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La produttività non aumenterà con maggiore flessibilità e riduzione dei salari

Ieri i giornali erano pieni di grafici che mostrano come i salari degli italiani siano tra i più bassi d’Europa. Ne abbiamo già parlato ma tocca tornare sull’argomento e legarlo al problema della produttività. Anche perché su questo concetto si innestano da una parte delle letture volutamente parziali e ideologicamente segnate (la colpa sarebbe del “troppo Stato” che per di più “funziona male”, come fa intendere Irene Tinagli su La Stampa) e dall’altra delle vere e proprie invenzioni  senza alcuna base scientifica (del tipo: “i lavoratori italiani sono scansafatiche e i sindacati li difendono”) tese a nascondere le responsabilità pubbliche e private.

Apparentemente c’è un consenso unanime nelle risposte che vengono fornite per spiegare le cause dei problemi dello sviluppo italiano: la produttività del nostro paese ha da tempo iniziato a perdere colpi, divenendo la causa principale di un progressivo rallentamento della crescita del Pil. Da tempo l’Italia cresce a tassi inferiori alla media europea, e da quest’ultima sempre più divergenti (non meno di un punto e mezzo percentuale). I più parlano di quindici anni, altri di venti. A ben vedere è dalla seconda metà degli anni Ottanta che l’Italia ha incominciato a rallentare. In ogni caso si tratta di un periodo lungo. Fino a qualche tempo fa le voci che parlavano di “declino” (la Cgil lo fa da 10 anni ormai) venivano immediatamente tacciate di disfattismo (“i ristoranti sono pieni, abbiamo tre telefonini a testa…”).
Anche i più illuminati, quelli che non si foderavano gli occhi di prosciutto per motivi politico-elettorali, ostentavano ottimismo, parlando di “upgrading”, ovvero di un processo di modernizzazione spontaneo del tessuto produttivo italiano, a volte infarcendo i loro commenti con elogi alla secolare inventiva italica, citando qualche caso d’eccellenza.
Nel 2008 scoppia la crisi internazionale. Dal 2010 l’incapacità dell’Italia di recuperare fa giustizia degli ottimismi, siano essi interessati o ingenui. Ci si accorge che da tempo l’Italia non cresce  ed esibisce performance di sviluppo sistematicamente peggiori dei paesi ad essa comparabili. Coloro che prima guardavano con ottimismo all’upgrading qualitativo delle imprese, sono giocoforza spinti a ricercare i motivi della stagnazione in quei fattori che, rispetto agli altri paesi europei, impedirebbero una gestione della situazione di crisi.
Ed ecco spuntare il tema della produttività che, in quanto “causa strutturale” della ridotta dinamica di crescita del reddito del paese, diventa protagonista della scena. Ma il modo in cui si pensa di risolvere il problema denuncia che non se ne sono comprese le cause o, meglio, che non si vogliono affrontare, preferendo scegliere scorciatoie tutte a carico di chi non ha certo visto accrescere il suo potere nei decenni scorsi: i lavoratori. La bassa produttività viene fatta dipendere da una presunta inefficienza del lavoro, sostenendo che è di questo ci si debba occupare affinché il “motore dell’economia” possa riprendere a girare a pieno regime. Si badi che non si tratta di boutade di qualche politico, ma di un preciso indirizzo portato avanti tra gli altri da illustri accademici. Pietro Ichino, Alberto Alesina, Francesco Giavazzi, Luigi Zingales e, ovviamente, Mario Monti ed Elsa Fornero sono tra i principali protagonisti di questa campagna che punta a par passare l’idea che dobbiamo “lavorare di più” (meno pause, meno ferie, niente feste comandate) e “lavorare meglio” (le aziende hanno bisogno di flessibilità, e poi che noia il posto fisso). Il modello Marchionne diventa l’esempio da seguire e trova poca o nessuna resistenza nel mondo politico e persino sindacale.
Se non fosse che le cose così non stanno. Anzi, la scure che si abbatte sui lavoratori non solo assume una forma lesiva di diritti e tutele basilari (tra cui la stessa rappresentanza sindacale), ma non è risolutiva del problema della produttività di cui soffre l’Italia. Au contraire, l’unico effetto che si avrà (non curando le cause reali) sarà quello di far scivolare ulteriormente il reddito di quelle classi sociali a più alta propensione al consumo, alimentando la spirale recessiva: sempre maggiori contrazioni della domanda aggregata, alimentate tanto da un aumento della disoccupazione, quanto da pressioni verso il basso dei salari che la precarizzazione del mercato del lavoro tende a produrre.
Dov’è, dunque, che si gioca la reale partita della produttività, e quali sono in questo senso i problemi strutturali dell’economia italiana, che le impediscono di crescere al pari degli altri paesi europei?
La dinamica della produttività di un paese esprime la capacità che questo ha di produrre reddito. La produttività non è banalmente una sorta di misura “standardizzata” del ritmo di lavoro come vorrebbe far credere chi parla di inefficienza dei lavoratori. E’ invece legata al lavoro nella misura in cui questo si relaziona al contesto produttivo in cui esso opera, nel quale debbono essere annoverati la dotazione di capitale, la tecnologia utilizzata, e l’organizzazione data al processo produttivo. Anche con riferimento alla singola impresa, la produttività è legata al contesto di sistema – cioè al resto del sistema produttivo, alle infrastrutture, ecc. – e soprattutto al valore di ciò che si produce che deve essere preso a riferimento.
