economic Theory and Economic Thought: Essays in Honour of Ian Steedman, Routledge, Londra e New York, pp. 49-68.
PASINETTI L. (1984), Dinamica strutturale e sviluppo economico: un’indagine teorica sui mutamenti nella ricchezza delle nazioni, UTET, Torino.
THIRLWALL A.P. (2011), The Balance of Payments Constraint as an Explanation of International Growth Rate Differences, PSL Quarterly Review, vol. 64 n. 259, pp. 429-438.
Note
[1] Il lettore desideroso di approfondire le tesi qui sostenute è rimandato al nostro articolo apparso su Moneta e Credito, vol. 66, n. 262, pp. 167-203.
[2] Sullo stesso problema ha recentemente posto l’attenzione anche Parrinello (2010). Si tratta di risultati coerenti con i modelli di crescita limitata dalla bilancia dei pagamenti (Thirlwall, 2011).
[3] Per descrivere la dinamica degli investimenti delle imprese utilizzeremo i dati OCSE “Other machinery and equipment”, che rappresentano la componente più rilevante, ai fini della nostra ricerca, degli investimenti fissi.
[4] Cfr. Dulleck e Foster (2008) e Palma e Prezioso (2010).
[5] Per gli investimenti in macchinari abbiamo utilizzato i dati OCSE, Other machineries and equipment. Per la BERD abbiamo utilizzato i dati OCSE, Business enterprise R-D expenditure by industry. Abbiamo espresso entrambe le variabili in rapporto al PIL (dati OCSE, Gross domestic product, output approach).
[6] La cosa può apparire paradossale, ma occorre considerare che sebbene i beni strumentali acquistati sul mercato internazionale siano caratterizzati dagli stessi rapporti capitale/lavoro (gradi di meccanizzazione) per tutti i Paesi, a parità di grado di meccanizzazione, un Paese che importa dall’estero una parte dei macchinari avrà un rapporto capitale/prodotto (intensità di capitale) più elevato. Come spiegato da Pasinetti (1984, pp. 210 e ss.) può accadere che il progresso tecnico comporti l’impiego di un numero crescente di macchine per lavoratore, senza che la quantità di lavoro incorporato in tali macchine vari. L’uso di uno stesso processo produttivo in un Paese che importa il bene capitale ad esso necessario, non implica l’impiego delle quantità di lavoro che serve a produrre quel bene capitale, ma l’impiego di quelle quantità di lavoro necessarie a produrre quei beni la cui vendita rende possibile lo scambio sul mercato estero volto all’acquisizione del bene capitale in questione. Ne deriva che nei Paesi importatori – come l’Italia – vi siano processi produttivi con un’intensità di capitale più elevata e con una maggiore proporzione nei prezzi finali della componente di costo per il capitale rispetto alla componente di costo per il lavoro. Così gli investimenti si traducono in un vincolo estero di natura tecnologica. Cfr. anche Ferrari (2012).
[7] I dati sui prodotti high-tech utilizzati nel presente studio sono tratti dalla base statistica dell’Osservatorio ENEA sull’Italia nella competizione tecnologica internazionale, messa a punto, nella sua versione iniziale, nel 1993. Tale base è fondata sulla definizione di un paniere di produzioni valutate come high-tech tenendo conto non solo dell’appartenenza a settori industriali “ad alta intensità tecnologica”, caratterizzati tipicamente da più elevate spese in R&S, ma anche dell’indicazione diretta del contenuto tecnologico fornita da tecnici ed esperti di settore. Lo studio della rilevanza tecnologica dell’offerta produttiva seguendo un approccio per prodotti consente, infatti, di superare i limiti insiti nelle classificazioni settoriali la cui valutazione di “intensità tecnologica” dipende in larga misura dalle produzioni “prevalenti” presenti al loro interno. Ciò comporta l’esclusione di produzioni tecnologicamente rilevanti ma appartenenti a settori a medio-bassa intensità tecnologica, nonché il caso opposto e una conseguente difficoltà nel condurre analisi comparative tra Paesi diversi sulla reale rilevanza tecnologica delle produzioni nazionali. Il paniere di beni high-tech dell’Osservatorio ENEA, revisionato nel 2004, è stato selezionato sulla base della classificazione S.I.T.C. REV.3 (introdotta nel 1988) e comprende i seguenti gruppi di prodotti: farmaceutica, energia termomeccanica, chimica, materiali, automazione industriale, macchine per ufficio, telecomunicazioni, elettromedicali, componenti elettronici, aerospazio, strumenti di precisione, strumenti e materiale ottico.
