22 commenti

“Le notizie sulla morte dell’euro sono fortemente esagerate”

“Le notizie circa la mia morte sono fortemente esagerate”. Così ironizzava Mark Twain su una fake news, si direbbe oggi, riguardante il suo decesso. Lo stesso potrebbe dire l’euro, ci avverte Barry Eichengreen dalle pagine di Bloomberg View. Il parere di Eichengreen è particolarmente utile alla discussione perché egli non è solo un economista, ma anche uno storico dell’economia, la cui opera più significativa riguarda un altro regime monetario poi dissoltosi: il Gold Standard.

Dopo aver elencato le minacce incombenti sull’euro (l’ostilità dell’amministrazione Trump, il ritorno della crisi greca, la possibile affermazione di forze euroscettiche in Francia e in Italia) e le falle nell’architettura della moneta unica (la mancanza di un Tesoro europeo, un’unione bancaria incompleta, l’assenza di una garanzia europea dei depositi, un regime di risoluzione bancaria inapplicabile, una scarsa mobilità dei fattori produttivi – ma su questo avremmo qualche caveat), Eichengreen passa ad elencare i motivi per i quali, a suo parere, “l’euro è qui per restare”:

“Gli osservatori più acuti noteranno che gli scettici hanno predetto la fine della moneta unica in continuazione sin dalla sua creazione nel 1999. Hanno sbagliato per quasi 20 anni. Scommettere sulla fine dell’euro è stata la vedova nera dei mercati finanziari.”

Secondo l’autore vi sono due collanti che reggono l’euro:

“In primo luogo, i costi economici di una rottura sarebbero grandi. Se gli investitori sentissero che la Grecia stata seriamente contemplando la possibilità di reintrodurre la dracma, con lo scopo di deprezzarla contro l’euro, o contro un nuovo marco tedesco, sposterebbero tutti i loro soldi a Francoforte. La Grecia sperimenterebbe la madre di tutte le crisi bancarie.”

Eichengreen punta il dito contro le soluzioni “facilone” che spesso ammorbano il dibattito anche nel nostro paese, tra cui l’imposizione dei controlli sui movimenti di capitali…

“Coloro che prevedono, o sostengono, la scomparsa dell’euro tendono a sottovalutare le difficoltà tecniche di reintrodurre le monete nazionali. Essi suggeriscono una breve imposizione di controlli sui capitali per evitare che i possessori di attività in euro fuggano mentre la nuova valuta, elettronica o d’altro tipo, viene rapidamente messa in circolazione. Questo ignora la complessità della realtà della rimozione dei controlli, una volta che vengono adottati. Ricordiamo le esperienze di Islanda e Cipro, che hanno richiesto anni, non giorni, per rimuovere completamente i loro controlli ‘temporanei’.”

Tema fondamentale, visto che usciti dall’euro non si potrebbe contare più sulla valvola dei finanziamenti via Target 2.

Per non parlare dei problemi della negoziazione dell’uscita, secondo alcuni una passeggiata. Anzi, parliamone, con le parole di Eichengreen:

“I sostenitori dell’uscita parlano di rapida ristrutturazione dei debiti delle banche, imprese e famiglie con passività denominate in euro, senza rendersi conto che il debito di una persona è l’attività di un’altra persona. Inoltre, poiché prestiti e mutui sono transfrontalieri, un accordo sulla ristrutturazione del debito richiederebbe una lunga negoziazione tra i paesi, se il paese che abbandona l’euro intende evitare dure misure di ritorsione. Questo processo farebbe sembrare i negoziati sul Brexit del Regno Unito una passeggiata nel parco.”

Eichengreen non manca di confermarci il problema dei saldi Target 2, una lettura utile ai diversamente esperti di finanza che non sanno che un saldo negativo è un debito:

“Per i paesi dell’Europa meridionale, vi è un’ulteriore complicazione. Essi avrebbero un enorme conto da pagare alla Banca centrale europea, e implicitamente agli altri Stati membri che sono azionisti della BCE, per regolare i loro saldi Target2, le passività sostenute a seguito di pagamenti transfrontalieri in moneta di banca centrale. Il Presidente della BCE Mario Draghi ha recentemente chiarito che ai paesi che dovessero abbandonare l’euro sarebbe presentato il conto. Per l’Italia, un esempio non del tutto a caso, i saldi attualmente si attestano a 360 miliardi di euro, circa 6.000 euro per ogni uomo, donna e bambino. Circa 10 volte, su base pro capite, ciò che il Regno Unito deve probabilmente l’UE come “alimenti” per il suo divorzio.”

Qui, aggiungiamo noi, il problema riguarderebbe anche la credibilità di una banca centrale e l’affidabilità creditizia del Tesoro di un paese insolvente. Persa la fiducia dei mercati internazionali, ottenere valuta forte e finanziare le importazioni sarebbe estremamente complicato e soprattutto costoso. Inoltre presentarsi sui mercati con una valuta emessa da una banca centrale dichiarata insolvente non è esattamente il migliore dei biglietti da visita.

L’altro collante, secondo Eichengreen, è l’importanza geopolitica dell’appartenenza all’Europa, soprattutto in un momento in cui gli USA mettono in dubbio la Nato.

Infine Eichengreen rivendica la previsione del 2007, quando quasi in solitaria sostenne che l’euro non sarebbe imploso.  Un bel record rispetto a quanti da anni ci ripetono che l’euro è lì lì per collassare:

“In un articolo del 2007 ho fatto una scommessa, e cioè che l’euro, sebbene imperfetto, non sarebbe scomparso. Ho sostenuto che è una valuta trappola. Come l’Hotel California della canzone: puoi entrare, ma non puoi andartene. Per 10 anni ho avuto ragione. A dire il vero, le performance passate non sono garanzia di rendimenti futuri, come sa qualsiasi investitore prudente. Tuttavia […] continuo a pensare che quello di scommettere sulla rottura dell’euro è un cattivo consiglio.”

Insomma, forse è il caso di smetterla di parlare di uscita in segreto il venerdì notte e incominciare a parlare seriamente di come riformare la moneta unica.

Fonte: Don’t Sell the Euro Short. It’s Here to Stay.

