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Come Mario Draghi ha salvato l’euro

Francesco Saraceno, “La riconquista”, Luiss University Press, 224 pagine, 16 euro. In libreria dal 3 settembre

di Francesco Saraceno, tratto da “La Riconquista”, Ed. Luiss

Quando Mario Draghi ha lasciato la testa della BCE, nel novembre del 2019, su una cosa i molti estimatori e i pochi detrattori del presidente della BCE si sono trovati d’accordo: durante gli otto anni in cui ha condotto la politica monetaria dell’Eurozona, l’ex governatore della Banca d’Italia e allievo di Federico Caffè è stato un protagonista riluttante della saga dell’euro. Protagonista, perché in almeno due occasioni è stato l’intervento della BCE a evitare il collasso della moneta unica; riluttante, perché progressivamente, e in maniera via via sempre più esplicita, “Super Mario” ha chiarito che la politica monetaria aveva raggiunto i suoi limiti, che l’intervento della Banca centrale era reso necessario solo dall’inerzia dei governi europei e che solo un cambiamento radicale nella politica di bilancio avrebbe potuto mettere la crisi del debito definitivamente alle nostre spalle.

Al suo arrivo alla presidenza della BCE nel novembre del 2011, Draghi si trova nel mezzo della tormenta. In Italia il governo Berlusconi è sfiduciato, e si prepara la successione con Mario Monti. L’austerità affossa le economie di Grecia, Spagna e Portogallo, l’Eurozona entra di nuovo in recessione (unica grande economia ad avere questo “privilegio”) e i mercati sono in fermento, con molti speculatori che scommettono sull’uscita dall’euro dei membri più deboli (tra cui Italia e Spagna). Prendere le redini della banca centrale è un compito da far tremare i polsi. Il prologo non è dei migliori. Tre mesi prima di diventare presidente, il 5 agosto, Draghi aveva firmato insieme al presidente uscente Trichet una lettera riservata indirizzata al governo italiano. Nella lettera si chiedevano al presidente Berlusconi drastiche misure di consolidamento di bilancio in cambio del sostegno europeo. Un chiaro segnale, non solo all’Italia, che con il cambio della guardia all’Eurotower la austerità rimane il faro dell’azione della BCE.

Fino ad almeno tutto il 2015 questo non cambierà. Come abbiamo visto, la BCE di Draghi dà il contributo decisivo alla capitolazione del governo di Alexis Tsipras in Grecia, chiudendo i rubinetti della liquidità alle banche elleniche in occasione del referendum.  Tuttavia, nonostante la continuità con il suo predecessore riguardo all’austerità, il cambio di rotta della politica monetaria è netto. Il primo atto significativo di Draghi è l’annullamento dell’improvvido aumento dei tassi deciso da Trichet nel luglio precedente, per paura di un’inflazione che esiste solo negli incubi dei rigoristi. Al contrario, gli otto anni di mandato di Draghi diventeranno una lunga lotta, senza quartiere e non completamente coronata da successo, contro la tendenza dell’economia dell’Eurozona a entrare in deflazione.

Ma la vera svolta, che imprime il marchio di Draghi sulla BCE, e che ne definirà l’eredità, è il discorso del whatever it takes del luglio 2012. La speculazione contro Spagna e Italia è a livelli parossistici, mentre l’inefficacia delle politiche di austerità e la nuova recessione dell’Eurozona le donano ancora più forza. A Londra, Draghi pronuncia queste parole, divenute ormai famose: “Ma c’è un altro messaggio che voglio darvi: nell’ambito del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente”. Con quelle poche parole Super Mario mette fine a un’ambiguità legata alla no bailout clause richiamata nel capitolo.
La clausola, che nelle intenzioni di chi l’aveva inserita nei trattati doveva servire a evitare che i Paesi fossero indisciplinati confidando nella protezione della BCE, aveva privato l’Eurozona di quel prestatore di ultima istanza che protegge ogni altro Paese. Una banca centrale, di solito, avendo facoltà di acquistare quantità illimitate di titoli pubblici, di fatto protegge il governo dal fallimento, e quindi dagli attacchi speculativi.