[8] La prospettiva di politica economica che cerchiamo di sviluppare trae spunto dalle preziose intuizioni presenti in Leon (1965).
Sarebbe utile inserire il grafico.
Grazie
come non detto (prima non mi usciva)
Resto sempre basito nel constatare quante parole possono essere usate per dire poche semplici cose.
E resto basito anche nel vedere come, nella spasmodica ricerca di risposte da numeri asettici e resi avulsi da ogni contesto, si possa perdere di vista il solito incontrovertibile fatto sostanziale. In Italia si spende male. Gli investimenti da noi o sono pubblici, ed allora le scelte avvengono sostanzialmente in funzione dell’utilità immediata per pochi “amici degli amici”; o sono privati, ed allora risentono ancora in grandissima parte dell’inettitudine delle nostre grandi aziende famiglia. Ovviamente esistono anche lodevoli eccezioni, ma non sufficienti a cambiare il colore dello sfondo (ed infatti la situazione è quella che è).
Credo che serva a nulla (se non a gratificare l’ego degli studiosi di economia) stare a rimestare numeri e grafici dimenticandosi che le condizioni al contorno sono malsane. Presi dal confronto con le economie degli altri paesi, ci stiamo dimenticando completamente che i nostri assets sono ben diversi: abbiamo il più grande patrimonio storico artistico e culturale dell’intero pianeta, una qualità agroalimentare unica, ambiente e paesaggio ancora in gradi di attirare visitatori da ogni dove. Cosa facciamo invece? Ci fasciamo la testa perché i Tedeschi sanno fare le auto meglio di noi ed i Finlandesi guidano l’evoluzione delle telecomunicazioni. E cerchiamo di competere su terreni che ci vedono perdenti in partenza. Perché? Perché disgraziatamente l’aver prodotto alcuni, rarissimi geni di livello assoluto, più che altro durante il Rinascimento, ha convinto la totalità (!!!) dei nostri connazionali che quella genialità è una caratteristica connaturata del popolo Italiano e che riuscirà a trarlo fuori dai guai. Risultato: sprechiamo risorse nella ricerca del confronto con le altre economie, e contemporaneamente devastiamo i nostri assets “naturali”: dalla Val di Susa alla terra dei fuochi, dall’inceneritore no scusate termovalorizzatore piazzato nel bel mezzo dei campi dove dovrebbero crescere le erbe destinate alle vacche col cui latte si fa il parmigiano (a proposito, la mia famiglia è originaria di lì, ma io ora a malincuore passo al Trentingrana) all’autostrada in Maremma.
Ieri passavo davanti al palazzo della civiltà del lavoro e leggevo la famosa frase di Mussolini: “VN POPOLO DI POETI DI ARTISTI DI EROI DI SANTI DI PENSATORI DI SCIENZIATI DI NAVIGATORI DI TRASMIGRATORI”. Beh a volte penso che con quella frase abbia fatto un danno enorme, occultando e rendendo meno chiaramente visibile la realtà di un popolo che è piuttosto fatto … di ottusi di ignoranti di codardi di egoisti di presuntuosi di sempliciotti … quanto ai navigatori non riesco a pensare perché mi viene in mente Schettino ed il suo sgangherato equipaggio e mi metto a ridere … e quanto ai trasmigratori, beh, è tutto quello che resta da fare. Questa è la realtà. Poi, uno è liberissimo di continuare a baloccarsi col BERD.
Ah a proposito, posto che non tutti i Paesi sono allineati dal punto di vista della tecnologia, e che non tutti producono le stesse cose, non sarà anche un pò normale che la forma che prendono gli investimenti (BERD/macchinari) possa essere diversa? Se siamo bravi a vendere a 200 € scarpe che ne costano forse 20, non sarà che ci servono macchinari per fare scarpe, e non nuovi software?
Signor g.e.o.,
capisco che di questi tempi gli economisti suscitino sarcasmo e disprezzo. Tuttavia la ricerca che stiamo conducendo non è nè inutile nè banale. I risultati che qui diffondiamo e che prima abbiamo pubblicato su una rivista scientifica dopo aver impiegato circa 1 anno e mezzo a rispondere inmodo convincente alle obiezioni dei referee, possono sembrare addirittura controintuitivi, tant’è che spesso si sente dire che il problema italiano stia in un rilancio indistinto degli investimenti. Noi sosteniamo che:
il rilancio degli investimenti privati in Italia di traduce – molto probabilmente – in uno squilibrio della bilancia commerciale.