Passando all’intero sistema produttivo, il concetto si rafforza. Il sistema economico è strutturato in base agli scambi che avvengono tra i diversi settori, ed è l’insieme di queste interazioni che ne determina la capacità di produrre reddito, e dunque la sua produttività complessiva. La misura della produttività (in valore) è in generale molto diversa da settore a settore, ma ciò che conta è il risultato finale. Nelle economie avanzate, nelle quali si è assistito ad una straordinaria crescita del settore dei servizi, l’asimmetria relativa ai valori della produttività è persino cresciuta a sfavore di questi ultimi, ma è vero al tempo stesso che i servizi, ed in particolare quelli a “maggior contenuto di conoscenza”, hanno registrato una maggior crescita proprio in quei paesi che maggiormente hanno innovato il proprio sistema produttivo. In questi paesi è stata approfondita una specializzazione manifatturiera in comparti a medio–alta tecnologia che ha sostenuto a sua volta la domanda di servizi innovativi innescando un circuito virtuoso.
La verità è che i paesi che hanno realizzato più elevati tassi di sviluppo, e che mantengono strutturalmente potenziali di sviluppo più elevati, sono quelli che hanno saputo dar vita a nuove “catene del valore economico”, in cui è preminente il ruolo dei processi di innovazione con l’obiettivo di soddisfare una domanda che, col crescere del reddito pro-capite, si è profondamente evoluta e trasformata, tendendo a soddisfare bisogni di qualità più elevata (non ultimi quelli collegati alla salvaguardia dell’ambiente). Questo è vero in Europa non solo per i maggiori paesi (Francia, Germania, Regno Unito), ma anche per le economie più piccole, tipicamente quelle del Nord Europa e scandinave.
Per meglio comprendere il complesso rapporto tra innovazione e produttività conviene lasciare la parola a Paolo Sylos Labini ,che del rapporto tra sviluppo e innovazione fece uno dei capisaldi della sua riflessione economica:
“Mentre per definire le variazioni della produttività del lavoro per i beni già esistenti non sorgono particolari problemi interpretativi, tali problemi sorgono invece nel caso di nuovi beni. In che senso si può dire che aumenti la produttività se compare un nuovo bene, che soddisfa più efficacemente bisogni già prima soddisfatti o soddisfa bisogni prima non soddisfatti per nulla? Non riesco a dare una risposta precisa univoca. Credo che gli economisti debbano approfondire criticamente i criteri che gli statistici economici adottano quando decidono di includere nelle stime del reddito nazionale i nuovi beni. L’indice non è e non può essere preciso; ma non sembra ci siano alternative”
Paolo Sylos Labini (2004), Torniamo ai classici, Laterza, Bari, p.10.
Da tutto ciò ne discende che se per incentivare lo sviluppo si intende applicare la ricetta del “legare i salari alla produttività” anche al ribasso, come certa propaganda di marchio liberista ama ripetere, si commette un errore colossale, con conseguenze per il nostro paese fortemente depressive sulla stessa capacità di sviluppo.
La tendenza decrescente della nostra produttività è legata infatti a una profonda inefficienza di sistema, essendo i settori industriali centrati su un profilo a “medio-bassa” intensità tecnologica e su servizi di conseguenza meno innovativi. Il paese non è così competitivo sui mercati esteri, mentre tende ad importare produzioni avanzate per il soddisfacimento della propria domanda interna, accumulando un deficit commerciale che dà luogo a un vincolo estero che frena a sua volta il potenziale di crescita del reddito. Se a tutto questo si somma l’effetto di riduzione sui salari che sarebbe determinato dal fiacco andamento della produttività, si ottiene un ulteriore effetto depressivo sulla domanda interna e quindi sulla crescita (con scarsi effetti sull’allentamento del vincolo estero, peraltro, come dimostrano le tendenze di questi ultimi anni nei quali la domanda interna è stata stagnante). E la spirale che ne deriva non può che essere recessiva, se il criterio rimane quello di legare i salari alla produttività.
Il problema della specializzazione produttiva è quindi centrale. Sostenere che le imprese italiane non investono in ricerca è sbagliato se riferito alle singole imprese, mentre è vero se riferito al “sistema Italia”. Questo perché quelle imprese che sono presenti nei settori avanzati hanno performance di ricerca comparabili con imprese dello stesso tipo all’estero. Ma se si guarda al complesso delle spese in ricerca sostenute dalle imprese italiane, questo appare assai deficitario in ragione dello sbilanciamento della specializzazione produttiva in settori meno avanzati.
Sperare in una ripresa del ciclo internazionale che operi per la crescita del paese come una sorta di “deus ex machina”, è del tutto illusorio. Difatti nei periodi di crescita dell’economia internazionale (si veda ad esempio il ciclo espansivo avutosi tra il 2002 e il 2005) l’Italia ha evidenziato le più ampie divergenze dalla crescita dei maggiori paesi europei, poiché la dinamica della domanda globale accelera nei settori più innovativi.
Non basta quindi aggrapparsi alla speranza di una ripresa della domanda dall’estero, anzi. Occorre invece da subito programmare una massiccia dose di investimenti innovativi, compito che nella situazione attuale del ciclo economico e in considerazione della estrema parcellizzazione del capitale in Italia, deve essere primariamente dello Stato (e dell’Unione Europea).