22 commenti su ““Le notizie sulla morte dell’euro sono fortemente esagerate”

  1. C’è un errore di fondo nelle considerazioni pubblicate: il saldo di Target 2 riguarda la Banca Centrale e di conseguenza il sistema bancario del Paese e non l’Italia come Stato.Queste istituzioni , al di la dei nomi assegnati, sono private, la stessa Banca Centrale è una società per azioni partecipata da soci privati.Il sistema bancario come vediamo in questi giorni si trova in ogni caso in situazioni fallimentari, per effetto che crediti suoi che diventano in misura sempre maggiori inesigibili. La necessaria trattativa che dovrà essere fatta deve prendere in esame anche da parte del creditore modi e tempi di recupero crediti nei confronti del sistema bancario italiano, oggi privato. La cervellotica gabbia fino ad oggi costruita, con irresponsabile collaborazione di molte autorità italiane, prevede che lo Stato non possa aiutare il sistema bancario ma debba pagare a BCE i debiti che questo ha fatto.Chi commette una truffa, e quindi un reato, non dovrebbe essere punito?

    • Tra l’altro, mi pare che se il saldo Target 2 rappresentasse un debito dello stato italiano – come sembra sostenere Draghi – esso dovrebbe essere conteggiato nel debito pubblico, cosa che non mi risulta.

      Noto che l’argomento principe contro l’uscita dall’euro è quello dei rilevanti costi economici.
      A parte che non si fa mai accenno ai costi per restare (pregressi e futuri), vedo con soddisfazione che perlomeno si è rinunciato alla narrazione delle magnifiche sorti e progressive della moneta unica…

      • Fregnacce dette e ridette, smontate e rismontate; le banche private e la banca centrale del paese condividono lo stesso destino, perchè se c’è un bank run, ci rimettono tutti o quasi i cittadini del Paese. E’ un dettaglio stabilire chi è debitore dei saldi target 2 tra le varie banche italiane o la banca d’italia (che fin quando saremo nell’euro è parte integrante della Bce, insieme alle altre banche centrali europee), il punto è che i conti delle banche presso la bce (si anche le banche hanno i loro cc e indovinate chi è la banca che li custodisce?spoiler: non tengono la cassa sotto il materasso)verrebbero immediatamente bloccati in primis. Anzi in secundis. In primis accade che i PATRIOTI italiani andrebbero di corsa a svuotare i LORO cc in caso di ritorno alla lira per conservare il valore dei loro euro, così come han fatto i PATRIOTI greci durante tutta la trattativa di Trippas due anni fa e le banche si troverebbero immediatamente costrette a chiedere liquidità, indovinate a chi? Spoiler: a chi può stampare euro, la stessa che inondò le banche greche di liquidità in quel frangente, per poi chiudere giustamente i rubinetti appena Trippas annunciò di voler fare il Referendum, perchè si il popolo è sovrano, ma il correntista lo è ancora di più!
        Ed ora tornate pure a sniffare la roba che vi danno nei blog di qualche pseudo economista fallito…buon viaggio

    • Né la BCE né la Banca d’Italia sono private. La prima è un ente di diritto internazionale, la seconda è un ente di diritto pubblico. Lei è pregato di non diffondere la sua ignoranza su questo blog.

      • Però non mi pare che la status di ente di diritto pubblico escluda di essere posseduto da privati, come in effetti succede a Bankitalia (salvo per una quota marginale INPS e INAIL).
        Lo stesso per quanto riguarda lo status di ente di diritto internazionale, che tra l’altro garantisce alla BCE immunità e inviolabilità da azioni legali (e forse non solo alla BCE, essendo Bankitalia parte del SEBC).
        Il punto è che si tratta istituzioni perfettamente indipendenti dagli stati, quindi la domanda sulla ragione per la quale uno stato dovrebbe subentrare nei rapporti di debito/credito (ammesso che siano tali, l’unanimità in merito non c’è) fra due soggetti terzi non sembra del tutto peregrina.

      • La Banca d’Italia non è un ente di di diritto pubblico, ma di Interesse pubblico, che è cosa totalmente diversa, come la BCE. Del resto, per essere un ente di diritto pubblico il capitale azionario deve necessariamente appartenere al 100% allo stato, mentre lo stato italiano detiene nella Banca d’Italia solo un misero 5%.Idem per la BCE, dove capitale è quasi totalmente privato, con presenze di banche Usa e Britanniche!

      • @Roberto Mario: dalla risposta è chiaro lei non sa neppure cos’è un ente di diritto pubblico e tantomeno conosce l’assetto della BCE.

  2. Ha perfettamente ragione Mauro Poggi. Giuridicamente esiste l’esercizio privato di pubbliche funzioni. Come nel caso, ad esempio, delle concessioni (non appalti, attenzione!) di pubblico servizio. Quindi è giusto affermare che la Banca d’Italia è a capitale privato benché chiamata ad esercitare una funzione pubblica. Ed è esattamente questo l’assurdo che co-determina la rinuncia da parte dello Stato alla sua sovranità monetaria. Quel che mi meraviglia è che un sito non mainstream come keynesblog si dimostri poi così ossequiente a luoghi comuni. Come anche l’arrendevolezza rispetto alla costruzione eurocratica. Se, quindi, non è possibile uscire dall’euro, per i supposti motivi sopra addotti, cosa rimane? La riforma della moneta unica? Ma credete davvero che la Germania lo consentirà? Saverio Vertone ha osservato che mediante l’euro tutti si aspettavano una Germania europea ed invece abbiamo avuto un’Europa tedesca. La Germania dopo averci provato con i cannoni per due volte è riuscita a diventare il dominus continentale con la moneta unica. La Germania è un nazione che, per cultura e potenza economica, ha una naturale disposizione alla leadership. Ma ha un grave problema. Non è votata ad una visione “cattolica” ossia universale e per essa, che sia quella di Hitler o quella democratica attuale, resta valido il “Deutsche uber alles”. Essa non riesce a concepire rapporti con i vicini che non siano quelli della sua egemonia e del vassallaggio altrui. D’altronde, che l’eventuale realizzazione dell’Europa politica sia sufficiente a risolvere i problemi dell’asimmetria tra le nazioni europee è tutto da dimostrare. Abbiamo, di contro, un esempio storico. L’unificazione, manu militari, della nostra penisola, nel XIX secolo, significò anche introduzione della lira quale moneta unica nazionale e colonizzazione economica delle regioni meridionali da parte del capitale bancario ed industriale del nord. Ora, nonostante l’impegno ormai centocinquantennale per riallineare il divario nord-sud, questo non solo non è diminuito ma, comparativamente, è cresciuto. Ora, vista la situazione creata dall’unificazione monetaria, cosa dobbiamo fare? Accettare una secolare subordinazione dell’Europa del sud all’Europa del nord – alla quale ormai occhieggia anche la Merkel con la sua Europa a due velocità – che neanche gli Stati Uniti d’Europa potranno superare del tutto (negli Stati Uniti d’America il divario tra Stati federati è molto forte nonostante i trasferimenti del bilancio unico federale e questo alimenta da tempo tendenze secessioniste) oppure spararci? Sembra che per keynesblog non vi siano altre alternative, sicché alla lunga potrebbe pure profilarsi un suicidio collettivo.

