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Quale modello tedesco per la Francia e l’Italia?

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Un’analisi comparativa del mercato del lavoro tedesco come parametro per valutare la nuova Loi Travail del governo Macron e il contesto italiano.

di Francesco Saraceno da LuissOpen

A tre mesi dall’inizio del suo mandato, Emmanuel Macron ha mantenuto una delle promesse caratterizzanti e controverse del suo programma. La loi travail, che entrerà in vigore nelle prossime settimane, ha come obiettivo principale la riduzione delle tutele dell’impiego – in particolare per le piccole e medie imprese –  con lo scopo di eliminare i vincoli che disincentivano le assunzioni e incoraggiare in tal modo l’occupazione. Questo primo gruppo di misure dovrebbe essere seguito nelle prossime settimane o mesi da altre norme volte a potenziare la formazione e  il reinserimento dei lavoratori disoccupati. Una volta completato, questo pacchetto dovrebbe essere la versione francese della flexicurity messa in atto dai Paesi scandinavi in passato, con risultati più o meno soddisfacenti.

Senza scendere nei dettagli della legge, l’insieme di norme approvato dal Governo francese è, come il Jobs Act italiano del 2014, un deciso passo avanti verso mercati del lavoro più flessibili, un modello adottato in Germania già nei primi anni 2000 con il cosiddetto “Pacchetto Hartz”. L’esperienza tedesca e, in misura minore, i primi anni di attuazione del Jobs Act possono aiutare a capire come il mercato del lavoro francese potrebbe evolvere nei prossimi anni.

La Germania stessa, forte dei suoi successi recenti, si pone a modello. Secondo un’opinione diffusa, infatti, le riforme adottate nel biennio 2003-2005 hanno liberato le forze vive dell’economia tedesca e da allora, con l’eccezione del primo anno della crisi, la disoccupazione è in costante declino. Si tratta tuttavia di un esempio ingannevole, perché il pacchetto Hartz era inserito in una complessa cornice istituzionale, che andava ben al di là della sbandierata flessibilità.

In primo luogo, un importante segmento del mercato del lavoro tedesco – quello connesso all’industria manifatturiera e ai servizi alle imprese–  è stato sempre dominato da accordi tra datori di lavoro, lavoratori e camere del lavoro locali. Gli insiders, i lavoratori in questi settori protetti erano inseriti in un insieme di relazioni contrattuali che prevedevano salari elevati, l’accrescimento delle competenze attraverso percorsi di formazione professionale (interni o esterni all’azienda), e la protezione di un sistema previdenziale onnicomprensivo. La formazione professionale creava solidi legami tra l’azienda, che spesso investiva in formazione ingenti risorse, e i lavoratori, le cui competenze specifiche non potevano essere facilmente trasferite ad altri settori o persino ad altre imprese.

Al volgere del secolo i mercati globalizzati – combinati con le conseguenze della riunificazione – hanno esercitato una forte pressione per una ristrutturazione di questo complesso insieme di relazioni lavorative. Tale ristrutturazione  è avvenuta mediante un processo di concertazione che non ha riguardato il governo. In questo mercato degli insiders, il comune interesse a mantenere relazioni stabili e durature  tra i lavoratori e le aziende ha portato ad accordi volti a ridurre i costi o incrementare la produttività, senza aumentare il turnover o ridurre la durata media del rapporto lavorativo. Tali accordi potevano includere – dal lato dei lavoratori – condivisione del lavoro, flessibilità in termini di orario di lavoro e mobilità, concessioni salariali, riduzioni dell’assenteismo; in cambio, le aziende avrebbero garantito la stabilità nei rapporti lavorativi oltre alla continuità degli investimenti nella ricerca,  e nella formazione professionale dei lavoratori.

È importante rimarcare che le riforme Hartz non hanno riguardato questi settori (industria manifatturiera, finanza, assicurazioni, ecc.) che, come abbiamo notato, avevano già iniziato a ristrutturarsi senza l’intervento del governo. La riforma ha reso il sistema previdenziale meno generoso, permettendo al tempo stesso l’accesso alle prestazioni anche per lavoratori con bassi salari, di fatto incentivando i minijob scarsamente retribuiti. Inoltre, ha temporaneamente liberalizzato i contratti di lavoro e reso più flessibili alcuni settori soggetti a competizione da parte di lavoratori distaccati (ad es. l’edilizia).

Il risultato combinato di riforme in alcuni settori, e ristrutturazioni in altri, è un’esplosione  degli impieghi part-time e un aumento dell’occupazione; ma anche l’aumento del divario in termini di retribuzioni e protezione sociale fra lavoratori nei settori orientati all’esportazione e gli altri.

La seconda caratteristica che ha aumentato la resilienza del “sistema paese” tedesco d fronte alla crisi è l’esistenza di un’intensa rete di casse di risparmio locali (le Sparkassen), che sono state a lungo una caratteristica distintiva dei settori bancari anche in altri  paesi europei (come Spagna e Italia), ma che sono diventate progressivamente marginali; la Germania rappresenta dunque un’eccezione, in quanto le sue casse di risparmio locali costituiscono ancora un pilastro dell’economia nazionale.