E’ invece folle continuare a far leva sul costo del lavoro per rendere la nostra produzione più competitiva. E’ folle per i motivi che abbiamo già detto e lo è per le evidenze empiriche che assegnano al nostro paese, contemporaneamente, uno dei maggiori tassi di flessibilità (dati Ocse sull’indice EPL) e tra i minori tassi di crescita, valore aggiunto, ricerca, innovazione.
L’Italia ha iniziato a perdere il treno dell’innovazione sin dalla seconda metà degli anni ’80, quando le condizioni di quel periodo rendevano possibile il successo della piccola impresa distrettuale. Oggi, in un periodo nel quale i processi innovativi hanno preso da tempo la strada della globalizzazione e anche i paesi emergenti stanno creando piattaforme produttive sempre più centrate su settori ad alto contenuto di conoscenza, il ritardo strutturale di sviluppo del paese si è fatto enorme, anche per l’assenza, da troppo tempo, di politiche industriali alle quali altrove in Europa si è fatto invece ampio ricorso.
Ma è anche discutibile che a tutto questo non si possa iniziare a porre riparo.
Occorre quindi arrestare le politiche depressive sui redditi dei lavoratori e di liberalizzazione del mercato del lavoro (che conferiscono anche un’ulteriore spinta al ribasso dei salari) perché direttamente controproducenti rispetto alla domanda e spiazzanti rispetto alle priorità. Al contrario, occorre reperire risorse da investire nel sistema produttivo (e parallelamente formativo) attingendo dalla ricchezza patrimoniale, tassando le rendite, favorendo processi di innovazione nuovi ma anche agendo affinché le competenze tecnologiche già presenti nel paese si applichino progressivamente a settori nuovi con elevati potenziali di crescita. Si può fare, ma perdere altro tempo avrebbe conseguenze disastrose non solo in un indefinito lungo periodo, ma qui e ora.

5 commenti su “La produttività non aumenterà con maggiore flessibilità e riduzione dei salari

  1. Due considerazioni.
    La prima, per rimanere in linea con il discorso “tecnologico” del nostro sistema produttivo, sul ruolo giocato dalle imprese italiane. E’ paradossale che in un mercato in cui – come si è detto – vi sono quasi tre telefonini a testa non si sia affermata un’impresa italiana in grado di competere e rispondere a una domanda di mercato indubbiamente forte e tecnologicamente innoviatava. Il chè dimostra o che la nostra classe imprenditoriale è impreparata a cogliere le opportunità al di fuori del proprio orticello o che non ha le risorse finanziarie (e culturali) per affermarsi in un mercato competitivo (nello stesso periodo i vari Colannino e Tronchetti Provera perferivano gli agi assicurati dalla posizione monopolistica della Telecom)..
    Se vi è indubbiamente una carenza “produttiva-tecnologica” del nostro sistema industriale – vengo alla seconda considerazione – vi è pure una errata prospettiva teorica nel discutere di produttività. Semplificando al massimo, la produttività non è altro che un rapporto tra ciò che viene prodotto e gli occupati. In un contesto in cui la produzione non cresce, ma anzi arretra drammaticamente (dal 2005, la produzione industriale italiana ha perso il 15,3%) non v’è modo di aumentare la produttività se il numeratore continua a scendere. E – al contrario delle panzane diffuse dai maggiori mezzi di informazione – l’occupazione nello stesso periodo è scesa nelle grandi aziende con più di 500 dipendenti del 9,4% (quindi si può licenziare e si licenzia!).
    L’unico modo per aumentare la produttività è che la produzione torni a crescere. Ma perchè torni a crescere, deve crescere la domanda. Già si è detto dell’arretratezza della nostra classe inprenditoriale, poco propensa agli investimenti in ricerca e in prodotti innovitivi. Ma ferma restando la pochezza dei nostri imprenditori, la domanda può essere o quella interna o quella estera. Quella interna è fortemente penalizzata da una politica fiscale deprimente, che non fa altro che impoverire le famiglie, le quali si vedono costrette a ridurre i consumi. Quella esterna è legata alla crescita di altri paesi (produciamo prodotti intermedi per la Germania) o alle ondate passeggere del Made in Italy. A questa dipendenza economica si aggiunge il venir meno della sovranità monetaria che avrebbe permesso, in determinate circostanze, di alleviare la crisi e rilanciare l’attività economica.
    In definitiva: una classe imprenditoriale inadeguata e una poltiica economica devastante stanno portando il nostro paese verso il declino. Il guaio è che anche la classe politica pensa che l’unico modo per uscirne sia dato dal rigore e dall’austerità. Portando il paese sempre più in basso, in un circolo vizioso che rischia di non aver fine.

  2. In questi giorni sono stati pubblicati anche i dati sulle pensioni: in Italia abbiamo le pensioni più basse d’Europa, cosa che fa il paio con i salari (tra parentesi è da ricordare che il 93% del gettito tributario del nostro stato deriva dal lavoro dipendente e pensioni). Ma ben maggior rilievo deve essere dato, a mio avviso, all’altra notizia, pure questa degli ultimi giorni, secondo cui in Spagna la disoccupazione è passata al 24%, dato record che supera il precedente record del 22%. Val la pena di annotare come in quel Paese siano state già da tempo abrogate norme simili a quelle del nostro art. 18 e negli ultimi mesi addirittura ancor più liberalizzati i licenziamenti: ma questo -secondo il duo mediatico Alasina e Giavazzi- sarebbe la prova scientifica che, eliminando l’art. 18, l’occupazione crescerà!!!!
