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Tasso di cambio, produttività e declino italiano

Una delle tesi contro l’euro del professor Alberto Bagnai verte sulla correlazione tra il tasso di cambio e la produttività in Italia. L’idea è all’incirca questa: con l’ingresso nell’euro, o meglio con la rivalutazione del 1996, seguita poi dalla fissazione del cambio, l’Italia ha perso competitività, riducendo così il canale della domanda estera. Ora, poiché la legge di Kaldor-Verdoorn-(Smith) sostiene che la crescita della produttività è causata dalla crescita della domanda, questo spiega la stagnazione della produttività dalla metà degli anni ’90.

Per suffragare la sua tesi, Bagnai produce un grafico, che qui riportiamo insieme alla spiegazione dello stesso:

Il fatto stilizzato par excellence dell’economia italiana, negli ultimi venti anni, è questo:

Dec_04

 

In verde trovate, come sopra, la produttività del lavoro (ALP, average labour productivity). In rosso il tasso di cambio lira/ECU (lire per ECU), che dal 1999 diventa il tasso di cambio irrevocabile con l’euro. Ricordo a beneficio delle eventuali persone dalla limitata capacità di comprensione che questo tasso, cioè quello rispetto agli altri paesi europei, è il più significativo per quanto riguarda l’effettivo “peso” della valuta italiana, dato che le valute che componevano il paniere dell’ECU (e che poi sarebbero di fatto confluite nell’Eurozona) corrispondono ai paesi che esprimono la maggior parte del commercio dell’Italia (paesi europei, perché, guarda caso, si tende a commerciare di più con chi è più vicino…).

Qui il prof. Bagnai usa il tasso di cambio nominale come misura di competitività.

Il nostro test verterà invece sul tasso di cambio (effettivo) reale, ovvero quello corretto per l’inflazione, una misura più accurata della competitività. Perché? Lo spiega il prof. Bagnai nel suo libro, liberamente disponibile qui: http://www.unich.it/docenti/bagnai/mqs/Mqs.pdf (da pagina 117 in poi, enfasi nostre):

6.2.1 Il tasso di cambio reale
Come abbiamo detto, il tasso di cambio è il prezzo relativo di due monete. Se astraiamo dalle transazioni di carattere finanziario e in particolare speculativo (ad esempio, le operazioni di arbitraggio), un agente economico che acquista una valuta estera lo fa per perfezionare degli scambi di beni (cioè delle transazioni reali): ad esempio, un importatore acquista dollari per pagare le materie prime o i prodotti finiti che importa, un turista acquista rupie per finanziare la propria vacanza all’estero (dove acquisterà beni e servizi), ecc. ecc. In tutte queste transazioni sono coinvolti, oltre ai tassi di cambio, anche i prezzi dei beni e dei servizi scambiati. I due elementi (prezzi e tasso di cambio) concorrono nel determinare la convenienza per un operatore economico ad acquistare in un paese piuttosto che in un altro. È quindi utile disporre di una misura del tasso di cambio che tenga conto dell’effetto dei prezzi, o, per dirla in un altro modo, che venga definito come prezzo relativo non fra due valute, ma fra due insiemi di beni. Questa misura è data dal tasso di cambio reale

 

e proprio il tasso di cambio reale è al centro della gran parte dei ragionamenti del prof. Bagnai sul suo blog:

.. il diverso comportamento delle esportazioni fra Italia e Germania è spiegato interamente dal comportamento del tasso di cambio reale (cioè corretto per l’inflazione). [link]

… quello che conta ai fini della competitività di prezzo di esportazioni e importazioni non è il livello dei prezzi in un determinato paese, ma l’evoluzione del rapporto fra i prezzi di un paese e quelli del suo partner. Questo rapporto si chiama tasso di cambio reale. [link]

 

Come si muovono dunque il tasso di cambio reale e la produttività in Italia? Lo illustra il grafico seguente:

 reer_produttività 

I dati sul tasso di cambio reale effettivo sono presi dal database compilato dall’Istituto Bruegel su dati OCSE, e sono calcolati basandosi sull’indice dei prezzi e sul tasso di cambio nominale con i 67 maggiori partner commerciali di ciascun paese (pesati in base agli scambi).

