Il titolo di questo articolo vuole essere ironico, ma non troppo: secondo la prestigiosa, e tradizionalmente liberista, London School of Economics una delle principali “fratture” concettuali che attraversa la crisi dell’Eurozona è rappresentata dal dibattito tra “Hayekiani” e “Keynesiani”. Per questo la LSE ha iniziato ad ospitare interventi di economisti di orientamento opposto per alimentare la discussione sul proprio blog dedicato all’Europa.
Il secondo, pubblicato il 25 agosto scorso, è di Simon Wren-Lewis, docente all’Università di Oxford, il quale confuta le politiche di austerità attuate – tanto in Europa, quanto negli Stati Uniti, che non stanno affatto subendo la pressione dei mercati – nel nome di un livello di debito pubblico giudicato troppo elevato. La risposta dei Keynesiani, spiega Wren-Lewis, è che è sbagliato concentrarsi su questo problema proprio nel corso di una recessione riconducibile ad un aumento del risparmio nel settore privato, mentre è necessaria una spesa pubblica in deficit per contrastare la caduta dei livelli di attività economica. I sostenitori dell’austerity sostengono che un più contenuto debito pubblico può sostenere la fiducia degli investitori privati. Si tratta tuttavia di una mera speranza al di sopra di ogni ipotesi teorica ed evidenza empirica, come i fatti stessi hanno dimostrato negli ultimi due anni. D’altra parte una riduzione del surplus di risparmio, a fronte di un debito pubblico più contenuto, può solo favorire una caduta dei livelli di attività e dei redditi.
Wren-Lewis precisa che la posizione contraria all’austerità in tempi di recessione non intende prescindere dal problema dell’entità del debito in una prospettiva di lungo periodo. Ciò che si vuole affermare è che la politica fiscale deve essere anti-ciclica, e non pro-ciclica (e va detto, peraltro, che l’austerity non dovrebbe essere un modo surrettizio per ridurre il peso dello Stato). Ricordando la lezione keynesiana della Grande Depressione, in un periodo di recessione economica è necessario mettere in pratica politiche fiscali che compensino la tendenza dei privati al risparmio, quando le politiche monetarie non sono praticabili o sono comunque inefficaci.
Alla luce di queste considerazioni si capisce come la politica seguita attualmente nell’eurozona sia particolarmente male impostata. Se si guarda al rapporto Debito/Pil dell’intera zona euro, si vede che è inferiore a quello degli Stati Uniti o del Regno Unito, mentre la velocità del consolidamento fiscale è assai più rapida. C’è quindi intanto da chiedersi se ciò sia dovuto al fatto che l’Eurozona non è un paese singolo.
Approfondendo il discorso relativo all’Europa, si sente allora raccontare la storia che la crisi dell’Eurozona è dovuta al lassismo fiscale di alcuni paesi. Questo, secondo Wren-Lewis, è parzialmente vero, ma non nello stesso senso comunemente accettato, cioè il lassismo delle finanze pubbliche: se lassismo c’è stato non è tanto in relazione ai livelli di debito, quanto invece in rapporto a politiche fiscali che non hanno tenuto a bada la forte domanda del settore privato che ha alimentato le bolle del settore immobiliare.
Un secondo importante fattore di crisi è rappresentato dal settore bancario (vedi il caso spagnolo) per il salvataggio del quale sono state messe sotto pressione le finanze pubbliche. Il tutto non fornisce comunque complete risposte al perché nell’eurozona vi siano tassi di interesse molto elevati, almeno se si continuano a guardare le variabili debitorie a confronto, come detto prima, con quelle di paesi come l’UK.
Il nodo che distingue il caso UK dal resto dei paesi dell’eurozona, risiede infatti nella presenza di una Banca Centrale e nella sua possibilità di intervenire direttamente. Per l’Eurozona resta lo scoglio della Banca Centrale Europea, l’azione della quale, secondo la politica dell’austerità, viene vista come controproducente se in favore di una abbassamento dei tassi di interesse, che potrebbero essere interpretati come un incentivo a praticare una sorta di “lassismo fiscale”. Ma questo, a fronte della consistenza della crisi in atto, non solo sembra assolutamente fuori luogo, ma anche del tutto inconsistente rispetto al fatto che nei paesi maggiormente in difficoltà sono stati già messi in atto imponenti piani di austerità.
Oltretutto sono posizioni che non colgono, come detto in principio, la causa della crisi, che non deriva da un lassismo delle finanze pubbliche, mentre d’altro canto è assai improbabile che un abbassamento dei tassi oggi darebbe luogo in una prossima ripresa a un eccesso di investimento del settore privato. Intervenire con politiche di austerità non c’entra nulla col frenare i focolai di crisi generati dalle bolle del privato, mentre inasprisce, invece, la recessione economica aumentando la probabilità che il sistema bancario vada in sofferenza. In casi come quello della Grecia, inoltre, l’accanimento praticato con le politiche di austerità ha generato instabilità politica, la quale tende ad alzare il rischio di default.