    Su quest’ultimo tema -centrale della questione della crescita e dell’occupazione nel nostro Paese e di nuovo nell’occhio del ciclone a causa delle dichiarazioni di guerra del PDL- credo utile riproporre qui di seguito un mio vecchio intervento, in cui tra l’altro mettevo in guardia -per primo e non da ora- sul nodo giuridico che la pasticciata riforma proposta dal governo non ha risolto, ma anzi -se possibile- aggravato:
    In un articolo tempo fà pubblicato sul Corriere della Sera, “Ricchezza, Equità, Troppi gli equivoci”, gli autori prof-economisti Alesina e Giavazzi, parlando delle misure economiche “salva-cresci Italia”, non resistono, neanche essi, alla tentazione di dire la propria in materia di disciplina legale del lavoro, diventato oramai un vero e proprio must per la categoria, quasi uno status symbol. Sembra, in effetti, che oggi nessuno possa fregiarsi del titolo di prof se non si è cimentato sul tema. Che poi lo faccia anche chi di diritto non ha nessuna cognizione, cadendo in “troppi equivoci” e strafalcioni da matita blu (del prof), questo non importa gran che: il titolo di prof autorizza ad occuparsi di tutto, non solo a propinarci le tante “verità” e prof-ezie in materia economica (poi per lo più smentite dai fatti, senza peraltro che nessuno dei tanti prof si senta almeno ridicolizzato e pronto a far pubblica ammenda), ma anche giuridica. A dire il vero, nella stessa materia economica i prof –proprio perché prof- ritengono di essere autorizzati a dire tutto e il contrario di tutto, con argomentazioni che a noi –ma non siamo prof- sembrano perlomeno illogiche, e già per questo poco o niente credibili. E così, ad esempio, gli autori dell’articolo sopra citato affermano –peraltro in armonia con una qualunquistica quanto vecchia opinione (circolante anche all’epoca della grande crisi del 1929)- che, se in Italia la produttività è cresciuta molto meno che negli altri Paesi, ciò è colpa dei sindacati, e quindi dei lavoratori (anche se, aggiungono pudicamente –bontà loro-, qualche colpa ce l’ha pure qualche imprenditore): tesi che brilla non solo per il suo approccio non scientifico, ma soprattutto per la sua contestuale clamorosa contraddittorietà, atteso che solo qualche riga prima, riportando i dati di una (scientifica e documentata) ricerca di Banca d’Italia e Università di Sassari, gli stessi autori rilevano, con buona dose di naiveté, che nel periodo successivo all’introduzione dell’euro, la produttività è cresciuta in quelle imprese che hanno investito inventando nuovi prodotti e cercando nuovi mercati. Con ciò stesso dando ragione a chi –con ben maggiore rigore scientifico- afferma che il calo della produttività in Italia è da imputare, non ai lavoratori (e al sindacato), ma ad una imprenditoria incapace di investire nei fattori incidenti sulla competitività e la crescita, e cioè appunto, innanzitutto, l’innovazione tecnologica e l’internazionalizzazione. Senza dire poi della forzatura, ingiustificata e fuorviante, di spostare il dibattito sull’equità da una doverosa e seria riflessione sul rispetto dei principi costituzionali in materia di partecipazione alle spese pubbliche –eguaglianza, capacità contributiva, progressività del sistema tributario, (art. 53 Cost.)- ad un’asserita demonizzazione della ricchezza, con la conclusione, davvero bizzarra, che l’equità consisterebbe nel togliere diritti sacrosanti a chi ne gode (invece che estenderli a coloro che non ne godono). Leit motiv quest’ultimo assai diffuso e caro ai due autori, che anche in altri interventi -vedasi “Essere prudenti è poco saggio”, Corriere della Sera- esprimono lo stesso concetto moralistico affermando che la riforma del mercato del lavoro deve mirare ad eliminare la disparità fra giovani e anziani attraverso la riforma dell’attuale sistema di protezione per chi perde il lavoro (e non di chi vi entra), e cioè, in parole chiare, togliendo a chi ne gode i suddetti diritti (c.d. flessibilità in uscita). Anche in tale occasione la giustificazione data dai due è quanto meno poco scientifica ed azzardata: la diminuzione della disoccupazione, essi dicono, in Spagna passata dal 17,8% al 8,3% nei dieci anni successivi al 1997, sarebbe effetto dell’abolizione, a partire da detto anno, di vincoli simili a quelli previsti dal nostro art. 18, ma non spiegano perché -nonostante detta abolizione- negli anni successivi la disoccupazione spagnola è arrivata a livelli record fino all’attuale 23% (rispetto al 9% dell’Italia); come non spiegano pure perché, per perseguire l’obiettivo che <> , la soluzione sarebbe quella di far pagare alle imprese stesse una parte dei sussidi di disoccupazione, quando è proprio tale funzione deterrente che giustifica quell’art. 18 che essi vogliono abolire: come non dar ragione al loro accorato invito ad essere … imprudenti! Ma, dove i due si superano, piazzandosi in ottima posizione nella gara di ignoranza e disinformazione dilagante in materia, è a proposito di riforma del diritto del lavoro, laddove (Corriere della Sera, cit.), dopo aver sentenziato che i giovani non possono più aspettarsi un “diritto all’illicenziabilità” e dopo aver bocciato i sindacati (e per contro promosso “l’ottima Fornero”: si sa, i