Rispondo alle sue domande: 1. i Paesi che abbiamo confrontato sono di fatto allineati dal punto di vista della tecnologia adottata negli stessi processi produttivi (nel senso di grado di meccanizzazione, non nel senso di intensità di capitale – rilegga attentamente la nota 6), il problema sta nel progresso tecnico “disembodied”, che noi cerchiamo di cogliere quantitativamente attraverso la BERD (certo questa non coglie tutto, varrebbe la pena studiare anche il ruolo di altre variabili strutturali – ciò che lei chiama “caratteristiche connaturate del popolo italiano” – ma per il nostro lavoro comparativo e per il periodo da noi considerato non esistono dati utilizzabili); 2. no, – posto che non è vero che siamo così bravi a vendere 200 euro di scarpe che ne valgono 20 (perdiamo sempre più quote di mercato anche per questi beni) – non ci serve importare macchinari per fare scarpe, nè sono certo che ci convenga produrre macchinari per fabbricare scarpe. Il problema di politica economica su cui stiamo studiando consiste nel comprendere in quali settori conviene specializzarsi. Questi devono avere la caratteristica di tradursi in un rilancio della domanda effettiva. Date le caratteristiche italiane, ciò significa innanzitutto guadagnare quote di mercato nei prodotti che garantiscono un maggiore valore aggiunto – i software, ma non solo. Ciò avrebbe come effetto anche una ripresa della buona occupazione nel Paese e – con ogni probabilità – la valorizzazione degli asset che le stanno giustamente a cuore. Ma occorre governare il cambiamento – o meglio la dinamica della struttura economica. Nella speranza che non intenda questo mio sforzo didattico come un ulteriore segnale di superbia la saluto cordialmente anche da parte di Daniela Palma e di Roberto Romano (una donna e un uomo caratterizzati da un ego quasi impercettibile).
Guardi, uso un nickname, quindi non ha senso anteporvi un “signor”: basta .g.e.o., evidentemente. E la ringrazio di averlo scritto correttamente.
Non ha senso nemmeno che mi riformuli la tesi in modo riassunto. Nè che la rafforzi parlando della pubblicazione su una rivista “scientifica” (ma non parliamo di economia? Cosa ha a che vedere l’economia con il metodo scientifico?) o del tempo passato ad elaborarla, ciò che conta restano contenuti e risultati.
Mi sembra ovvio che gli investimenti fini a sé stessi non possano portare risultati positivi se non per mero caso. Mi sembra molto meno ovvio che la componente “disembodied” (in Italiano: immateriale) rappresenti un parametro di qualche interesse per trarre indirizzi per il futuro. Il fine di tutto ciò dovrebbe essere il benessere della nazione; e mi pare che si stia bene in Svizzera come in Nuova Zelanda, in Gran Bretagna come in Francia, negli USA come in Australia … cito a caso nazioni le cui economie presumo essere abbastanza diverse, e diversi mi aspetto essere i rispettivi rapporti BERD/investimenti, così come qualunque altro parametro … il punto è che si sta male qui. Da noi. Dove guarda caso si susseguono decenni di governi impresentabili e dove si continua a votare per la stessa teppa sperando che cambi e diventi buona.
A fronte di questo non vedo proprio il senso di discettare dottamente di parametri sempre più raffinati (stavo per scrivere astrusi, ma riconosco che hanno un significato notevole) per capire perché la cioccolata sa di cioccolata ed altre cose di simile colore e consistenza invece no. A mio avviso tutto ciò che si ottiene è di illudere qualcuno che con approfondite analisi e brillanti conclusioni sia possibile risolvere il problema. Mentre il problema è che siamo governati da mascalzoni e continuiamo a votarli.
Quello delle scarpe era un esempio grossolano per dire che anche da beni tutt’altro che immateriali si può trarre profitto.