Il fatto stilizzato “par excellence” improvvisamente scompare. Sì, lo ritroviamo post 1996, ma prima di quella data notiamo che altrettanto ampie variazioni del tasso di cambio reale non hanno inciso in modo evidente sul trend della produttività (e non si può stabilire quindi neppure una direzione di causalità).

Per cercare una conferma, proviamo a confrontare anche altre misure del tasso di cambio reale effettivo, come quella basata sul costo del lavoro per unità di prodotto nella manifattura e quella basata sui prezzi nella sola manifattura, il settore più importante delle nostre esportazioni (nel periodo considerato, oltre l’85% sul totale delle merci, dati WTO):

 

produttitivà-reer

 

Anche qui abbiamo andamenti discordanti.

Il problema è che nella seconda metà degli anni ’90 in Italia succedono un sacco di cose, non solo la rivalutazione della lira. Attribuire esclusivamente o prevalentemente ad essa l’arresto della crescita della produttività, richiede prove molto più solide della somiglianza tra due serie storiche riferite a un solo paese che peraltro, come abbiamo visto, non trova conferma quando utilizziamo come indicatore di competitività il tasso di cambio reale invece di quello nominale.  

Ciò vuol dire che il tasso di cambio non conta nulla, che l’euro è perfetto, che dobbiamo fare come dicono i tedeschi? Per nulla. Vuol dire invece che è il caso di non insistere sull’argomento del tasso di cambio, che rischia facilmente di trasformarsi in una sorta di ossessione flessicambista, contro la quale peraltro il Prof. Bagnai metteva in guardia pochi anni fa

34 commenti su “Tasso di cambio, produttività e declino italiano

  1. Che la produttività dipenda dal livello di produzione (o capacità utilizzata) è scontato, basti pensare a quanto sia elevata e crescente la quota di lavoro fisso (non solo impiegatizio ma sempre di più anche operaio).
    Il problema va quindi spostato su se e come il tasso di cambio abbia influenzato le esportazioni e quanto le esportazioni abbiano influenzato la domanda globale interna.
    Ho l’impressione che la dinamica del tasso di cambio abbia un effetto marginale sulle esportazioni italiane, che sono abbastanza rigide rispetto ai prezzi, in realtà sulle esportazioni agiscono tanti altri fattori oltre il prezzo (e quindi il tasso di cambio).
    A ciò va aggiunto che sono le altre componenti della domanda interna, consumi e investimenti privati e pubblici, quelle che hanno influenzato negativamente indirettamente (come domanda) e direttamente (nel caso degli investimenti) la produttività.
    A mio avviso quindi la sopravvalutazione dell’euro ha avuto effetti marginali sulla domanda e quindi sulla produttività, mentre invece le politiche economiche restrittive sono la causa principale dei guai dell’economia italiana.

  2. Ma Keynes era contrario alla fissazione del cambio(no?), basti pensare ciò che scrisse a proposito del gold standard………..

  3. …e poi il FMI, in un documento ufficiale, ha ammesso che ancorare una moneta ad una più forte, è stata sempre la politica di un paese che vuole dominare su un altro (politica imperialista tanto per intenderci)

  4. Tra le tante cose successe a partire dal 1992 che possono aver contribuito a deprimere la produttività, attraverso la stagnazione della domanda, ricordo a) l’abolizione della scala mobile, che ha limitato la crescita reale dei redditi da lavoro; b) le politiche fiscali – che perdurano tutt’ora – volte a realizzare ampi avanzi primari, sottraendo risorse al settore privato.
    Ciò non esclude che la fissazione del tasso di cambio ad un livello troppo elevato possa aver contribuito a deprimere la domanda estera e a favorire le importazioni.

    • Concordo con chi dice che la limitazione della crescita reale dei redditi da lavoro sia stata una delle cause di stagnazione della domanda, anche se c’è chi sostiene che l’eliminazione della scala mobile abbia rallentato l’inflazione, che negli anni passati era considerato uno dei fattori negativi per l’equlibrio del sistema economico di un paese.