    Luigi

    • La banca d’Italia nasce dalla fusione di 4 istituti di credito alla fine del 1800; col tempo le vengono conferiti i poteri che conosciamo oggi, vien fatta la legge bancaria nel 1936 con la quale diventa un istituto pubblico. La proprietà dell’istituto appartiene sempre alle stesse banche che nel frattempo cambiano denomicazione, forma sociale, si dividono, si riuniscono ecc…ma tali banche erano sempre sotto il controllo dello Stato, cioè il tesoro le possedeva. Quando c’è stata la privatizzazione degli istituti di credito poi, nessuno ha pensato a togliere le azioni dell’istituto a tali banche, probabilmente perchè così il tesoro avrebbe incassato di più e de facto le banche private non possono decidere alcunchè all’interno di Banca d’Italia per legge e nemmeno possono stabilire la politica di distribuzione dei dividendi. E’ quindi un “possesso” formale, non sostanziale. Ora lo stato potrebbe anche ricomprasi le quote di Banca d’Italia e infatti se non ricordo male Berlusconi fece una legge in tal senso, ma non se ne fece più nulla perchè sarebbe stato un inutile esborso per lo Stato, anche perchè nel frattempo Banca d’Italia era diventata de facto una istituzione sempre più inutile visto che ormai c’è la BCE. Addirittura il figlioccio di Berlusconi, tale Matteo da Rignano, detto “Il Bomba” riuscì ad estorcere alle banche “possessrici” di Banca d’Italia persino una tassa senza ne capo ne coda, pretendendo una sorta di capital gain (che lo stesso Bomba aveva appena provveduto ad alzare) su una rivalutazione delle quote di Banca d’Italia nei bilanci delle stesse, cosa assurda perchè il capital gain si paga al realizzo, come tutti sanno o dovrebbero sapere. Assurda anche perchè il legislatore dovrebbe disincentivare la pratica di gonfiare i bilanci, non spingere per consentirli, per poi riscuoterne una sorta di pizzo.
      Ma questi sono gli amministratori che ci meritiamo evidentemente e sospetto a questo punto che ci meritiamo anche il fatto che dopo 150 anni siamo ancora calpesti, derisi e divisi tra sud, centro, nord e nordissimo (i Bolzanini che ci schifano peggio dei ratti!). Noto infatti che quelli schifosi dei crucchi erano divisi anche peggio di noi all’indomani della caduta del muro di Berlino, ma che dopo una decina d’anni tutte ste differenze già non si vedevano più. Sarà anche per la diversa “statura” della LORO classe dirigente? Mah saperlo, io comunque nel dubbio continuerei a preferire idealmente che ci governasse un luogotenente tedesco piuttosto che i Grilli, i Berlusconi, i Renzi e i Salvini di casa nostra. Ma questa è una mia opinione.
      Cio’ che invece dice KeynesBlog è che con opportune modifiche ai trattati europei (sostanzialmente ombrello della Bce a tutto il debito pubblico e fine della stupida regola del 3%) la maggior parte dei nostri problemi di finanza pubblica sarebbero risolti. Chi dice che è impossibile che ci concedano tanto a mio avviso o è vissuto su Marte negli ultimi 5 anni (dal Whatever it takes in poi diciamo) o è in malafede.
      Certo resterebbe poi sempre il problema della nostra classe dirigente autoctona, che rimarrebbe cialtrona e inaffidabile, ma di quest’altra cosa la vedo difficile poter incompare i crucchi, o no?

    • “Giuridicamente esiste l’esercizio privato di pubbliche funzioni. Come nel caso, ad esempio, delle concessioni (non appalti, attenzione!) di pubblico servizio”

      Ma non è il caso della Banca d’Italia. La Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico, istituito con legge dello stato, come è scritto anche nel primo articolo del suo statuto.

  3. X Roberto Mario: cambia spacciatore (di minkionerie)

  4. “le banche private non possono decidere alcunchè all’interno di Banca d’Italia per legge e nemmeno possono stabilire la politica di distribuzione dei dividendi”

    Se così fosse, e non è, saremmo di fronte ad una palese violazione del vigente diritto societario con riflessi evidenti di ordine costituzionale. Una violazione del dettato costituzionale che le banche private potrebbero far dichiarare dalla Corte Costituzionale in ogni momento.

    A quel punto, violazione per violazione, lo Stato potrebbe anche espropriare senza alcun indenizzo le quote azionarie del capitale della Banca d’Italia possedute dalle banche private.

    Ma in ogni caso, al di là di tutto questo, resta il fatto che la nomina del governatore della Banca d’Italia, pur soggetta a ratifica formale del Presidente della Repubblica, è decisa in seno all’assemblea dei “partecipanti” ossia dei soci privati. Il che non è cosa di poco conto ai fini della dipendenza decisionale. Insomma è la consorteria che se la suona e se la canta, con l’assenso della nostra classe dirigente.

    Certo, è vero che ora l’istituto che conta è la Bce, dove però lo schema privatista si ripete in analogia.

    Grazie per averci raccontato la – a tutti ben nota – storia della nascita della Banca d’Italia. Ma avresti potuto anche aggiungere che, all’epoca della sua “pubblicizzazione”, uno Stato, certo autoritario ma evidentemente con una infrastruttura tecnica apolitica e molto competente, nazionalizzò l’Istituto di Emissione proprio per sottrarlo ad influenze private al servizio della speculazione. Contemporaneamente Alberto Beneduce (che era un competente tecnico antifascista al quale Mussolini aveva comunque dato ogni potere per la riforma della struttura dell’economia italiana) inventò l’IRI che, se da un lato salvò l’apparato industriale nazionale colpito dalla crisi del ’29, per la gioia degli stessi industriali, dall’altro, contrariamente all’ipotesi iniziale, non restituì al mercato le industrie irizzate, così ponendo le basi del successivo decollo della nostra economia nel dopoguerra. Forse Beneduce non aveva letto il “Trattato” di Keynes ma certamente praticò una politica interventista che lo stesso economista inglese non avrebbe giudicato negativamente.

    L’intero impianto dirigista e pubblicista della nostra economia, creato in quei frangenti storici, fu poi destrutturato nel 1992 a partire dall’incontro, sul panfilo Britannia, a largo di Civitavecchia, tra i rappresentanti di Goldman Sach e delle altre grandi banche d’affari anglo-statunitensi con i rappresentanti dei dicasteri ministeriali italiani. Incontro durante il quale fu programmata la prima privatizzazione del nostro patrimonio industriale pubblico, che il governo Amato, approfittando dell’attacco speculativo alla lira in corso in quell’anno, poi realizzò senza alcuna vera resistenza politica, salvo quella minoritaria ed irrilevante di alcune frange alle estreme sia di destra che di sinistra.