prof danno voti), tacciati di rifiutare il dialogo su questi temi e di disinteressarsi dei giovani e dell’equità intergenerazionale, giungono alla –trita e acriticamente recepita- soluzione del contratto a tempo indeterminato per tutti, “rescindibile” per motivi economici: cioè, in parole povere, abolizione dell’art. 18, rimanendo questione soltanto di quanto un’impresa debba pagare al dipendente licenziato e non più di reintegro nel posto di lavoro. Lasciamo ai prof-economisti –perché questo è il loro mestiere- la discussione sul piano economico, e segnatamente sull’indimostrata e tutta da dimostrare idoneità di una tale misura a determinare la crescita del Paese, anche se appare lecito avanzare almeno qualche dubbio e porre loro qualche domanda: può considerarsi indispensabile detta riforma se la norma in questione ha in realtà un’applicazione del tutto marginale (non si applica alle aziende fino a 15 dipendenti, che rappresentano il 97% del nostro Paese, e al 67% dei lavoratori, nel totale delle cause di licenziamento la questione “reintegro” rappresenta una percentuale minima)? Può ragionevolmente sostenersi che la norma impedisce gli investimenti e allontana i capitali stranieri, quando nel nostro Paese esiste una flessibilità –di diritto e di fatto- dei contratti di lavoro che non trova pari in nessun altro paese (senza parlare dei lavoratori in nero, delle false partite IVA e associazioni in partecipazione, degli escamotages legalizzati –lettere di dimissioni in bianco, ecc.- che rendono la cessazione del rapporto di lavoro la cosa più facile al mondo, più dello 80% delle assunzioni nel nostro Paese è fatto con contratto precario, risolvibile in qualsiasi momento), oltre ad un livello salariale tra i più bassi in Europa? La risposta, che viene dal “campo”, da imprenditori come, ad es., De Benedetti, Abete, Colaninno, più che dalla teoria ancorata ai “miti” propagandati dai tanti <> (Valerio Selan), è no: «Togliamo di mezzo questa puttanata del dibattito sull’articolo 18. Io faccio l’imprenditore da 54 anni, non mi sono mai imbattuto nell’articolo 18. E quando incontro un amico americano che mi dice che non investe in Italia per l’articolo 18 scopro che non l’ha mai letto» (De Benedetti). Ma, lasciata ai prof economisti … l’economia, se proprio qualcuno si ostini ancora a pensare che il problema dell’Italia sia l’art. 18 e che la salvezza/crescita del paese dipenda dalla riforma delle regole del diritto del lavoro invece che dall’adozione di politiche industriali (inesistenti, e ciononostante ignorate dalle “ricette” salvifiche dei prof economisti, che pure di questo, e non di diritto, dovrebbero occuparsi), lascino essi a chi si occupa di diritto –o comunque a chi non ignora questo aspetto essenziale della società civile- la discussione sul piano giuridico, che dovrebbe essere necessariamente e logicamente preliminare, se non altro per il fatto indubitabile che di legge –in particolare art. 18 L 300/70- e di contratto (di lavoro) stiamo parlando, oltre che per la considerazione che, in forza di quei principi, il lavoro è innanzitutto un diritto ed un valore sociale costituzionalmente tutelato, non solo un rapporto economico, (artt. 1, c. 1°, e 4, c. 2°, Cost.). E magari, per allargare un po’ la vista e l’orizzonte oltre i ristretti confini economistici e dell’ossessione-mercato, facciano qualche buona lettura, ad esempio Rudolf von Jhering, seguendo il richiamo che Guido Rossi, nell’affermare che <>, fa al grande giurista tedesco, in particolare alla sua lectio magistralis contenuta in “La lotta per il diritto”. Con buona pace del prof Monti, il quale, in una sua lezione televisiva, (e non magistralis, a “Che tempo che fa”), ha chiarito qual’è il pensiero dei prof-economisti in materia, affermando senza alcun ritegno –la Forniero avrebbe almeno versato qualche lacrimuccia- che la questione dell’art. 18 dovrà essere affrontata, non più sul piano giuridico -dei principi del diritto del lavoro, che, evidentemente, anche Monti ha compreso essere il vero ostacolo ad un’abolizione della norma- ma su quell’economico. Insomma il prof Monti, portatore di una monoculare (dovuta a una monocultura economica) e machiavellica visione, ci ha da tempo annunciato che, per superare la crisi, il diritto “va in vacanza” e che –siano o meno d’accordo le parti sociali, ha più volte chiarito- lo Stato di diritto viene smantellato per essere soppiantato con una sorta di “moderno” Stato-farwest (per la verità, in questo proseguendo l’opera meritoria già iniziata dal governo Berlusconi, col quale, il prof ha più volte ribadito, esplicitamente ed orgogliosamente, il rapporto di continuità), in cui Costituzione, principi dell’ordinamento giuridico, leggi e regole non contano più: parole (poi confermate dai fatti) di una gravità inaudita e sconcertante in bocca a chi rappresenta lo Stato al massimo livello! Quella limitata visione impedisce, evidentemente, di vedere un lato essenziale della questione, quello dei diritti civili e sociali sanciti dalla costituzione, che non sono vuote forme simboliche, ma fondamenta della società e dello stato (che appunto per questo si qualifica nel binomio inscindibile Stato-di diritto), espressione stessa