      • Oggi di inflazione non ce n’è, eppure non sembra che si stia meglio di quando i salari erano difesi dalla scala mobile. Oggi non ci sarà inflazione, ma non vi è nemmeno lavoro (e quindi reddito).
        E’ meglio un’inflazione al 6% con la possibilità di recuperare il potere d’acquisto o un’inflazione a zero, ma nessun reddito perché non hai lavoro?

  5. Per come la vedo io Bagnai utilizza correttamente il tasso di cambio nominale a sostegno della sua tesi. Provo a spiegare perché: il cambio nominale è il cambio reale più il differenziale di inflazione, cioè la crescita relativa tra 2 paesi, la tesi di Bagnai ridotta all’osso è che se il cambio tra due paesi è variabile, allora il differenziale di inflazione, che per comodità possiamo definire come il differenziale di crescita (anche se non è la stessa cosa), ha effetti sul cambio nominale, che a sua volta ha effetti sul differenziale di crescita, favorendo il paese più svantaggiato in termini di competitività, fino ad un progressivo riallineamento. In termini matematici il cambio nominale è una funzione anche del differenziale di crescita dei due paesi, il cambio reale no.
    Se decidi che il cambio nominale è un numero fisso invece, quello che succede è che la differenza di crescita tra due paesi si traduce in un cambio reale sempre più divergente dal cambio nominale mano a mano che aumenta questo differenziale…questo non significa certo che la nazione “svantaggiata” acquista competitivita’ , perché il cambio con cui vengono vendute e comprate le merci è sempre quello nominale non quello reale…la competitività va quindi riconquistata diminuendo il costo del lavoro e quindi incidendo sulla pelle delle persone…qui Bagnai ha ragione, inutile nasconderlo, se no non si spiegherebbe l’enorme surplus commerciale della Germania rispetto ai paesi dell’area euro dopo l’introduzione della moneta unica. Il punto da spiegare a Bagnai è che noi non siamo nell’euro per competere, né tra di noi europei né col resto del mondo…

    • il punto e spiegare a bagnai che non siamo entrati nell,euro per competere, ed allora gio d che ci siamo entrati a fare nell euro? forse vuoi dire per fare sistema, per essere piu competitivi, insieme per sfruttare il mercato unico, per essere un unico popolo chi lo sa l,unica cosa che abbiamo ottenuto che la economia piu “produttiva” a distrutto milioni di posti di lavoro,ed imposte politiche distruttive.

      • Nell’euro siamo entrati per vari motivi, alcuni “ideali” altri piu’ prosaici, come quelli economico-finanziari…se ci limitiamo a questi ultimi occorre dire che con la globalizzazione si sono affacciate anzi votate al libero mercato molte economie poco sviluppate…queste per svilupparsi hanno ovviamente bisogno di economie sviluppate che comprino i loro prodotti…queste ultime è bene che abbiano una moneta la piu’ forte possibile, e che badino a preservare la domanda interna e l’occupazione più che i parametri di bilancio…gli Usa fanno così da 30 anni e sono i leader del mondo anche o soprattutto dal punto di vista economico…ecco a cosa serve l’euro, certo se invece l’idea e’ di competere coi brics l’euro è una stupidaggine…

      • no gio non confondiamo le cose iop sono d,accordo con te con il post precedente l,analisi mi sembra corretta mentre sono in disaccordo (in parte) su quello che dici nel post che segue. sono d,accordo che la crescita dei paesi diciamo a giovane capitalismo va sostenuto ma certamente non la sostieni con l,austerita e di conseguenza, con questa europa cosi drammaticamente asimmetrica. l,asimmetria dell,euro e un fattore di enorme discordanza.