Le casse di risparmio locali hanno missioni di specifico interesse pubblico, in quanto coinvolte nello sviluppo delle comunità locali e nel finanziamento di famiglie e aziende (in particolare le PMI). La legge consente loro solo operazioni all’interno della regione di competenza, il che le mette al riparo dalla concorrenza e preserva la prossimità con i clienti. Sempre per preservarne la stabilità, l’ambito delle loro operazioni è limitato (ad esempio, hanno limiti nella capacità di negoziazione di titoli o di effettuare operazioni finanziarie eccessivamente rischiose).

Per evitare che queste limitazioni ne danneggino l’efficacia e la competitività, le banche lavorano organizzate in reti che esibiscono economie di scala e di scopo restando al contempo vicine, nelle componenti individuali, alle comunità locali. Inoltre, l’esistenza di meccanismi di solidarietà (fondi di salvataggio) garantisce che le difficoltà temporanee di una banca siano affrontate senza diffondere il contagio.

Le principali banche commerciali private, molto attive nei mercati internazionali, durante la crisis hanno sofferto come in molti altri paesi, hanno imposto costi notevoli alle finanze pubbliche e hanno drasticamente ridotto il credito all’economia reale. Le Sparkassen, invece, hanno mantenuto stabili i finanziamenti (in particolare alle PMI) e non hanno praticamente avuto bisogno di aiuti statali. Di conseguenza, le casse di risparmio locali hanno ammortizzato l’impatto della crisi finanziaria sull’economia tedesca e il fatto che abbiano continuato a finanziare le imprese è senz’altro uno dei principali fattori che spiegano il rapido rimbalzo dell’economia tedesca dopo il 2010.

Se considerati insieme, il settore bancario e le istituzioni del mercato del lavoro rappresentano un sistema di efficacia impressionante, orientato verso la costruzione di rapporti di lunga durata in cui gli interessi e gli obiettivi (di imprenditori e lavoratori, di banche e aziende) sono allineati. Ma questa efficacia ha anche dei lati oscuri. Da un punto di vista macroeconomico, la redditività e la competitività sono cresciute, ma anche i risparmi precauzionali,  incentivati da un sistema previdenziale meno generoso e dalla crescente incertezza in cui si trovavano i lavoratori dei settori non esportatori. Il “successo” dell’economia tedesca trainata dalle esportazioni, che nel 2016 ha registrato un avanzo delle partite correnti del 9% del PIL, è costruito sulla compressione della domanda domestica e su un mercato del lavoro sempre più duale in cui è esplosa la diseguaglianza. La bassa disoccupazione – che dovrebbe rendere altri paesi invidiosi – nasconde in realtà un enorme aumento dei cosiddetti lavoratori poveri. Ma mi spingerei oltre; le riforme Hartz sono state, è vero, uno dei principali motori dell’aumento del dualismo e della precarietà del mercato del lavoro. Il ruolo che hanno giocato nello spiegare la resilienza dell’economia è di gran lunga meno importante. Un recente policy brief del CER sostiene una tesi simile.

Con il Jobs Act il mercato del lavoro italiano sembra dirigersi nella stessa direzione di quello tedesco. I dati recenti forniti dall’ISTAT sullo sviluppo del mercato del lavoro mostrano il ritorno degli occupati al picco pre-crisi (2008), segnando, simbolicamente, la fine della crisi. Tuttavia il PIL è ancora inferiore del 7% rispetto ai livelli del 2008, il che significa che la crescita dell’occupazione si è verificata in settori dallo scarso valore aggiunto (quali ad esempio turismo e ristorazione) e spesso con contratti part-time. Si tratta infatti di settori caratterizzati da salari bassi e molto bassi e da produttività stagnante. Allo stesso tempo, i salari (ma non l’occupazione) crescono nei settori orientati all’esportazione. Il mercato del lavoro italiano è quindi avviato verso lo stesso dualismo che caratterizza quello tedesco, il che spiega perché la domanda interna italiana sia stagnante come quella tedesca; perché l’aumento dell’occupazione sia ottenuto al prezzo di un precariato maggiore e della crescita del numero dei lavoratori poveri e perché, infine, mentre i numeri dicono che la crisi è passata, l’esperienza concreta delle famiglie sia spesso differente. L’Italia, e in minore misura la Germania, sono la prova migliore che occupazione e crescita non vanno necessariamente di pari passo con l’aumento del benessere.

Concentrandosi esclusivamente sulla flessibilità del mercato del lavoro Italia e Francia hanno importato solo uno dei fattori del “modello” tedesco, e probabilmente quello di gran lunga meno importante. La capacità del sistema paese Germania di costruire rapporti economici stabili e duraturi, la vera chiave del successo economico, è assente nei nostri paesi.

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