In quali settori specializzarsi? Guardi, come dicevo, siamo fortissimi quanto ad opere d’arte, clima, paesaggio, agroalimentare di qualità, patrimonio storico. Va beh, per ora è ancora abbastanza così. I Finlandesi hanno tutti gli stimoli possibili per starsene in casa al calduccio a pensare. I Tedeschi, più o meno stesso clima schifoso, magari sono più pratici (oppure hanno sempre carbone ed acciaio, se preferisce) e si dedicano all’industria. Gli USA hanno un enorme mercato interno ed armi a sufficienza per fare ciò che vogliono, infatti da decenni il resto del mondo finanzia i loro vizi. Faccia un pò lei.
.g.e.o. chiudo questo scambio con due citazioni che forse la faranno riflettere:
“Anche la disperazione impone dei doveri e l’infelicità può essere preziosa” (CSI, Linea Gotica, 1996).
“Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso” (J.M. Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, 1931) .
La lascio alle sue convinzioni circa la non scientificità dell’economia (essa resta una scienza sociale e un sapere pratico), alla possibilità di costruire un sistema economico che produca un valore aggiunto sufficiente a far vivere dignitosamente la sua popolazione gestendo il patrimonio artistico, culturale, paesaggistico e agro-alimentare (splendido obiettivo che peraltro non è distante da ciò che Keynes pensava riguardo al lungo periodo. Ma, appunto, nel lungo periodo!) e ai suoi esempi grossolani.
Guardi, disperazione ed infelicità le lascio volentieri a lei.
Sono perfettamente d’accordo col suo vate, che antepone quel bellissimo “se” alla frase che cita.
Che l’economia sia una scienza è convinzione pressoché esclusiva degli economisti; per chi ha assaggiato materie realmente scientifiche, no, e con grandissima evidenza. Al massimo l’economia è un ambito di studi in cui a volte trovano applicazione un pò di statistica e purtroppo anche matematica; dico purtroppo perché le grandezze economiche hanno caratteristiche differenti da quelle fisiche, per studiare le quali la matematica è nata, e tali da rendere la stessa inapplicabile. Ed i risultati sono da sempre sotto gli occhi di tutti. Il guaio è che gli economisti vivono per lo più in un ambito autoreferenziale, per cui non si rendono conto di come stanno le cose.
Anni fa ebbi occasione di assistere ad un intervento di Stefano Micossi, che allora guidava il centro studi di Confindustria. Ai tempi volevo illudermi che certe cose potessero avere un senso. Ricordo che ci presentò le elaborazioni del suo team sull’andamento previsto delle varie grandezze negli anni successivi, PIL, inflazione, tassi di cambio, bla bla bla … che gran bella cosa, pensavo, essere in grado di organizzare le attività economiche e finanziarie in base a previsioni così precise ed affidabili … la cosa buffa è che pochi mesi dopo ci fu il tracollo del tasso di cambio Lira/Marco. La cosa ancora più buffa fu ascoltare lo stesso Micossi qualche mese dopo, di fronte alla stessa audience, che si arrampicava sugli specchi per ripristinare un pò di credibilità al lavoro e del suo team di studiosi. Ora di tempo ne è passato e credo che Micossi potrebbe persino ripresentarsi a parlare di fronte alla stessa audience di studenti senza temere di suscitarne l’ilarità, purtroppo.
Ecco, così ho chiuso lo scambio anch’io, con mille grazie per le citazioni ed il cortese invito alla riflessione rivoltomi in perfetto stile Keynesiano, direi: “SE.gli economisti …”.
Ah, scusi, dimenticavo. Mi pare che l’oggi temporalmente si collochi, rispetto a quando Keynes scriveva, proprio nel lungo periodo. E dove siamo, invece? Obiettivo raggiunto, o almeno avvicinato, diciamo come minimo in vista? No. Niente. Ancora al punto zero. Ancora a fare indagini sofisticatissime, a trarne conclusioni affascinanti, dimenticandosi però di determinare per prime le condizioni al contorno.
Interessante articolo e interessante anche il dibattito, ritengo di grande importanza che venga evidenziata anche la qualità degli investimenti per eviatre i soliti luoghi comuni. Nel diabattito credo che si siano dalle due parti delle ragioni, è indubbio che il nostro patrimonio e tutto ciò che sotituisce un vantaggio competitivo per l’Italia è sfuttato malissimo e da ciò si potrebbe ricavare qualche punto percentuale in più di PIL e occupazione ( in questo caso sicuramente ubicata in Italia), è chiaro che non basta trasformarsi nella pizzeria o nel museo del mondo ma comunque ad oggi il più visitato è il Louvre!. In sintesi mi pare che la cosa che manchi in Italia da decenni sia un tentativo di politica “industriale” in senso lato, anzi se vogliamo dirla tutta i nostri politici e imprenditori negli ultimi decenni hanno fatto di tutto per distruggere e annientare quello che c’era di buono ( tanto per citare basta vedere come hanno ridotto Telecom Italia, ma gli esempi sono tanti).