della sostanza della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza. E allora, se la visone deve essere a tutto campo e non può ignorare il lato dei diritti, è sul piano giuridico che necessariamente e non per mero formalismo, la questione deve essere affrontata. Su tale piano, tralasciando gli errori formali e di terminologia (che, peraltro dimostrano, una volta di più, la mancanza di dimestichezza col diritto di certi prof tuttologi) come l’asserita “rescindiblità” (termine tecnico proprio all’ipotesi di cui gli artt. 1447-1448 c.c.) del contratto, ben più pesanti sottolineature –con colore più ‘grave’ del blu, se mai possibile- si devono fare sul contenuto della proposta sostenuta dai due economisti come da altri, proposta che solitamente viene attribuita ad Ichino e che lo stesso si auto-attribuisce impropriamente, ma la cui paternità spetta, in realtà, a Biagi, il quale per primo la sostenne (vedasi lo scritto del giuslavorista scomparso, pubblicato postumo da La Nazione qualche anno fa). E allora, per spazzare via le tante falsità che sedicenti prof, tecnici ed esperti vanno raccontando su questo tema a sostegno di quello che viene furbescamente propagandato come alto e moderno diritto del lavoro, ma che rappresenta, in realtà, un ritorno al medioevo del diritto e uno scempio di principi di civiltà giuridica, deve essere chiarito che: 1) per legge il licenziamento deve sempre (tranne alcune limitate e speciali ipotesi) essere sorretto da giusta causa o giustificato motivo. Dunque, sia nell’ipotesi di aziende con più di 15 dipendenti -nel qual caso si applica la tutela reale di cui all’art. 18 L. 300/70- sia per quelle al di sotto di tale limite -nel qual caso si applica la tutela obbligatoria di cui all’art.8 L. 604/66- è richiesta la giustificatezza della causa: la differenza è che, se il licenziamento è dichiarato invalido, nella prima ipotesi è previsto anche il reintegro nel posto di lavoro (oltre al risarcimento), nella seconda l’obbligo di riassunzione, pur previsto, può essere in pratica sostituito dal risarcimento; 2) nel nostro diritto esiste già (ed è largamente utilizzato dalle imprese) il licenziamento per ragioni economiche (art. 3 L. 604/66, c.d. licenziamento per giustificato motivo obbiettivo per i licenziamenti individuali, e art. 24 L. 223/1991 per i licenziamenti collettivi); 3) l’art. 18 altro non è che l’applicazione di principi generali del nostro ordinamento giuridico: il contratto –qualsiasi contratto- è legge tra le parti (art. 1372 c.c.), per cui il recesso privo di giusta causa obbliga, oltre che al risarcimento, all’esecuzione in forma specifica, e, cioè, per quanto riguarda in particolare il contratto di lavoro, appunto il reintegro nel posto di lavoro. D’altro canto, l’inefficacia/nullità radicale del recesso comporta come conseguenza la riviviscenza del contratto che, non essendosi mai giuridicamente interrotto, è considerato essere continuato medio tempore; 4) il reintegro nel posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo non è un’anomalia del diritto italiano, come qualcuno falsamente sostiene, ma è previsto anche in altri Paesi (ad es. la Germania), e, secondo i dati OCSE, in questi recentemente pubblicati, non è affatto vero che il licenziamento sia più facile negli altri Paesi e che in Italia il lavoratore dipendente goda di maggiori tutele e garanzie (anzi, se si escludono gli USA –che peraltro godono di un contesto generale non comparabile- è semmai vero il contrario). Fatte queste precisazioni, una domanda allora si pone, ad Ichino e in genere ai fautori del licenziamento c.d. “facile” (rectius: ingiusto), i quali mirano a liberalizzare il licenziamento, in maniera più o meno intensa disancorandolo dalla giusta causa e dall’obbligo dell’adempimento specifico previsto dall’art. 18: cosa c’è di illegittimo, ingiusto, aberrante, anomalo o anacronistico nell’attuale normativa (peraltro già sostanzialmente svuotata dall’art. 8 del decreto Berlusconi) secondo cui il licenziamento è consentito solo in presenza di giusta causa (o giustificato motivo), con la conseguenza che, qualora risulti nullo/inefficace (perché il giudice ha accertato che giusta causa o giustificato motivo in realtà non c’è), l’inadempimento del contratto dà diritto al lavoratore di ottenere (peraltro solo nelle aziende con più di 15 dipendenti) l’adempimento in forma specifica/reintegro nel posto di lavoro? E poi, Ichino e i suoi seguaci dovrebbero spiegare che cosa vuol dire che il reintegro nel posto di lavoro previsto dall’art. 18 non si dovrà più applicare, con la riforma della norma, ai licenziamenti per ragioni economiche. La cosa non ha infatti alcun senso già sul piano logico ed un minimo di onestà di ragionamento dovrebbe condurre a riconoscere il maldestro inganno su cui poggia la tesi: se, come dovrebbe essere ovvio, il reintegro è la conseguenza per il licenziamento nullo/inefficace -e non certo per il licenziamento, anche determinato da ragioni economiche, che sia legittimo per la presenza di tutti i requisiti di legge- i casi sono due: o il licenziamento è appunto legittimo, e allora nulla quaestio di reintegro si pone (il reintegro, già ora coll’attuale normativa, comunque