    A rappresentare il Tesoro in quell’incontro c’era un giovane preparato dirigente statale, tal Mario Draghi, il quale guardacaso subito dopo iniziò la sua fulgida carriera che lo avrebbe portato a ruoli di primo piano in Goldman Sach Europa, Banca d’Italia ed infine Bce.

    Esiste dunque una consorteria che controlla istituzioni che dovrebbero essere sostanzialmente e non solo formalmente pubbliche, oppure no?

    Luigi

    • Certo che siete de coccio:

      “La banca (d’Italia) segue regole di funzionamento differenti da quelle di una normale società per azioni, come si evince anche dallo statuto, che assegna ai soci un numero di voti non proporzionale alle azioni possedute (limitando i voti dei soci maggiori). Come gli enti pubblici, la Banca Centrale persegue fini di pubblica utilità e gode del rapporto di sovraordinazione degli enti statali sui soggetti privati, fra i quali vige invece un rapporto di equiordinazione (secondo il diritto privato). Questo status rende le decisioni dell’istituto vincolanti per le banche, e nel contempo afferma che le attività di vigilanza e la regolazione dell’offerta di moneta avvengono nell’interesse economico generale, che può differire da quello dei soci proprietari. Lo status giuridico di ente pubblico esclude la possibilità di fallimento della Banca d’Italia e, tramite il suo intervento nei casi di crisi, fino al 2015 vi era anche la pratica impossibilità di fallimento delle banche private, garantendo la stabilità dell’intero sistema bancario italiano.”

      “Nel 2008 ha realizzato un utile lordo di 502.939.255 euro, sulla base del quale ha pagato allo Stato 327.727.564 euro di imposte sui redditi (pari a circa il 65,16% dell’utile lordo), realizzando così un utile netto di esercizio di 175.211.691 euro[17]. Ha versato poi al Tesoro, a titolo di ripartizione dell’utile al netto di imposte, la somma di 105.111.415 euro (pari a circa il 59,99% dell’utile netto).[18] Ai rimanenti 70.100.276 euro è stata sottratta la somma di 35.042.338 euro destinata a riserva ordinaria e un’uguale cifra accantonata a riserva straordinaria. I restanti 15.600 euro sono stati sommati a 58.788.000 euro – a norma dell’art. 40 dello Statuto della Banca d’Italia, lo 0,50% “a valere sul fruttato” delle riserve, ordinaria e straordinaria, che al 31 dicembre 2007 erano di 11.757.789.000 euro[19] – per un totale di 58.803.600 euro (196,012 euro per ogni quota di partecipazione) da ripartirsi fra i partecipanti diversi dallo Stato.”

      Ma perchè invece di farvi infinocchiare da sedicenti economisti e politicanti stracotti e credere acriticamente a tutte le balle che vi raccontano, non fate un minimo di fact checking? Non è complicato basta Wikipedia pensa te…
      che poi trattate voi stessi come dei perfetti cretini andando ad immaginare ovunque complotti, consorterie, ad inventarvi norme, improvvisarvi avvocati di Diritto Societario quando basterebbe spendere un ventesimo del tempo che impiegate nelle inutili attività appena elencate per fare un po’ di sano fact-checking

  5. A coloro che guardano la pagliuzza nell’occhio altrui ma non la trave nel proprio (ossia a chi si lascia trattare da imbecille mentre ammonisce il prossimo di non lasciarsi trattare da cretino) si deve rispondere per le rime e dati alla mano, propongo qui e nei successivi post un po’ di utile materiale per far riflettere i detentori di travi oculari.

    La Banca D’Italia, ovvero, il secondo tragico Fantozzi e la corazzata Potemkin
    di Paolo Franceschetti
    Editoriale del n° 7/8 luglio/agosto 2007 del supplemento mensile AltalexMese
    http://www.altalexmese.it
    Il supplemento di Altalex per aggiornarsi in poco tempo e capire la giurispudenza
    Consulta l’indice dell’ultimo numero e scopri come abbonarti
    ________________________________________
    Una delle scene più esilaranti di tutto il cinema comico italiano, a mio parere, è quella della corazzata Potemkin tratta dal secondo tragico Fantozzi.

    Il potentissimo professor Guidobaldo Maria Riccardelli era un fanatico cultore del cinema d’arte. Una volta alla settimana obbligava dipendenti e famiglie a terrificanti visioni dei classici del cinema. In vent’anni Fantozzi ha veduto e riveduto: “Dies irae” di Carlo Teodoro Dreyer, 6 ore; “L’uomo di Aran” di Flaherty, 9 tempi; ma soprattutto il più classico dei classici, “La corazzata Potëmkin”, 18 bobine, per un numero imprecisato di ore, di cui il professor Riccardelli possedeva una rarissima copia personale. (1)

    Il giorno della partita Italia Inghilterra Fantozzi si sta sedendo in poltrona con frittata, birra e rutto libero per godersi lo spettacolo, ma riceve una telefonata dal direttore: quella sera i dipendenti della ditta furono costretti ad andare a vedere il film la corazzata Potemkin.

    Dopo la visione del noiosissimo film scatta il dibattito…. Il geometra Filini fa un cauto commento sulle emozioni provate nel guardare la carrozzina che scende dalle scale; altri fanno altri commenti di lode. Ma l’aver costretto i dipendenti a perdere la partita è la classica goccia che fa traboccare il vaso; Fantozzi non ne può più di tanta ipocrisia e sale sul palco per dire la sua: “La corazzata Potemkin è una XXXXXX pazzesca”.

    Seguirono 92 minuti di applausi.
    Cosa c’entra il film di Fantozzi con la Banca d’Italia lo vedremo fra poco.
    *****
    In questo numero si riassume una delle tante sentenze sugli affidamenti in house. Il CDS ha ribadito ancora una volta, sulla scorta delle direttive Europee, che un ente pubblico locale che deve affidare dei servizi ad una ditta esterna lo può fare, purchè mantenga una quota di controllo. In particolare ha stabilito che

    1) l’amministrazione deve esercitare sul soggetto un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;

    2) il soggetto deve svolgere la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza.

    La sentenza ribadisce un principio di diritto giusto, cioè che un servizio pubblico, se è tale, non può essere affidato indiscriminatamente a privati.
    In questi giorni però sto preparando la terza edizione del mio manuale di diritto amministrativo e approfondendo la questione della natura giuridica della Banca d’Italia i conti non mi tornano.