Sì, davvero? A me invece sembra che di politica industriale in Italia se ne sia fatta e come. Il problema è che da noi si fa così, come è stata fatta. Facciamocene una ragione. Ed è proprio ciò che sto dicendo: è perfettamente inutile eseguire l’analisi più accurata od elaborare la teoria più convincente se poi a farne uso sono inetti, millantatori e mascalzoni.
Gentili autori,
credo sia importante la riflessione da voi posta sulla scelta degli investimenti, anche se vi trovo alcuni elementi che,a mio parere potrebbero essere discutibili per le conclusioni a cui vi portano.
Il primo riguarda l’idea di fondo che beni high-tech siano il prodotto di imprese appartenenti al settore high tech. Questo, a partire anche dal settore tessile (per antonomasia non un settore che viene considerato HT) e dalle innovazioni “general purpose” ad esso applicate, è un po’ la critica che molti lavori di economia dell’innovazione fanno nel momento in cui ci si riferisce ancora alla dicotomia settori maturi vs. settori innovativi..
Il secondo riguarda il settore che voi chiamate “macchinari” e che forse meriterebbe un approfondimento ulteriore visto che (almeno fino all’ultimo rapporto Istat sulla competitività) risulta essere tra i pochi che rimangono competitivi. Chi studia economia industriale conosce in questo caso gli esempi di tutte le macchine speciali, oltre alla presenza in Italia di alcuni leader sul mercato mondiale (e penso in particolar modo all’industria emiliano-romagnola delle macchine per packaging, o del biomedicale e alla meccatronica).
L’ultimo punto riguarda l’idea che la “domanda di tecnologia” esista ed è l’offerta a mancare. Su questo devo dire che sono abbastanza scettica. Non so da quale dato deduciate questo, e probabilmente è una conoscenza che manca a me. Tuttavia vorrei porre alla vostra attenzione come numerosi studi di carattere industriale (penso agli osservatori sui distretti, piuttosto che ad altre ricerche sui territori anche all’interno del mandato ministeriale sulla smart specialization) evidenzino come ostacolo all’innovazione più che alla possibilità di accedere a nuove tecnologie sia data da una mancanza di capacità da parte delle imprese italiane di capire le opportunità offerte da un cambiamento tecnologico (inteso qui nel significato più ampio del termine). Non è ovviamente generalizzabile, ma sono numerosi gli studi che evidenziano più la mancanza di capacità imprenditoriale (nel senso di un imprenditoria non in grado di aggiornare le proprie competenze) e quindi anche di definire le possibili esigenze su cui fare upgrading, piuttosto che di mancanza di offerta tecnologica (es: abbiamo comparti come il meccanotessile che non producono più per l’Italia ma solo per l’estero).
Queste osservazioni sono un invito solo a mantenere forse più aderente l’articolo al vostro titolo, considerando davvero le specializzazioni produttive, ma in base non alle tassonomie di knowledge intensity, quanto piuttosto alla possibilità di sfruttare alcuni elementi strutturali del know how nazionale integrandoli con le possibilità offerte dalle nuove tecnologie.
Non possono essere solo scarpe è vero. Ma ben vengano le scarpe a 400 euro se questo significa avere sviluppato una rete di servizi (R&D sui materiali, sull’ergonomia, design, servizi di marketing, servizi avanzati al retail, logistica etc.), avere investimenti in macchine speciali e permettere di creare connessioni con i mercati esteri di cui anche gli altri settori potranno godere i vantaggi.
Non possono essere solo tessuti. Forse sarebbe meglio dire che non possono essere tessuti tradizionali. Quando il tessuto però rappresenta uno dei canali di R&D per lo sviluppo di fibre che abbiano funzionalità tali da essere usate per la costruzione di ponti o i rivestimenti di velivoli per l’aerospazio….perchè no.
Ringraziandovi per l’attenzione,
cordialmente.
M.M.