non spetta), oppure il licenziamento è nullo -cioè difettano le pretese ragioni economiche-, e allora non di licenziamento per ragioni economiche si tratta, e dunque l’ipotizzata esclusione del reintegro sarebbe automaticamente inapplicabile! A meno che la proposta norma riformatrice dell’art. 18, in qualche maniera, non dica che, per far scattare detta esclusione, sia sufficiente la mera dichiarazione del datore di lavoro che autocertifichi che il licenziamento è dovuto a ragioni economiche! Ed a questo che probabilmente pensano Ichino & C. quando dicono che il datore di lavoro deve poter licenziare liberamente per ragioni economiche e organizzative anche solo prospettate sulla base di previsioni di future situazioni di crisi, difficoltà ecc., e non solo per quelle attuali (oggi richieste): come dire, insomma, che sarà sufficiente che il datore di lavoro dichiari di prevedere, secondo sue inevitabilmente soggettive e comunque non dimostrabili analisi (sbagliano le previsioni i prof, figuriamoci quelli che prof non sono!), che tra qualche anno avrà qualche problema economico, per mandare a casa, già da subito e senza tante difficoltà, un pò di dipendenti. Poi, se in seguito le sue previsioni economiche si rivelino sbagliate o, addirittura, se venga accertato (dal giudice) che, in realtà, il licenziamento non è stato determinato da obbiettive ragioni economiche, ma da motivi soggettivi (licenziamento ontologicamente disciplinare, di rappresaglia, persino discriminatorio o comunque determinato da motivo illecito), pace: il lavoratore licenziato non avrà comunque diritto al reintegro nel suo posto di lavoro (ma solo ad un indennizzo) e il datore di lavoro avrà, senza alcuna difficoltà, raggiunto il suo scopo di liberarsi del lavoratore. E magari si pensa pure –tutto è possibile sulla strada del sistematico annientamento dei principi giuridici e dell’affermazione dello Stato farwest- ad una norma che preveda -come prevedeva ad esempio quella, contenuta nella prima manovra Berlusconi (e poi fortunatamente stralciata), che intendeva scippare ai docenti precari della scuola statale il diritto di ricorrere al giudice- una sostanziale non impugnabilità del licenziamento! Già attualmente il motivo “economico” è largamente utilizzato dalle aziende quale “ordinario” escamotage -camuffante il vero dissimulato motivo illecito- per liberarsi di dipendenti (magari scomodi), figuriamoci cosa succederà se passa la proposta “riforma” (venendo meno l’effetto deterrente dell’obbligo di reintegro, il giochino diventerà ancora più semplice: i datori di lavoro -è da scommetterci- giustificheranno il licenziamento solo e sempre con motivi economici, atteso che, in questa maniera, anche nel caso di riconosciuta sua illegittimità, la conseguenza sarebbe esclusivamente il pagamento dell’indennizzo). E’ chiaro, infatti, che l’obbiettivo, inconfessabile e pur perseguito da tutte tali proposte di riforme liberiste, è quello, al di là delle garanzie di facciata che eventualmente potranno essere previste sul piano formale, di consentire all’italica furbizia di dare spazio al licenziamento “facile”, libero, a-causale in quanto rimesso ad nutum, al mero arbitrio, del datore di lavoro. Come ugualmente chiara è la furbesca trovata –da alcuni ancora sostenuta in nome di un asserito senso di giustizia e di tutela a favore dei lavoratori (giovani soprattutto, oggi penalizzati dalla piaga del lavoro a tempo determinato/precario)- del contratto a tempo indeterminato: per tutti -si sottolinea con grande forza suggestiva e coll’enfasi di chi annuncia una grande riforma di giustizia- per poi aggiungere però –questa volta nella maniera più marginale e discreta possibile- “rescindibile”! Ma non può sfuggire, a chi non si faccia abbagliare da tanta improbabile generosità nei confronti dei lavoratori, che tale “rescindibilità” (rectius: recedibilità, risolvibilità) non è affatto dettaglio marginale e irrilevante, essendo tale da modificare radicalmente la natura stessa del contratto, che nessuno potrebbe illudersi di considerare veramente “a tempo indeterminato”, nella comune accezione riferita ad un rapporto dotato di tutela della stabilità: evidente è, al contrario, che un contratto a tempo determinato, non potendo essere risolto prima della naturale scadenza del termine, offrirebbe in realtà maggiori garanzie di conservazione dell’occupazione e sarebbe quindi più sicuro e stabile che non un rapporto a tempo indeterminato “rescindibile” liberamente in qualsiasi momento. Quanto agli effetti di una simile riforma, propagandata dai suoi sostenitori (Monti compreso) quale panacea di tutti i mali dell’Italia e che favorirebbe la crescita del Paese, l’occupazione, la produttività, gli investimenti esteri, ecc., il meno che si possa dire –e va detto- che trattasi di mere “prof-ezie” (dei prof-economisti), indimostrate e tutte da dimostrare. Mentre, non difficili da prevedere, già da ora, appaiono gli effetti negativi connessi ad un consistente aumento della conflittualità sociale, rinfocolata dal ritorno ad un sistema da “padrone delle ferriere” titolare di un potere assoluto sui dipendenti (in sostanza licenziabili ad nutum e perciò facilmente sfruttabili e