    Se nelle prime due edizioni scrivevo infatti che la Banca d’Italia è un ente pubblico (e del resto la natura pubblica dell’ente è stata ribadita anche dalla Cassazione nel 2006), pur essendo privatizzato, perché ha un fine pubblico e un sistema di controlli pubblici, ultimamente mi sono ricreduto. Il 95 per cento delle azioni è infatti in mano alle banche private. (2)

    Questo significa che gli utili della Banca vanno a soggetti privati. Quel che è peggio, significa che la Banca D’Italia, che dovrebbe vigilare sulle banche, è in mano agli stessi vigilati. Un po’ come mettere Riina a capo della Procura di Palermo.

    Vado a controllare meglio la legge e, dopo parecchio tempo, riesco a capirci qualcosa; solo una percentuale di tali guadagni va allo stato… (3)
    A me pare assurdo lo stesso, nel senso che, anche nella assurda ipotesi che per legge allo stato fosse destinato il 90 per cento degli utili, mi pare senza senso che il funzionamento di una Banca centrale sia affidato a soggetti privati. E stiamo parlando di soggetti privati che sono “banche”, non opere pie di beneficenza, o associazioni come l’Azione Cattolica.

    Va bè, penso… ma perlomeno ci sarà un meccanismo di controllo da parte dello stato. Ad esempio, la nomina e la revoca del Governatore sarà controllata dallo Stato. Invece no. L’articolo 17 dello Statuto della Banca d’Italia dice che prima della nomina o della revoca da parte del Presidente del consiglio deve esserci il parere del Consiglio Superiore della Banca d’Italia. Per la verità la norma non chiarisce se tale parere sia vincolante o meno; in realtà c’è solo una frase sibillina, che dice che tale parere è rilasciato “ai fini della deliberazione del Consiglio dei Ministri”. Embè, mi domando… ma cosa significa “ai fini”? E’ vincolante o no…?

    Su un articolo di una rivista giuridica apprendo che il parere è vincolante, ma “la correttezza della decisione è assicurata dal meccanismo della collegialità del parere”.
    Per chiarirmi le idee e approfondire il sistema dei controlli prendo un saggio istituzionale sulla Banca D’Italia, e leggo che “ le leggi contemplano apparati di autorità di volta in volta diversi e con attribuzioni specifiche ed esclusive impostati su schemi di collaborazione e di coordinamento di attività previsti e disciplinati rigorosamente dalla legge”.

    Tanto valeva che l’autore scrivesse “scusate, ma il sistema dei controlli non lo conosco perché mi scoccia prendermi la briga di leggerlo”.

    Invece sul Trattato di diritto amministrativo di Sabino Cassese l’autore ha le idee più chiare. Scrive infatti che “esiste un principio generale di autonomia nella fissazione dei modi (generali e specifici) di raggiungimento dei fini assegnati alla Banca nell’ordinamento del credito. In altre parole, viene conferito alla Banca il potere di autolimitarsi, predeterminando non solo i criteri di massima, ma anche i principi e le linee guida di indirizzo della propria attività”. Come dire: la Banca d’Italia, e per essa i suoi azionisti, il Banco San Paolo, Banca Intesa, le Assicurazioni Generali, ecc. fanno quello che gli pare; eh già, perché hanno “il potere di autolimitarsi”. Un termine giuridico, apparentemente innocuo, che è l’equivalente dell’espressione gergale “fanno quello che gli pare”.

    Ma la parte inquietante viene quando mi accorgo che la politica monetaria è comunque segreta, perché il D.M. 13 ottobre 1995, n. 561, articolo 2 ha messo il segreto su tutti gli atti di politica economica e monetaria della Banca d’Italia.

    Leggo qua e là, per scoprire ancora che gli azionisti della Banca d’Italia sono stati resi noti al pubblico solo nel 2005, dopo che se ne occupò il settimanale “Famiglia Cristiana”. Perché prima essi erano “riservati”.

    In effetti, né il Digesto delle discipline pubblicistiche, né il Trattato di diritto amministrativo di Sabino Cassese, né altri testi, citano gli azionisti della Banca d’Italia dicendo quale sia la compagine sociale effettiva.
    Mi pare assurdo.

    Allora chiamo una persona a me molto cara. Non posso definirlo un amico, data la distanza di età che ci separa, ma è stata la persona che nel corso della sua vita mi ha dato i consigli migliori. E’ docente universitario, e abbastanza saggio da avermi sempre dato i consigli giusti per la pubblicazione di manuali, per affrontare i concorsi universitari ecc. Espongo il problema a questa persona, ritenendo contraddittorio che l’affidamento di un piccolo servizio come quello di un porto turistico debba essere soggetto a determinate garanzie, e tali garanzie svaniscano totalmente quando il servizio che l’ente privato deve garantire è addirittura il servizio dell’emissione della moneta, cioè uno dei servizi assolutamente essenziali e indisponibili da parte di uno stato che voglia dirsi tale.
    Il mio amico – più grande di me e senz’altro più esperto di me – ha risposto: Paolo, scusa ma di che ti meravigli? Caro ragazzo, si vede che sei ancora giovane e ingenuo…. Ancora devi capire a fondo il sistema…

    Guarda l’articolo 2621 del codice civile. Punisce con una pena FINO a due anni di reclusione chi commette reato di falso in bilancio (cioè in teoria potrebbe essere anche punito con un giorno). E considera in ogni caso non punibile tale reato, se la somma rubata non supera il dieci per cento. Che è come dire: Se tu hai una società con un capitale di 1000 milioni di euro, puoi rubare fino a 100 milioni. Se la somma è superiore però stai attento, cattivello, perché ti potremmo anche punire (se non scatta la prescrizione) con una pena terribile di qualche giorno di reclusione con la condizionale.

    Io mi sono arrabbiato e gli ho detto: “ma scusa che c’entra questa norma? Sto parlando di un’altra cosa”.

    Fammi finire giovane ed irruento ragazzo… – ha detto il mio amico – Ora vai a guardare la norma che punisce il furto. Per l’articolo 624 bis chi è entrato in casa tua e ti ha rubato qualche tempo fa il videoregistratore con tutti i dvd di Allie McBeal si becca almeno un anno, e fino a sei anni. Mentre quello che ti ha rubato il portafoglio dalla tasca, essendo furto con destrezza, si beccherà almeno un anno, anche se nel portafoglio non c’era nulla, tranne una tessera bancomat che hai bloccato qualche minuto dopo.

    Insomma, rubare 100 milioni di euro non è reato. Rubarti la collezione di DVD o un portafoglio vuoto lo è sicuramente.

    Bene, il criterio è lo stesso. Il comune che deve dare in appalto un porto turistico deve seguire certe regole precise, e questo è giusto. Se lo stato deve affidare a privati il servizio di emissione della moneta e il controllo dei mercati bancari, lo fa a chi gli pare, dandolo senza nessun controllo.