Nel complesso tutta l’austerità propugnata e messa in pratica in Europa agisce in senso assolutamente contrario alla realizzazione della coesione tra stati. Wren-Lewis sottolinea a questo punto che sarebbe necessario concentrarsi sui problemi strutturali generati dalla diversa “competitività” dei paesi dell’eurozona, che andrebbero corretti con un graduale processo di deflazione rispetto alla Germania. Il punto in questione non viene approfondito, ma nei limiti in cui è espresso non sembra cogliere il fatto che l’aggiustamento dovrebbe prevedere, al contrario, una forte “presa in carico” da parte della Germania, che negli anni scorsi ha dato vita a pronunciate politiche deflazionistiche. Poiché ciò che conta è l’inflazione relativa tra i paesi dell’area euro, è molto meglio che sia la Germania, come suggeriscono in molti, a fare inflazione, aumentando i salari finora tenuti con la museruola. Riguardo la competitività verso l’esterno dell’eurozona, la leva del cambio è lo strumento a cui rivolgersi.
In conclusione, per Wren-Lewis, l’Europa manca di una visione sul ruolo della politica fiscale, o meglio è invertito rispetto alla realtà: vuole correggere le proprie nefaste tendenze nel creare sempre e comunque troppa spesa, mentre il mercato ne esce invece senza colpa, e sempre parsimonioso al punto giusto. Peccato che per questa “svista” l’integrità dell’Eurozona stia ora correndo seri rischi:
There is an underlying pattern behind Eurozone policy errors. They reflect a view that macroeconomic difficulties are primary due to bad government decisions, while private sector decisions within a free market environment do not create problems. Whatever label we want to give this view (Ordoliberal orAnti-Keynesian), it is the fundamental cause of the current Eurozone crisis. Its persistence despite all the contrary evidence allows the crisis to continue and threatens the integrity of the Eurozone itself.
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
Non mi stupisce come certe idee ultra-liberiste possano sopravvivere di fronte all’evidenza dei fatti e dei dati. Immaginate se gli economisti del LSE dovessero ammettere di aver sbagliato, per esempio sull’austerità espansiva applicata negli UK! è come se dicessero che hanno basato tutta la loro carriera su dogmi e fantascienza. Immaginiamo se i governi di punto in bianco abbandonano i piani di austerità ed iniziano ad iniettare risorse pubbliche nell’economia, il giorno dopo dovrebbero dimettersi, perché significherebbe di aver applicato per anni le ricette sbagliate ed aver mistificato il debito pubblico. E’ proprio questa nota scuola LSE che sostiene il concetto di austerità espansiva, attualmente applicata negli UK dal governo conservatore di Cameron, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Anzi proprio gli UK sono l’esempio più evidente del fallimento dell’austerità durante una crisi recessiva. Il bello che gli UK non sono neanche obbligati da BCE, EU ad adottare misure restrittive come per esempio in Grecia, Spagna, Italia (figurati se l’impero si sarebbe sottoposto alla limitazione della propria sovranità), hanno anche una moneta sovrana che si è osservato rassereni il mercato dei capitali, protetto da una banca centrale che controlla l’emissione di moneta… eppure persistono! Hanno fatto una campagna elettorale incentrata su quello… che fanno adesso.. marcia indietro? Si dovrebbero dimettere il giorno dopo! Eppure la fiducia dei mercati non decolla e la recessione persiste. Stà al cittadino comprendere che le ricette sono sbagliate e pretendere un cambio di registro
http://krugman.blogs.nytimes.com/2012/08/16/slump-and-circumstance/
Non so di preciso se fossero economisti della LSE, ma alcuni hanno fatto marcia indietro, a due anni di distanza, sia chiaro, dalle loro proposte in materia di austerità. Il dibattito sul debito pubblico regala sempre molte opportunità di fantasiose analisi, fornendo agli economisti la possibilità di vestire i panni dei profeti di sventura.
Riguardo ai veri problemi della crisi, sposo le argomentazioni di Wren-Lewis. Il problema della competitività è il principale peso che ci portiamo dietro sui mercati, assieme ad una riforma del mercato del lavoro che l’OECD , ormai da svariati anni, segnala come necessaria. Qualsiasi investitore straniero preferisce andare ad investire in qualsiasi altro posto rispetto all’Italia, dove a causa di una burocrazia mastodontica, un clientelismo dilagante e tutti i problemi riferiti al mondo del lavoro cui sopra, i margini di profitto sono infimi.
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