      • Infatti ho detto che i paesi sviluppati devono pensare non al pareggio di bilancio e ad essere “austeri” ma a sostenere domanda interna, salari e occupazione, in cosa non sei d’accordo scusa? Il nodo cruciale è capire che per fare tutto questo occorre una moneta forte, come l’euro…se invece rinunci all’euro, ammesso di riuscire a sopravvivere al transitorio, cosa per me altamente improbabile, ti ritrovi a dover competere, cioe’ a contenere la domanda interna ecc, la differenza tra Bagnai e i Crucchi è che il primo vuole comprimere domanda interna e salari (illudendosi che non si comprimera’ anche l’occupazione, illusione priva di fondamento) svalutando la moneta, i secondi riducendo i salari effettivamente, il primo non vuole ridurli nominalmente, ma solo realmente in un contesto inflazionistico, i secondi vogliono ridurre i salari reali e nominali in un contesto deflazionistico…ma la politica e la visione e anche gli esiti di medio-lungo termine e’ esattamente identico, cercare di vendere più di ciò che si compra, evitando di fare la banale considerazione da bambino delle elementari che se tutti vendono non ci può essere nessuno che compra. Io e tutti quelli che capiscono davvero di macroeconomia e conoscono un minimo come va il mondo rifiuto questo modo di ragionare e questa inutile diatriba da capponi di Renzo (non di Renzi attenzione) di Manzoniana memoria, e vogliamo riportare le cose al loro significato originario: facciamo fare all’euro quello che sa fare bene, ovvero preservare il potere d’acquisto, acquistando prodotti dai paesi in via di sviluppo e finanziando il deficit, necessario visto che le nostre imprese sono meno competitive di quelle cinesi per ragioni incontrovertibili…chiaro? I tedeschi non sono d’accordo? Bene, cerchiamo delle soluzioni ma all’interno di questo recinto. Se no è come il marito che si evira per far dispetto alla moglie…

      • Caro gio d ….

        Si dice che svalutando il cambio nominale si favoriscano le exp ma c’è una componente di inflazione indotta dalle imp (di cui non possiamo fare a meno) divenute più care. I salari reali, a questo punto, diminuirebbero, soprattutto nel caso di effetto J.

        Bene, tutto bello ma tutto superficiale.

        La ritrovata competitività a seguito della svalutazione NON è riproducibile e non è negativa come quella ricercata attraverso un taglio dei salari (-w).

        Perché? Semplice, perché non viviamo in un mondo ideale ma in un mondo in cui esiste la leva fiscale (i tributi cioè, e non le tasse, traduzione errata dall’inglese “taxes” che per noi sono i tributi in generale e prevalentemente le imposte, perciò le tasse non c’entrano nulla).

        Il livello di tassazione medio (tutto ciò che pago / imponibile) è del 60% circa per imprese e lavoratori mentre è il 70% circa per i professionisti. Per non parlare delle ignobili imposte sui beni immobili.

        In questo scenario,

        svaluto -> +exp
        ma
        +inflazione importata -> – W/P
        tuttavia
        -T -> + w
        + w -> +W/P
        – T -> +exp (questo è per me FONDAMENTALE, le imposte per le aziende sono costi)

        Usando la leva fiscale e monetizzando/accomodando il tutto, si può svalutare, mantenere quasi invariati i salari reali e addirittura dare un ulteriore impulso alle exp.

        Il modello mundell-fleming va corretto nel senso che G e T non hanno lo stesso effetto.
        Se in economia chiusa (sostanzialmente come adesso, visto che la maggior parte del commercio lo facciamo con in paesi dell’eurozona) il taglio di G è più recessivo del pari aumento di T, in economia aperta + G -> – exp ma con – T rendi le imprese più competitive e quindi potresti avere, con i giusti livelli, anche una invarianza di exp.
        Se poi ci aggiungi una politica monetaria accomodante, allora i vantaggi sono evidenti.

        Restando nell’euro, tagliare solo i salari comporta unicamente la distruzione della domanda interna. Restando nell’euro, la leva fiscale non la puoi utilizzare, cioè -T non lo puoi fare in nessun modo, anche perché qualcuno ha inserito in Costituzione il pareggio di bilancio e quindi lo Stato è costretto a fare E = U o se ti piace di più E – U = 0.

        Lo so che rispondo molto in ritardo ma sei certamente una persona competente e mi piacerebbe leggessi questo mio intervento.

      • Mi sentirei di aggiungere che, in caso di uscita dall’euro e, quindi, di recupero della sovranità monetaria, fare -T non sarà un problema INDIPENDENTEMENTE dal debito pubblico. infetti, in tutti i libri di testo pre-euro, il rendimento di un titolo di stato in un paese a sovranità monetaria è per definizione free risk …. detto in maniera grezza, se io stampo, non posso mai fallire e di recente proprio la BCE ha detto qualcosa di simile.