    Ma questo è assurdo, dico io. Anche perché tutti i manuali dicono pacificamente che è un ente pubblico e lo dice pure la Cassazione nel 2006. Perché non lo dice nessuno?

    Per tre ragioni Paolo. Primo perché non fa comodo dare troppa pubblicità alla cosa. Figurati che fino al 2004 la compagine azionaria della Banca non era neanche resa pubblica.

    Secondo, perché la questione è complessa e occuparsene non è semplice.

    Terzo perché chi scrive manuali di diritto amministrativo, come te, si fa fuorviare da quello che scrive la cultura giuridica dominante e quindi è complice inconsapevole di un sistema di disinformazione.
    Insomma, nella terza edizione del mio manuale correggerò questo “particolare”.

    Per ora, trattandosi di un editoriale, posso scrivere in libertà quello che penso sulla natura giuridica di questo ente, senza troppi condizionamenti. Dopo approfonditi studi e dopo aver fatto accurate ricerche di diritto comparato, direi che una lettura costituzionalmente orientata della normativa che regola la Banca centrale può portare ad affermare che:

    la composizione della Banca d’Italia è una “illegittimità costituzionale” pazzesca.
    Proposta finale de iure condendo

    Re melius perpensa, ho il dovere di fare un discorso oggettivo su questo potere di autolimitarsi delle banche. In fin dei conti non è giusto trarre conclusioni affrettate e sospettare che tale potere venga mal utilizzato per perseguire i propri fini, anziché quelli pubblici.

    Allora, da buon giurista, mi sono domandato quale sia la ratio di una siffatta normativa e ho telefonato al mio amico di cui sopra.

    E’ presto detto.

    La ratio sta nella presunzione di legittimità del comportamento della banche. E nell’esigenza di semplificazione del sistema dei controlli, che dando alla stessa banca il potere di autolimitarsi, snellisce le procedure statali al riguardo, esonerando lo Stato dal gravoso compito di controllare, ispezionare, verificare, sanzionare, ecc.

    D’altronde un modulo organizzativo e legislativo analogo è stato applicato al parlamento, ove grazie al meccanismo delle immunità e del divieto di intercettazione, la magistratura non ha più alcun controllo sui singoli parlamentari, e quindi la legalità del comportamento dei deputati e senatori è garantita, appunto, da questo potere di autolimitarsi, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: 24 parlamentari condannati in via definitiva che continuano a promulgare leggi che loro stessi violano; decine di avvocati legati direttamente o indirettamente a chi sta al potere, che legiferano su materie di interesse dei loro assistiti; la maggior parte dei cittadini che fatica ad arrivare a fine mese, ma il parlamento si autoaumenta lo stipendio pro capite; si discute di pensioni, di età pensionabile, ecc., ma il parlamentare va in pensione dopo due anni e mezzo; e così via.

    Il che suggerisce un modello organizzativo alternativo, de iure condendo, da applicare a tutti gli enti, e, al fine di non violare il principio di parità previsto dall’articolo 3 della Costituzione, anche a tutti i cittadini.

    Per gli enti pubblici, dovrebbe valere una regola analoga a quella della Banca d’Italia. Totale indipendenza.

    Quanto ai cittadini, si potrebbe abolire la galera, e abolire i controlli di polizia sui cittadini, dando a ciascuno il “potere di autolimitarsi”.

    Lo stato risparmierebbe miliardi. I poliziotti non rischierebbero più la vita sulle strade. E i cittadini sarebbero maggiormente responsabilizzati nella vita pubblica.

    Per i casi più complessi, come quelli di mafia, in cui c’è il sospetto che il cittadino colpevole di un reato non prenda con troppa imparzialità la decisione di autoarrestarsi è quanto meno opportuno inserire un piccolo correttivo: per l’arresto, occorrerà il parere vincolante della famiglia dell’arrestando, ove l’imparzialità della decisione sarà assicurata dalla collegialità della pronuncia.

    Finalmente, con questo sistema, si potrà dare piena attuazione al principio di parità di cui all’articolo 3 della Costituzione, parificando ogni soggetto, pubblico o privato, ad un medesimo regime giuridico, e sottoponendolo allo stesso modulo organizzativo della Banca d’Italia (e del parlamento) dando a ciascuno “il potere di autolimitarsi, predeterminando non solo i criteri di massima, ma anche i principi e le linee guida di indirizzo della propria attività”.
    __________________
    (1) In realtà il titolo citato nel film è stato cambiato rispetto a quello reale in un più ironico “La corazzata Kotiomkin”; il film vero, La corazzata Potëmkin (1925), non dura un numero infinito di ore, come sostiene Paolo Villaggio nel film, ma ha una normale durata attorno ai 70 minuti, se non ricordo male.
    (2) Per la precisione la compagine sociale della banca centrale è la seguente:
    Gruppo Intesa (27,2%),
    BNL (2,83%),
    Gruppo San Paolo (17,23%)
    Monte dei Paschi di Siena (2,50%),
    Gruppo Capitalia (11,15%)
    Gruppo La Fondiaria (2%)
    Gruppo Unicredito (10,97%)
    Gruppo Premafin (2%)
    Assicurazioni Generali (6,33%)
    Cassa di Risparmio di Firenze (1,85%)
    INPS (5%)
    RAS (1,33%)
    Banca Carige (3,96%)
    Privati (5,65%)
    (3) Per la precisione, fino al 20 per cento degli utili può essere accantonato a riserve. Un altro 20 per cento può essere destinato a riserve speciali. La restante somma viene devoluta allo stato (Articolo 39 dello statuto).

    Luigi

  6. Qui è spiegato perché a seguito della privatizzazione negli anni ’90 delle banche partecipanti al capitale della Banca d’Italia – che in precedenza erano, dal 1936, tutte a capitale pubblico sicché pubblica era anche la Banca centrale – l’Istituto di Emissione è diventato un soggetto privato benché investito di funzioni pubbliche. Essendo stata ora la sovranità monetaria trasferita alla BCE, la privatizzazione della Banca d’Italia ha creato un conflitto di interessi per quanto riguarda la sua residua funzione di vigilanza sulle banche private, che ne sono i soci costituenti. Nel 2005 si tentò, con operazione analoga a quella della pubblicizzazione del 1936 con estromissione dei privati, di risolvere detto conflitto di interessi, ma le banche private hanno opposto un preteso diritto alla ricapitalizzazione delle loro quote prima di cederle con il chiaro intento di evitare l’emanazione del regolamento attuattivo della legge (autore Tremonti) che aveva deciso la nuova pubblicizzazione di Bankitalia. Che infatti non fu mai emanato. I possessori di travi oculari leggano ed imparino. Luigi.

