Il tessuto produttivo italiano non assorbe i lavoratori qualificati e richiede poca formazione. Il contratto d’apprendistato, vincolando l’impresa alla qualificazione dei dipendenti, è la forma migliore non solo per superare la precarietà ma anche per incentivare la modernizzazione delle nostre imprese.
di Daniela Palma, Guido Iodice (keynesblog.wordpress.com)
Il dibattito intorno alla riforma del mercato del lavoro, attraverso l’introduzione del cosiddetto “contratto unico”, va approfondito guardando alla concreta struttura del tessuto produttivo italiano. La proposta all’esame della politica verte sull’idea di utilizzare i primi tre anni di contratto come un lungo periodo di prova nel corso del quale l’impresa avrebbe un tempo sufficiente per conoscere il lavoratore e per investire su di esso. Emergerebbe dunque da questo meccanismo l’incentivo a trattenere il lavoratore oltre i tre anni di prova, stabilizzandolo poi secondo le norme vigenti per i contratti a tempo indeterminato, compresa la tutela dell’art.18 dello statuto dei lavoratori.
Occorre però chiedersi con quale probabilità, realisticamente, ciascun lavoratore sarebbe davvero trattenuto nel suo posto di lavoro oltre il triennio di prova. Date le caratteristiche del tessuto produttivo italiano tale probabilità potrebbe essere molto esigua,
E’ noto infatti come l’Italia, ormai da più di vent’anni, abbia approfondito la specializzazione produttiva in settori industriali a intensità tecnologica medio-bassa, divergendo dai maggiori paesi europei, con un peggioramento della nostra collocazione nella divisione internazionale del lavoro. Il paese ha esibito una crescita assai più contenuta dell’occupazione anche nei settori dei servizi, che ottengono contributi crescenti dal terziario avanzato e dal circuito virtuoso che questo è in grado di alimentare se la specializzazione dell’industria è orientata sui settori a medio-alta intensità tecnologica.
A seguito di tali caratteristiche del nostro tessuto produttivo discende una domanda di lavoro con bassa qualificazione, mentre quella qualificata risulta persino sovrabbondante e con tassi di disoccupazione più elevati, specialmente tra i giovani, dando luogo a quello che nell’ultimo rapporto sullo Stato Sociale curato da Roberto Pizzuti, presentato nel giugno del 2011, è stato richiamato assai efficacemente come fenomeno dell’overeducation, tanto più paradossale quanto più si riflette sulla distanza che separa l’Italia dai maggiori paesi industrializzati nella graduatoria della formazione qualificata. A titolo di esempio il grafico mostra la rilevante distanza tra il “cuore” dell’Europa e l’Italia in termini di occupazione nei settori “hi-tech” (quindi di lavoro ad alto contenuto di sapere) sul totale del settore manifatturiero. Assai più efficacemente possono illustrare il punto in questione le statistiche Eurostat relative alla composizione del capitale umano in relazione alla sua formazione e al suo impiego in attività “ad alta qualificazione scientifico-tecnologica”1. Si tratta infatti di statistiche che consentono di collegare caratteristiche rilevanti della qualità del capitale umano (segnatamente, il titolo di studio) con la “qualità” della domanda che ad esso si rivolge, in modo da disporre di un indice della propensione specifica delle imprese a richiedere capitale umano di elevata qualificazione.
Considerando i laureati occupati in attività “ad alta qualificazione scientifico-tecnologica” e rapportandoli al totale dei laureati, possiamo immediatamente verificare che un laureato italiano ha probabilità uguali se non superiori ai suoi colleghi europei di trovare impiego in occupazioni ad alta qualificazione scientifico-tecnologica.
Se poi leggiamo questo risultato unitamente al fatto che la percentuale dell’occupazione totale dei laureati occupati in attività “ad alta qualificazione scientifico-tecnologica” è molto al di sotto di quella relativa agli altri paesi europei, se ne ricava che l’attuale offerta di capitale umano qualificato è sostanzialmente calibrata sulla bassa domanda aggregata di “lavoro qualificato”. E la presenza di laureati disoccupati, talvolta in misura maggiore dei diplomati, appare del tutto spiegata da questo stato di cose.