Certo, come abbiamo già notato, questo non vuol dire che la politica di bilancio non abbia limiti; ma semplicemente che speculare contro un Paese protetto da una banca centrale pronta ad agire da prestatore di ultima istanza è difficile quando non impossibile. Nei primi anni della crisi il predecessore di Draghi Jean-Claude Trichet si era ben guardato dal dissipare l’ambiguità su un eventuale intervento della BCE in caso di attacco speculativo. Con il discorso di Londra Draghi chiarisce definitivamente che non consentirà alla speculazione di far fallire un Paese dell’Eurozona. Di fatto, dichiara che la BCE è pronta ad acquistare ogni ammontare di titoli pubblici italiani e spagnoli che i mercati non desiderano, rendendo vana la speranza degli speculatori di portare questi Paesi (o ogni altro che in futuro finisse sotto attacco) all’insolvenza. Gli spread di Spagna e Italia crollano immediatamente. Quando qualche settimana dopo il whatever it takes è formalizzato in un programma detto Outright Monetary Transaction (OMT, tradotto in italiano come Operazioni definitive monetarie) votato dal Consiglio direttivo nel settembre 2012, la BCE diventa, sia pure in modo un po’ contorto, un prestatore di ultima istanza per i governi.

Il programma consente ai Paesi che abbiano difficoltà a piazzare il proprio debito sul mercato di accedere su rischiesta a un programma di acquisti di titoli da parte della BCE. La banca centrale assorbe allora i titoli che il mercato non vuole, in cambio dell’impegno dei Paesi a perseguire un programma di riforme e austerità. Si tratta di una svolta epocale, mette fine a un’anomalia tutta europea, l’impossibilità per la banca centrale di assicurare i governi contro il rischio di fallimento. Draghi, sia pur rispettando la lettera dei trattati, si dimostra pronto a violarne la sostanza per preservare la moneta unica. Questo provoca malumori nei Paesi del centro e conflitti all’interno del Consiglio dei governatori della BCE.

Lo scontro con la Bundesbank arriva fino alla Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe, che ravvisa il pericolo che l’OMT violi i trattati UE nella parte sul divieto di finanziamento monetario, rimandando pertanto la decisione alla Corte di Giustizia europea. Nel giugno 2015 questa dà ragione alla BCE, giudicando l’OMT conforme alle disposizioni dei trattati. È interessante notare che nessun Paese ha mai fatto domanda di accesso al programma OMT, perché le condizioni per ottenere il prestito sono draconiane. Ma la sola possibilità di farlo, e quindi di evitare l’insolvenza in caso di attacchi speculativi ha di fatto messo i Paesi al riparo dalle turbolenze dei mercati. Proprio i vantaggi che sono dati dal ruolo assicurativo svolto dal prestatore di ultima istanza. Il whatever it takes e l’OMT rappresentano un momento di svolta importante anche per un’altra ragione. Come gli italiani possono ricordare riandando con la memoria al periodo del governo Monti, in molti Paesi i piani di rientro dal debito e di consolidamento di bilancio sono stati varati, in fretta e furia, sotto la pressione di spread crescenti.

L’argomento all’epoca era che gli spread indicavano la fiducia dei mercati e quindi, sempre assumendo che i mercati fossero efficienti, un problema nei cosiddetti “fondamentali” dell’economia: i mercati punivano i Paesi più deboli chiedendo rendimenti più alti per finanziarli, per cui l’austerità e le riforme, rimettendo in ordine i fondamentali avrebbero fatto calare gli spread. Ma c’era un altro punto di vista, che pur riconoscendo che i fondamentali hanno un ruolo importante, evidenziava altri fattori quali il panico, la speculazione, l’irrazionalità degli operatori, nel determinare la domanda di titoli pubblici e il loro rendimento. I comportamenti dei mercati durante la crisi, le ondate speculative, l’instabilità finanziaria avevano a più riprese confortato questo secondo punto di vista.

La decisione della BCE di un sostegno potenzialmente illimitato ai governi sui mercati dei titoli di Stato ha cambiato radicalmente la psicologia collettiva, rendendo non giustificato il timore di un collasso imminente della zona euro. Il successivo e quasi immediato crollo degli spread ha confermato che il loro valore aveva ben poco a che vedere con i fondamentali, e molto di più con un panico irrazionale alimentato da politiche miopi e dettate dall’ideologia.