    Autonomia in dipendenza della Banca d’Italia? 1
    1 Il presente saggio è in corso di pubblicazione nel liber amicorum in ricordo di Pier Alberto Capotosti
    ( di GIUSEPPE DI GASPARE )
    … omissis …

    2. Dall’estromissione dei soci bancari privatizzati nella legge 262/ 2005 alla ricapitalizzazione delle loro quote nella legge 5/2014.
    Così, di fronte a questa urgenza finanziaria, è rimasto in un cono d’ombra il quesito se, per effetto della ricapitalizzazione, la partecipazione di banche private vigilate al suo capitale potesse condizionare l’indipendenza d’azione della Banca vigilante nei loro confronti. L’interrogativo ha una sua effettiva ragione d’essere ove si pensi che, proprio per evitare quel rischio di conflitto di interessi, con la legge organica sulla tutela del risparmio e dei mercati finanziari n. 262 del 2005, ci si era mossi in altra direzione. Proprio per garantire l’indipendenza della Banca d’Italia si era prevista infatti l’estromissione delle banche privatizzate e la loro sostituzione nella compagine sociale con enti pubblici istituzionali e con lo Stato. La mancata attuazione della norma, anzi il suo ribaltamento – dalla estromissione alla salvaguardia e alla ricapitalizzazione dei soci privati – è stato invece motivato dalla continuità della risalente struttura privatistica della Banca. Dal che sarebbe derivato una specie di diritto degli azionisti sul patrimonio – o per meglio dire – sugli incrementi patrimoniali nel frattempo realizzatisi. In questa logica, dalla partecipazione societaria sarebbe derivata un’aspettativa giuridicamente tutelata al beneficio, prima 3
    o poi desumibile, del necessario adeguamento del capitale e, quindi del valore delle loro quote, all’effettiva consistenza patrimoniale della Banca d’Italia. Insomma, l’estromissione prevista dalla legge 262/2005 avrebbe fatto sorgere il problema della liquidazione e del calcolo dell’effettiva rivalutazione delle quote di spettanza dei soci privati; problematica dalla quale, in ultima analisi e di rimando, sarebbe fuoriuscita la soluzione della ricapitalizzazione e della valorizzazione delle quote di partecipazione degli azionisti che sarebbe, nella sostanza, un atto dovuto.
    In questa linea ricostruttiva delle vicende della Banca d’Italia, la ricapitalizzazione non sarebbe altro che il precipitato attuale della sua originaria configurazione societaria dato che.. per ragioni storiche che risalgono agli anni Trenta del secolo scorso, la Banca d’Italia già aveva una forma giuridica associativa che ricordava quella di una società per azioni (Conseguenze per la Banca d’Italia della legge 29 gennaio . https://www.bancaditalia.it/media/../QuoteIncontroStampa_030214.pdf)
    In verità, la spiegazione ufficiale non arriva alla piena identificazione della forma giuridica associativa della Banca d’Italia a quella di una società per azioni. C’è piuttosto un accostamento “Una forma giuridica associativa che ricordava quella di una società per azioni”. Una vicinanza, che al contempo è una lontananza – che autorizza a chiedersi in che senso ricordava o, per dire meglio, ricorda?
    Un quesito risalente ma ancora attuale, dato che, su quella supposta assimilazione, si è in definitiva fondata la pretesa/il diritto dei soci alla ricapitalizzazione e all’incremento del valore delle loro quote. Cerchiamo allora di risalire alla genesi della peculiare configurazione giuridica associativa della Banca d’Italia e, in particolare, alle ragioni sottese a quell’equilibrio pubblico/ privato formalizzato proprio nella legge bancaria e nello statuto del 1936.
    3. La struttura privatistica interna quale garanzia della indipendenza della Banca d’Italia nei confronti del Governo nella legge bancaria del 1936.
    Costituita come società di capitali “anonima” nel 1893, tramite la fusione della Banca nazionale con due banche toscane, la Banca d’Italia ha registrato, nei decenni successivi, una attrazione lineare nell’ambito di una disciplina di diritto pubblico. Nella misura in cui consolidava l’esclusiva dell’emissione monetaria e il privilegio della gestione del servizio di tesoreria per conto dello Stato, la Banca d’Italia riduceva simmetricamente l’operatività come banca di diritto comune, in competizione con le banche commerciali nell’esercizio del credito, fino a retrocedere definitivamente dal mercato bancario nel 1936. L’art 23 della legge bancaria del 1936, segna il punto di arrivo della parabola di pubblicizzazione, con il divieto definitivamente impostole di operare con la clientela privata. La pubblicizzazione della Banca è andata di pari passo, dunque, con l’attribuzione del monopolio dell’emissione monetaria e della direzione e controllo del sistema bancario a cui nel 1947 si aggiunge, a completamento, anche il trasferimento dal Ministero del Tesoro della vigilanza bancaria. Alla pubblicizzazione delle funzioni e dell’attività faceva, invece, da contrappunto in modo apparentemente contraddittorio, la conservazione dell’assetto interno privatistico, stabilmente basato sul capitale sociale della originaria società anonima per azioni, costituita nel 1893. Un dato stabile nel tempo. La struttura associativa è, in effetti, rimasta inalterata nella sua forma dal 1893 al 2014. Simmetricamente, anche il valore delle azioni era rimasto immutato fino a quella data. Unica rilevante modifica intervenuta nell’assetto associativo, in questo lasso di tempo più che secolare, era stato il cambiamento della compagine sociale nel 1936.
    Su questa continuità ha fatto leva la pretesa del riconoscimento di diritti legalmente protetti dei soci. E’ il caso, pertanto, di rimanere sul punto chiedendosi quale sia stata la ragione della conservazione, nel 1936 di tale assetto interno privatistico, apparentemente in contrasto con la trasformazione della Banca in ente pubblico. In altri termini, perché, nella legge bancaria del 1936, nonostante la pubblicizzazione e la creazione dell’ordinamento sezionale dei credito, l’istituzione posta al vertice 4