Quota dei laureati occupati in “attività ad alta qualificazione scientifico tecnologica” (“Domanda specifica” di laureati in aree ad elevata qualificazione, classe di età 25-64) - anno 2006 - elaborazione su dati Eurostat (Human Resources in Science and Technology)

Quota dei laureati occupati in attività “ad alta qualificazione scientifica tecnologica”sul totale degli occupati (“domanda aggregata” di laureati in aree di elevata qualificazione, classe di età 25-64)- anno 2006 - Eurostat (Human Resources in Science and Technology)
Se l’obiettivo vuole essere effettivamente quello di correggere l’attuale precarietà che connota il nostro mercato del lavoro, occorre rafforzare il contenuto formativo della forma che si sceglierà come ingresso nel lavoro. Anche per questo la proposta di usare come “contratto prevalente” il contratto di apprendistato, recentemente caldeggiata dalla Cgil, potrebbe risultare significativamente efficace. Il motivo è in buona misura molto semplice: con quel tipo di contratto l’impresa sarebbe infatti in obbligo di svolgere realmente una attività di formazione nei confronti del nuovo dipendente, sobbarcandosi un costo. Ciò spingerebbe l’impresa a non usare la nuova tipologia di contratto per aggirare l’assunzione con tutte le garanzie, assumendo cioè il lavoratore per 36 mesi, poi assumendone un altro per altri 36 mesi, ecc., e parimenti renderebbe più elevata la probabilità di stabilizzazione di ciascun assunto. Inoltre si può prevedere, come già fa il progetto di legge Nerozzi, un costo per l’impresa in caso di non prosecuzione del contratto nella sua forma più stabile, ferma restando la possibilità di assumere direttamente con il “tradizionale” contratto a tempo indeterminato. Ciò, unito al “disboscamento” della selva contrattuale vigente, con le decine di forme precarie di rapporto oggi possibili, potrebbe avere una concreta efficacia nel portare un numero crescente di lavoratori entro forme stabili di occupazione.
L’obbligo di formazione, inoltre, potrebbe essere anche qualcosa in più che un mero deterrente al licenziamento, poiché spingerebbe l’impresa ad avere una percentuale maggiore di lavoratori formati nel proprio organico, con un innalzamento della qualificazione/innovazione media di tutto il sistema.
Lo sforzo in questa direzione sarebbe dunque un primo passo verso una presa in carico di politiche industriali che correggano l’attuale specializzazione del tessuto produttivo italiano, innalzando con maggior forza il potenziale di creazione di posti di lavoro del paese contestualmente ad un miglioramento nella sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro. In altre parole, più formazione e più certezze per i lavoratori sono parte integrante di una ricetta per la crescita.
1 La caratteristica peculiare delle statistiche Eurostat sul capitale umano consiste nel definire l’offerta di lavoro richiesta in “attività ad alta qualificazione scientifico-tecnologica”. Così facendo, è possibile dare conto dell’effettiva domanda di lavoro che un’economia avanzata “basata sulla conoscenza” è in grado di esprimere, superando le approssimazioni che nascono dal riferire gli occupati alle classificazioni industriali, stilate sul criterio dell’“attività prevalente”. torna su ^
O assumiamo che l’eccezionalità italiana sia tale che in essa non vale ciò che normalmente vale (in termini di incentivi, ma anche di comportamenti razionali dei vari attori in campo) in qualsiasi altro paese (civile e non) o è davvero difficile poter convenire con ciò che viene sostenuto in questo intervento. In essenza, voi dite che imponendo un costo maggiore all’impresa (il costo di formare il dipendente) quest’ultima sarebbe poi più restia a separarsi dalla risorsa alla fine del contratto. Sembra, a sentirvi, che l’impresa abbia come primo obiettivo quello di ruotare le proprie risorse come fossero criceti intercambiabili, senza formarle, senza insegnare loro nulla, ma sfruttandole per un numero limitato di mesi per poi sbarazzarsene. Questo è chiaramente assurdo e non è certo un caso se esistono tonnellate di volumi e ci sono milioni spesi in consulenza da molte imprese per cercare di DIMINUIRE il turnover aziendale e MIGLIORARE la retention. Allora, perché mai un’azienda dovrebbe voler girare i dipendenti ogni 6/12/24/36 mesi, a seconda, quando è noto a tutti che per almeno 5 o 6 mesi (a voler sottostimare molto, ma molto), sptutto se sei giovane ed ai primi impieghi, non sai fare NULLA, NULLA – laurea, master, phd.. doesn’t matter – e ti devono insegnare tutto? A meno che tu non faccia le fotocopie o le telefonate in un call center (spero non stiate parlando di questo), ti si deve in effetti insegnare tutto, ti si deve affiancare gente, si devono perdere tempo e risorse e avere rotture di scatole di rilievo, derivanti anche dai tuoi sbagli. E dopo tutto ciò, pochi mesi, allegria e avanti un altro? come regola? (un turnover maggiore lì ha senso, ed esiste il periodo di prova apposta, ma non certo su vasta scala come qui si immagina/sostiene – nemmeno facendo scegliere i candidati ad una scimmia si sbaglierebbe così tanto nel far selezione da dover esser sempre daccapo!). Rende ancora di più immaginarselo in un ospedale: pensate se si facesse così con la residency dei giovani chirurghi! Ora, io vorrei vedere i dati relativi a questo supposto fenomeno, su cui sono molto scettico. Se, tuttavia, fosse effettivamente così, allora bisognerebbe chiedersi cosa spinge le imprese italiane, ed esse soltanto, lungo tale bizzarra, troppo bizzarra strada e correggere le storture di sistema, non già obbligarle per legge a smettere di fare ciò che fanno.