    • @Giovanni Vanacore
      Citazione: “Per non parlare delle ignobili imposte sui beni immobili”.

      Fesseria al cubo.

      • Visto che faccio anche il tributarista da 15 anni è assai probabile, praticamente certo, che le fesserie alla decima le dica tu. Appena ho tempo argomento meglio. In via preliminare, ignoranza dei dettati costituzionali in materia di tributi e l’incapacità di considerare tutto il sistema tributario nella sua complessità conduce a ritenere corretto tassare gli immobili ….

      • Che tu sia “tributarista da 15 anni” è un’aggravante per le fesserie che scrivi. Sto da tempo in attesa di leggere le prossime. Ma, mi raccomando, cerca di farlo con parole chiare e producendo link attendibili (quindi è escluso a priori il contaballe Contribuenti.it).

  6. Però la fissazione del cambio oltre ad inibire la leva valutaria, condiziona anche quella fiscale e monetaria. Dato che la legge di di Kaldor-Verdoorn-(Smith) parla di crescita della domanda, è evidente che quando il cambio è fisso o unico (euro) la produttività ne risentirà. Infatti dal 1996 la correlazione rimane anche correggendo con l’inflazione.

    Se non c’è correlazione negli anni ’80 è perché l’Italia non era all’interno di un sistema rigido di cambi fissi e le leve fiscale e monetaria non erano inibite.

    Bagnai ripete da anni che la svalutazione non basta, ma è una premessa per non accumulare deficit di bilancia dei pagamenti, e soprattutto che l’uscita dall’euro garantisce oltre alla leva valutaria anche e soprattutto maggiore spazio fiscale.

    Non ha mai detto che svalutando si risolvono tutti i problemi.

    • Maggiore spazio fiscale proprio no, non sono un attento lettore di Bagnai ma se veramente dice questa cosa, dice una sciocchezza…che spazio hai con un debito al 140 del pil e tassi alti per difendere il cambio?

  7. Senza tanti grafici, ma semplicemente ricorrendo alla logica, dovrebbe esserci una correlazione tra tasso di cambio reale e produttività.

    Un Paese più produttivo, produrrà più beni e servizi a minor prezzo di un Paese meno produttivo, ergo questo dovrebbe influenzare il suo tasso di cambio reale.

    La correlazione in Italia non c’è, evidentemente perché gli altri Paesi del mondo hanno incrementato la loro produttività MOLTO DI PIU’ di quanto abbiamo fatto noi.

    Quindi, una correlazione teorica esiste, ma si sta scambiando la causa con l’effetto, e non si tiene in conto di cosa succede nel resto del mondo (l’Italia non è sola sul pianeta).

    • “Un Paese più produttivo, produrrà più beni e servizi a minor prezzo di un Paese meno produttivo, ergo questo dovrebbe influenzare il suo tasso di cambio reale”.

      Stai ignorando il fatto che il paese meno produttivo può comunque ridurre i salari in modo da avere prezzi concorrenziali con quello più produttivo (è il principio alla base della svalutazione interna).

  8. Scusate, ma non ho capito bene il secondo grafico: tasso di cambio reale di chi rispetto a cosa?

  9. a me sembra che la produttivita di un sistema vada misurata oltre che sulla capacita di produrre beni al miglior prezzo possibile (concorrenziale) ma soprattutto in ultima analisi “dalla domanda complessiva sui beni prodotti”. quindi la produttivita di un sistema nel suo insieme dovrebbe essere capacita produttiva da una parte, è domanda dei beni dall,altra, ed essa è data dall,insieme della domanda aggregata sia quella interna, che estera, sono questi i fattori che permettono alle aziende di fare profitti e di essere competitive, e quindi di fare anche innovazione. su questo c,è poco da discutere. ed il cambio flessibile è il miglior sistema di aggiustamento immediato. almeno che tutto questo non si viene a riprodurre in un sistema piu allargato e con redistrbuzione di ricchezza centralizzate,una economia non puo funzionare. la produttivita in se non significa niente significa solo che se in un bar che ho 5 operai ne licenzio uno e l,incasso (i fattori) rimane uguale io ho piu produttivita. l,economia esiste perche esiste l,uomo