M.M.,
visto che riprende (e la ringrazio della considerazione) il mio “pedestre” esempio delle scarpe. Io non credo che un paio di scarpe andare per 400 € grazie ad “una rete di servizi (R&D sui materiali, sull’ergonomia, design, servizi di marketing, servizi avanzati al retail, logistica etc.), avere investimenti in macchine speciali e permettere di creare connessioni con i mercati esteri”. Io credo che potrei considerare l’acquisto di un paio di scarpe da 400 € in base ad un paio di cose solamente: stile ed abilità manuale. Va beh ci metto anche la rete logistica, ma bisogna parlarne. La tecnologia c’entra poco, anzi: mi sa tanto che se riconosciuta abbatterebbe il valore del prodotto in questione …
Il suo commento pone questioni importanti che vanno approfondite. Qualora volesse sottoporre un suo articolo ad Economia e Politica per continuare il dibattito basta inviarlo via mail a redazione@economiaepolitica.it (non più di 10.000 caratteri spazi inclusi). La redazione lo prenderà senza dubbio in considerazione e lo commenterà in tempi brevi (non più di 10 giorni) affinché assuma la forma più adeguata per la sede di pubblicazione. Nel mentre segnalo a lei e ai lettori di Keyes Blog che il dibattito riguardo alle politiche industriali, alla de-specializzazione produttiva italiana e agli squilibri commerciali europei continua su Economia e Politica con un articolo molto importante di Sergio Parrinello
http://www.economiaepolitica.it/index.php/tag/sergio-parrinello/ .
E’ un po’ difficile da leggere per i non addetti ai lavori, ma il gioco vale la candela.
mi pare che nonostante sti berd nell’iperspazio la finlandia se la passi maluccio…
A me viene anche il sospetto che il rapporto BERD/investimenti della Finlandia abbia molto a che fare con gli affari tra Nokia e Microsoft. Insomma, che possa trattarsi di una situazione talmente specifica e particolare da non avere alcuna rilevanza al di fuori dello specifico contesto di quella nazione.
io cito spesso la finlandia nei miei dibattiti, contro i liberisti filoeuristi che sostengono che i nostri sono solo problemi interni tipici di kattivi piigs semiafricani. stavolta tirano fuori la finlandia economisti che liberisti non sono (seguo il loro sito e a volte fanno analisi pregevoli).
beh, pare proprio che sti berd non abbiano PER NULLA aiutato la finlandia a non cadere nella fossa dei serpenti: a partire (coincidenza!) dal 2002 la sua ottima bil.commerciale ha iniziato inesorabilmente a deteriorarsi, un movimento simile a quello italiano.
http://www.tradingeconomics.com/finland/current-account-to-gdp
Signori,
la qualità del vostro contributo sulla relazione tra qualità degli invstimenti e crescita, risalta ancora di più quando la si metta a confronto con altre letture approssimative che circolano in rete, come quella appena pubblicata dal buon Bagnai
http://goofynomics.blogspot.it/2013/12/eh-ma-i-tedeschi-hanno-investito.html#comment-form
Il Nostro mette in evidenza il minore rapporto tra investimenti e PIL della Germania rispetto ad altri Paesi, per arrivare a sentenziare così:
“E la morale della favola qual è? Che da che mondo è mondo, nella maggior parte dei casi non si diventa competitivi “investendo”, ma in un modo molto più semplice e che alle élite tedesche viene tanto naturale: fottendo il prossimo”
Nessun accenno, appunto, all’importanza assunta oggi dalla qualità dell’investimento (in primis, ricerca e sviluppo), al di là della quantità.
E neppure apparirà mai su sito del Nostro moralista il mio contributo, che metteva in evidenza come la performance dell’economia tedesca vada messa in relazione, oltre che agli investimenti fissi effettuati in quel paese, anche con: il flusso netto degli investimenti diretti all’estero (con il conseguente maggiore livello di internazionalizzazione delle catene di fornitura e delle reti di vendita); con il livello acquisito di reputazione e forza del brand; con il valore del capitale umano, che in quel paese appare meglio valorizzato rispetto al nostro.
Un cordiale saluto.
http://marionetteallariscossa.blogspot.it/
[…] in tempo di crisi per sbloccare il circolo vizioso sarebbe una politica statale interventista di investimenti mirati e spesa pubblica per aumentare occupazione e ricchezza privata, migliorare le aspettative e sbloccare la terribile […]