“Ciò spingerebbe l’impresa a non usare la nuova tipologia di contratto per aggirare l’assunzione con tutte le garanzie, assumendo cioè il lavoratore per 36 mesi, poi assumendone un altro per altri 36 mesi, ecc.”.
Ma ammettiamo per un attimo che sia un fenomeno così diffuso: ciò significa che, pur di avere un po’ di flessibilità in parte della forza lavoro (il resto dei dipendenti essendo difficilmente licenziabile), le aziende sono disposte a sobbarcarsi costi enormi di selezione, tassi di turnover del tutto off the chart, bassa formazione dei dipendenti, etc. E’ allora sarebbe semmai un argomento in più – non in meno – a favore di maggiore flessibilità diffusa (a tutti, non solo ai nuovi entranti che ne pagano tutte le conseguenze), nella misura in cui rivela i costi pazzeschi della sua assenza.
E’ probabile che il mio pensiero abbia difetti prima di nascere, poichè il lavoro non è una materia sulla quale sono molto preparato. Di conseguenza, cercherò di esporre dei dubbi e non certezze. Innanzitutto: cassa integrazione, ammortizzatori sociali e simili. Paghiamo (perchè lo Stato siamo tutti noi) molta gente perchè riesca a vivere pur non lavorando, ovviamente non perchè non lo voglia. Cosa giusta e oltretutto costituzionale. Non capisco perchè queste persone non possano essere investite di un “qualcosa da fare”. Mi vengono in mente due possibilità. Una potrebbe essere quella di farli studiare, nel senso generico del termine. Corsi di formazione, teorici e/o pratici, con il fine di migliorare la qualità della vita del soggetto e il suo range di opportunità. Dal bricolage ai linguaggi informatici, dalla chimica di base al pensiero di Kant. La seconda possibilità prevede l’utilizzo dei soggetti presso strutture di volontariato. Qui non mancano certo necessità. Secondo punto. (o dubbio). Ogni valutazione sulle attività lavorative in Italia è fortemente viziata da due aspetti: eccessiva burocrazia e criminalità. Quale programmazione è possibile, nell’era dell’informazione che viviamo, se le informazioni sono incerte? Come ci raffrontiamo agli altri e da loro imparare ad eseguire buone azioni od a mancare gli errori? La politica ha il dovere di rimediare e cittadini hanno il dovere di licenziare i politici che non lavorano o non lavorano bene. Terzo punto. Io non avverto (e non trovo spesso riscontro) uno stretto rapporto tra queste tre cose: formazione, capacità, mercato. I laureati non sanno scrivere o leggere. A volte nemmeno parlare. E non mi riferisco ad un breve testo su un blog. Recido il discorso perchè ciascuno abbia margine di riflessione. Ciò che io vorrei dire è che in Italia non crediamo all’esistenza di un’altra felicità possibile, nata dal modo in cui viviamo (e anche lavoriamo) e non dalla qualità del tessuto della sedia sulla quale riposiamo le regali natiche.
[…] maggiore competitività delle stesse e nella specializzazione produttiva. Non sorprende quindi la bassa qualificazione dei lavoratori richiesta nel nostro paese dal tessuto produttivo, che abbiamo già evidenziato in […]
[…] maggiore competitività delle stesse e nella specializzazione produttiva. Non sorprende quindi la bassa qualificazione dei lavoratori richiesta nel nostro paese dal tessuto produttivo, che abbiamo già evidenziato in […]