  10. Bagnai sottolinea correttamente la rivalutazione anomala della lira nel 1996 non giustificata da ragioni economiche evidenti ma influente sulla successiva fissazione del cambio con l’euro. Che la minore competività abbia ridotto la domanda estera é vero in particolare per i prodotti industriali dove la Germania era una concorrente diretta, nel valutare l’esport sarebbe utile considerare il mix di prodotti esportati e la sua variazione, parlare di manifattura é molto generico e può comprendere prodotti molto diversi tra loro. Cercare una relazione matematica tra le variabili presentate é certamente difficile perché proprio per le tante cose successe é difficile separare i vari effetti. I problemi dell’Euro non si limitano alla sopravalutazione ma sono anche la consegna della sovranità monetaria a forze private non democraticamente elette e l’essere la moneta di un’area che ha diversi sistemi fiscali, organizzazione produttiva e organizzazione degli organi degli stati. Che la riduzione del costo del lavoro sia un mezzo idoneo per la riconquista della competitività é smentito dalla storia di questi anni, si crea insicurezza, conflitti sociali e riduzione della domanda interna quindi un avvitamento dal quale diventa sempre più difficile uscire.

    • ernie sono completamente d,accordo con te infatti e la produttivita generale (sistemica del paese) che non ha retto alla competizione, e il paese in generale che non si e riprodotto utilizzando tutte le potenzialita precedenti, ed è questo che ha reso sistematicamente l,italia non competitiva, ed il vincolo esterno ha avuto un ruolo enorme nella perdita di competitivita.basta pensare agli enormi avanzi primari che se non fossero stati utilizzati per pagare i differenziali di debito, come sarebbero potuto essere utilizzati.

  11. Sta dicendo, cioè, che è una media delle variazioni con 67 partner commerciali?

  12. Senza bisogno di guardare il grafico del cambio reale italiano possiamo semplicemente guardare Spagna e Grecia: hanno fissato il cambio ed hanno avuto un aumento di produttività anzichè una diminuzione fino al 2008.

    Dunque è ovvio ed è noto che fissazione del cambio di per sè NON implica riduzione della produttività, neanche se sei il paese meno sviluppato dell’unione monetaria.

    Rimane un problema: le politiche che creano l’aumento della produttività a cambio bloccato hanno il difetto di distruggere la competitività generando anche un accumulo di debiti pubblici e/o privati, quindi si arriva inevitabilmente al momento in cui tutto ciò che hai guadagnato in produttività lo perdi attraverso la recessione che ti serve per recuperare la competitività e dunque quella fissazione del cambio alla fine ti ha in ogni caso danneggiato lo sviluppo.

    Se si voleva evitare tutto ciò si poteva iniziare da subito a implementare politiche restrittive che attraverso la stagnazione e la recessione creassero un livello di disoccupazione tale ta mantenere l’inflazione a livelli abbastanza bassi da non danneggiare il tasso di cambio reale: in quel caso vedresti competitività continuamente buona ma con l’inconveniente di avere crescita (e quindi anche produttività) stagnante. Quindi non scappi: comunque la fissazione del cambio ti ha causato un danno allo sviluppo.

  13. Chiedo scusa, ma mi pare che l’analisi trascuri un fatto essenziale: un conto è valutare il tasso di cambio reale in regime di parità, tutto un altro conto farlo in regime di flessibilità! Non è certamente la stessa cosa!
    Intendo dire che in una situazione di cambio flessibile la flessione del cambio nominale può contribuire a mantenere il livello di competitività del paese, senza dover intervenire sui redditi, mentre in regime di cambio fisso l’intervento sui redditi diventa l’unica possibilità!
    Peraltro il grafico mostra abbastanza chiaramente una tendenza complessiva dal 1994 ad un arresto dell’aumento di produttività, sostanzialmente allineato anche alla rivalutazione del cambio reale, pur con alcune discontinuità.

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