Con l’estate 2014 l’infinita crisi europea entra in una nuova fase, ancora una volta grazie a un cambiamento di posizione della BCE. Il lento scivolare della zona euro verso la deflazione non può più essere ignorato: per la prima volta dall’inizio della crisi la stagnazione dei prezzi porta con sé un deterioramento delle aspettative di inflazione a medio termine, che costituiscono la guida per l’azione dell’istituto di Francoforte.16 Il secondo atto che caratterizza la presidenza Draghi è dunque il lancio del programma di acquisto massiccio di titoli che va sotto il nome di Quantitative Easing, che è annunciato nell’autunno del 2014 e inizia nel marzo del 2015. La data è particolarmente importante: gli Stati Uniti e il Regno Unito avevano lanciato i loro programmi di QE nel 2012 e la BCE mette in cantiere il suo quando negli USA la FED ne annuncia la graduale uscita. Nei tre anni di ritardo sta tutta la misura delle difficoltà del lavoro di Mario Draghi, che lentamente ma inesorabilmente vince le resistenze del Consiglio direttivo (come il programma OMT, anche il QE, essendo un programma di acquisti di titoli pubblici è alla frontiera del lecito) e mette in minoranza i falchi tedesco e finlandese, mostrando doti politiche fuori dal comune.

Il massiccio acquisto di titoli tiene bassi i tassi d’interesse dei Paesi periferici dell’Eurozona, dando loro un po’ di margine di manovra per la politica di bilancio, e in alcuni Paesi (come l’Italia) esso contribuisce ad allentare le condizioni creditizie. Ciononostante, molti lo hanno sottolineato fin dall’inizio, l’enorme iniezione di liquidità non può rimettere l’economia sui binari di una crescita decente. L’inflazione rimane ostinatamente troppo bassa, e la spesa privata anemica quasi ovunque. Il QE, infatti, può far aumentare l’offerta di credito, ma di per sé non ha effetti sulla domanda. Per vaste porzioni della popolazione le decisioni di spesa durante una crisi non dipendono dalla disponibilità di liquidità e di credito, ma da un reddito insufficiente, da un debito eccessivo, e dal pessimismo sul futuro (Keynes si riferiva agli “spiriti animali”).

Si può offrire tutta l’acqua che si vuole a un cavallo; se non ha sete non berrà. È a questo punto che Draghi inizia a richiamare i governi nazionali alle loro responsabilità, e a invocare politiche di bilancio espansive, sia  per attenuare gli effetti negativi del QE (i tassi bassi che penalizzano i risparmiatori, l’impatto negativo che l’acquisto di titoli ha sui prezzi delle attività e sulla distribuzione del reddito), sia per rilanciare l’economia e consentire alla BCE, infine, di riprendere un ruolo defilato e di non essere obbligata a fare sforzi titanici per tenere l’economia a galla.

Già con il discorso tenuto al simposio annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole nel 2014, si era fatta strada l’idea che per sostenere la ripresa che rimaneva debole la politica di bilancio dovesse aiutare, se non addirittura sostituire, la politica monetaria; ma a Jackson Hole Draghi era stato molto prudente, affermando a più riprese che l’investimento dovesse venire solo dai Paesi che avevano un margine di manovra. Gli inviti ai governi si fanno più pressanti man mano che Draghi si avvicina alla fine del suo mandato, fino alle ultime uscite pubbliche in cui diventa esplicito l’invito a dotare l’Eurozona di un ministro dell’economia di tipo federale. Nell’ultima conferenza stampa da presidente della BCE, alla fine di ottobre del 2019, Draghi afferma che “Qualsiasi unione monetaria che abbia successo ha una capacità di bilancio centrale. Nella forma di un bilancio o di un sistema di assicurazione. È molto importante”.