ricattabili), e del contenzioso giudiziario, che intaserebbe, ancor di più di quanto non succeda oggi, le aule dei tribunali, chiamati a pronunciarsi sulla legittimità e sui limiti della nuova norma che violerebbe principi generali dell’ordinamento –espressamente richiamati e ribaditi anche dalle nuove disposizioni recentemente introdotte dalla L. 4.11.2010 n. 183 (art. 30) in materia di cause di lavoro- quali, oltre a quelli più sopra richiamati, quello della stabilità del rapporto (Cost., artt. 4 e 36), quello di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), quello della giustificatezza della causa e della causa quale elemento essenziale del negozio giuridico (art. 1418 c.c.,), quello del favor prestatoris quale parte debole del rapporto, e che risulterebbe in contrasto con la generale tendenza del nostro ordinamento a rafforzare la giuridica tutela di prioritari interessi coinvolti nel contratto mediante la progressiva riduzione delle ipotesi di recedibilità a-causale e il correlativo aumento delle ipotesi di recedibilità causale. Contenzioso che non sfuggirebbe neanche al vaglio della stessa Corte Costituzionale, la quale, come avverte Michele Ainis, ha più volte ribadito l’irrevocabilità dello statuto dei diritti sociali, per loro stessa natura progressivi, ed il sostanziale divieto di regressione delle tutele costituzionali acquisite, nel caso di specie giustificate dall’esigenza sociale di porre rimedio allo squilibrio tra le parti del rapporto in cui quella più debole (il lavoratore), in assenza di dette tutele, sarebbe facilmente soggetta ad abusi e prevaricazione. Ma Ichino, che nelle aule dell’Università insegna diritto del lavoro e in quelle dei tribunali difende i grandi gruppi finanziari e industriali (non i lavoratori), queste cose sicuramente le sa. O almeno dovrebbe saperle: come ha detto un noto industriale (e presidente di una grande banca nazionale, ex presidente di Confindustria, non della Fiom) molti, professori compresi, che parlano di licenziamento e di art. 18 non sanno neanche di cosa parlano, perché non sanno cosa sia veramente il lavoro! Per finire, una proposta (ovviamente provocatoria): lasciamo pure che i prof dicano la loro –è un diritto, in democrazia-, ma aspettiamoli poi, con fanfara e fiori, alla resa dei conti, quella dei fatti, i quali soli possono bocciare o promuovere, anche se in questo Paese l’amnesia (nel senso di dimenticare quello che si è detto il giorno prima) e l’irresponsabilità (nel senso di non rispondere delle proprie parole ed azioni) sono vizi talmente comuni da essere considerati oramai virtù da premiare (magari con nuovi e prestigiosi incarichi governativi, accademici, bancari, ecc.). A quel punto, che prima o poi inevitabilmente arriva, se i fatti -dando ragione a chi autorevolmente sostiene che le teorie macroeconomiche negli ultimi trent’anni propinateci dai prof economisti sono state «spettacolosamente inutili al meglio, e positivamente dannose al peggio, tant’è che noi viviamo nell’era buia della macroeconomia» (Paul Krugman, premio Nobel) e che <> (Guido Rossi)- dovessero dimostrare che, ancora una volta, i prof ci hanno raccontato inesorabili panzane (per non usare il più … raffinato “francesismo” di De Benedetti) e le manovre studiate (poco) non sono quelle che possono rappresentare la “vera” soluzione dei problemi del nostro Paese e determinarne uno nuovo sviluppo sostenibile; che a tale scopo non può servire né la riforma delle pensioni (che già in altri Paesi che l’anno adottata, Germania per es., si è dimostrata più dannosa che utile, con la conseguenza che già si pensa ad una giudiziosa marcia indietro) ed in particolare l’innalzamento dell’età pensionabile (che, inevitabilmente, porta con se l’effetto nefasto di un ulteriore innalzamento dell’età di ingresso nel lavoro dei giovani), né l’abolizione dell’art. 18 (che non fa crescere né l’occupazione né la produttività), né l’invenzione di nuove e fantasiose forme di contratto di lavoro (magari in aggiunta alle oltre quaranta già ideate dalla fervida fantasia di Biagi, ora oggetto di revisione critica anche da parte dei suoi stessi idolatri) che stravolgono l’unica forma correttamente ammissibile che il diritto del lavoro (quello vero – e veramente moderno- dei grandi giuslavoristi come Santoro-Passarelli, Giugni, ecc., frutto dell’applicazione di principi di civiltà indisponibili e non negoziabili che nessuna crisi finanziaria, mercato, lezione economica, pseudo-modernismo o imposizione della BCE, può distruggere) ha elaborato in decenni di progresso civile e legittime conquiste democratiche, almeno facciano, i prof, pubblica ammenda e, dopo aver rinunciato al pomposo titolo, ritornino sui banchi di scuola! Almeno, dopo essere stati tediati dalle quotidiane lezioni dei garruli ed onnipresenti prof-economisti, potremo anche noi –se avremo ancora la forza di scherzare- riderci su, pensando a quello che a proposito degli àuspici diceva -e potremmo dire oggi dei prof-economisti- lo storico di quell’epoca: e cioè che questi antichi sacerdoti romani, quando si incrociavano per strada, non potevano fare a meno di sghignazzarsi addosso l’un l’altro!

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