È da questa constatazione, coerente con la teoria tradizionale delle aree valutarie ottimali, che è ripartita Christine Lagarde. Il nuovo presidente della BCE sembra iscriversi nel solco del suo predecessore.  In conclusione, la violenza della crisi finanziaria globale, i difetti di costruzione della moneta unica e, soprattutto, la gestione calamitosa della crisi greca hanno portato la zona euro prima sull’orlo dell’esplosione, nel 2012. E poi a impantanarsi in una ripresa anemica e diseguale, con alcuni Paesi (come il nostro) che sono stati investiti dalla tempesta del Covid-19 senza aver nemmeno ritrovato i livelli di PIL del 2008. Non è esagerato dunque affermare che è solo grazie alla BCE e al whatever it takes di Draghi che l’euro esiste ancora. È solo grazie all’espansione monetaria che una sia pur anemica crescita è rivenuta dopo il 2014. I governi nazionali hanno brillato per la loro assenza, distinguendosi nel migliore dei casi per politiche di sostegno alla domanda eccessivamente timide, e nel peggiore dei casi per politiche di austerità che hanno contribuito ad affossare l’economia e a renderla dipendente dalle esportazioni, soprattutto nei Paesi periferici in crisi.

4 commenti su “Come Mario Draghi ha salvato l’euro

  1. Rilevo due grosse imprecisioni.

    1. La prima è la BUFALA, ormai mondiale, che ha ingannato quasi tutti gli economisti, che l’austerità e il consolidamento fiscale siano stati opera del governo Monti. BUFALA che io contrasto da otto anni con centinaia di commenti (si veda, in questo sito, il mio primo commento sul tema in data 16.01.2013 https://keynesblog.com/2013/01/16/lagenda-monti-e-la-tecnica-della-falsificazione/#comment-4352), con il mio blog, con un centinaio di lettere “circolari” e, da ultimo, con un lungo saggio (LE TRE PIU’ GRANDI BUFALE DEL XXI SECOLO), nel quale faccio 40 esempi di vittime più o meno illustri, tra cui un premio Nobel.
    In realtà, il consolidamento fiscale (e l’austerità) è stato opera del governo Berlusconi per l’81%, il 19% di Monti, che peraltro è stato molto più equo.
    Il grosso delle cifre fu deciso con 5 DL tra il 2010 e il 2012: tre di Berlusconi (DL 78 del 31.05.2010, di 62 mld cumulati; DL 98 del 6.07.2011, di 82 mld cumulati; e DL 138 del 13.08.2011, di 65 mld cumulati) e due di Monti (DL 2011 del 6.12.2011, di 63 mld cumulati e DL 95 del 6.07.2012, di 0,6 mld cumulati).[*]
    Il DL 138 del 13.08.2011 è conseguente alla famosa lettera della 5.08.2011 della BCE, in contropartita di acquisti di titoli di Stato da parte di quest’ultima, nell’ambito del programma SMP.

    [*] Per cumulati si intende per un triennio o un quadriennio (le misure strutturali valgono tuttora).

    2. La seconda è il ritardo del QE di Draghi, che non è stato di 3 anni, ma esattamente di 6 anni, dal momento che il QE1 fu varato dalla FED e dalla BoE nel marzo 2009 (la BoJ molto prima).

    • PS: Quando ho scritto che “Quasi tutti gli economisti” sono stati vittime della Prima Più Grande Bufala del XXI Secolo (che l’austerità l’ha causata Monti), va preso alla lettera. In 10 anni di ricerche, ho riscontrato che soltanto 2 economisti italiani non lo sono stati, perché a conoscenza delle manovre pesanti di Berlusconi-Tremonti. Sarei veramente grato se qualcuno potesse dimostrare il contrario Questo, forse, vale ancor di più per gli economisti stranieri, perciò parlo di BUFALA mondiale.
      La Seconda Più Grande Bufala del XXI Secolo riguarda le pensioni italiane; la terza gli obiettivi e i poteri-doveri statutari della BCE. Anche la seconda e la terza sono diventate BUFALE mondiali.

  2. Mah sì, Draghi avrà anche salvato l’euro. E le ultime considerazioni vanno nel verso giusto… resta il fatto che la crisi del 2008 deriva da una sovrapproduzione di denaro-debito legata ad un aumento delle disuguaglianze e ad una tendenza alla stagnazione “secolare”. Se riusciremo a sistemare le deficienze dell’euro, sarà sufficiente? Mah

  3. Non mi pare che aver salvato l’euro, cioè il più grosso errore di politica economica degli ultimi decenni, come ammesso ormai da molti, possa considerarsi un merito…

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