    del sistema non ha adottato la configurazione tipica dell’ ente pubblico, conservando invece una struttura associativa interna di diritto privato? Finora la questione non risulta essere stata mai apertamente indagata. Procediamo perciò per gradi. Lo statuto della Banca, approvato con d.r. 1067 del 1936, mantiene fermo l’originario capitale sociale di trecento milioni di lire, suddiviso in trecentomila quote di mille lire ciascuna. Il capitale e le quote rimangono quelle stabilite nell’atto costitutivo del 1893. Cambia invece la compagine sociale. I soci non sono più gli stessi. La modifica è effetto della legge bancaria del 1936, in base alla quale possono essere soci della Banca d’Italia solo le casse di risparmio, gli istituti di credito di diritto pubblico e le banche di interesse nazionale (quelle passate in mano pubblica dopo la crisi finanziaria del 1929). La nuova compagine societaria ha un tratto comune. Pur nella diversità delle tipologie giuridiche, i soci sono tutti pubblici o enti pubblici o istituti di diritto pubblico o società in mano pubblica. La continuità apparente dell’assetto associativo si accompagna alla discontinuità sostanziale della compagine associativa che assume ora una configurazione soggettiva pubblica. In conclusione, la legge bancaria e lo statuto del 1936 ci pongono di fronte ad una struttura societaria interna di diritto privato ma senza soci privati. Quale è il senso di questa operazione?
    Se lo scopo fosse stato solo quello della estromissione dei soci privati per sottrarre la Banca dalla loro influenza – come a prima vista verrebbe da pensare- sarebbe stato sufficiente, dopo avere estromessi i soci e liquidate le loro quote (come effettivamente allora fu fatto al valore nominale ) trasformare la Banca d’Italia in un ente pubblico istituzionale, in modo peraltro anche più coerente con la personalità giuridica di diritto pubblico, riconosciutale dalla legge bancaria. Perché si volle dunque conservare la strutturazione interna associativa sul modello societario, anche dopo la liquidazione dei soci effettivamente privati? La ragione più probabile è che la conservazione della organizzazione privatistica interna sia stata scelta, in alternativa alla soluzione integralmente pubblicistica, al fine di sottrarre la Banca d’Italia al controllo totalitario dell’indirizzo politico del Governo sulla politica monetaria. Impedire in soldoni – è proprio il caso di dirlo – che la Banca fosse indotta o obbligata a stampare moneta o ad acquistare titoli di stato su semplice richiesta dell’esecutivo. Una scelta volta ad ancorare rigidamente la banca emittente ad una logica di tutela del cambio della lira e dunque del risparmio. 4. Indipendenza come effetto della duplice sottrazione dall’ influenza del Governo e dall’assemblea dei soci nello statuto del 1936. In base alle norme statutarie, la dicotomia pubblico/privato nella configurazione giuridica interna della Banca d’Italia è in grado, in effetti, di salvaguardarne l’indipendenza non solo dall’influenza di interessi bancari privati – allora estromessi – ma, soprattutto, dal Governo. Il peculiare equilibrio, visto nel suo funzionamento, opera per duplice sottrazione. Nello statuto del 1936, gli organismi di vertice e il governatore sono sottratti al controllo e all’indirizzo societario da parte dell’assemblea dei soci, ma, al contempo, grazie proprio alla conservazione di un affievolito legame elettivo con l’assemblea, il direttorio e il consiglio superiore, cui spetta la designazione del governatore, sono sottratti all’indirizzo politico del Governo che così non può imporre per decreto la nomina dei loro componenti, come negli altri enti pubblici istituzionali.
    Il dosaggio difettivo di poteri, dunque, tra Governo e assemblea degli azionisti, schiude lo spazio per l’indipendenza del governatore e, conseguentemente, assicura l’effettiva autonomia della Banca d’Italia nell’esercizio delle funzioni ad essa attribuite dalla legge bancaria del 1936. Il punto di annichilimento delle opposte influenze è costituito dalla procedura di nomina del governatore. Sulla base dello statuto, la proposta è formalmente un atto di iniziativa degli organi interni della Banca, ma essa non giunge a compimento e non si perviene alla nomina senza l’ intervento del Governo. La delibera di conferimento dell’incarico di governatore, da parte del consiglio superiore della Banca, deve infatti essere approvata con D.R. (poi D.P.R.). La proposta di approvazione del decreto spetta al presidente del consiglio di concerto con il ministro delle finanze, previa approvazione in consiglio dei ministri. 5
    Un procedimento intersoggettivo complesso, interno ed esterno alla Banca, in cui il Governo aveva l’ultima parola (ma non la prima) e, pertanto, era tenuto a interloquire con il vertice della Banca. In pratica, il presidente del consiglio e il ministro delle finanze dovevano fare riferimento all’ indicazione del governatore uscente per la scelta del suo successore. Il governatore infatti, fino alla modifica apportata dalla legge sul risparmio n. 262 del 2005, durava in carica a tempo indeterminato e non poteva essere revocato dal Governo. Questo meccanismo ha funzionato sempre, nella prassi, senza dar luogo a contrasti, almeno apparenti. Stessa trafila anche per la revoca del governatore. Proprio su questo terreno si è avuta la controprova fattuale della tenuta garantista di tale procedura nell’assicurare l’indipendenza del governatore. Nel 2004, infatti, in occasione nella vicenda che contrappose l’allora governatore pro tempore al Governo, a fronte del rifiuto di quest’ultimo di dimettersi si è reso manifesto il garantismo della procedura interna, nell’impotenza del Governo di ottenerne direttamente o indirettamente la revoca. Gli organi interni, dai quali sarebbe potuta partire la proposta di revoca, non hanno dato seguito alle pressioni in tal senso del Governo. La vicenda, come è noto, si è chiusa con le dimissioni rese poi spontaneamente. Dal che il cambio di regime. Al fine di eliminare l’inciampo al potere politico, l’art 19 della legge n. 262 del 2005 ha trasformato la carica del governatore da tempo indeterminato a termine (comma 7°) rendendola altresì revocabile (nei casi di cui al comma 8°), attribuendo il potere di nomina e di revoca al Governo, con intervento della BCE nel caso di revoca. Fine dell’indipendenza della Banca d’Italia?
    Non proprio. Siamo infatti nel frattempo transitati in uno scenario operativo inedito, con il sistema monetario europeo e il trasferimento dell’esercizio della sovranità monetaria alla BCE.
    5. La pubblicizzazione della compagine sociale mediante estromissione dei scoi privatizzati nella legge 262/2005.
    In realtà, l’impianto della legge 262/2005, proprio in ragione della intervenuta devoluzione della sovranità monetaria, si limita a perseguire l’obiettivo di porre l’indipendenza degli organi della Banca d’Italia su nuove basi. Nella sostanza, il legislatore della 262 aveva in mente una riedizione dell’operazione del 1936, adattata al nuovo ordinamento del credito. Con l’avvento dell’euro, la politica monetaria era stata attribuita alla BCE. Al contempo i soci, in precedenza banche di interesse nazionale o in mano pubblica, erano stati formalmente e poi sostanzialmente privatizzati per effetto della legge 30 luglio 1990, n. 218. Agli inizi degli anni 2000, dunque, era venuta meno ogni possibilità di conflitto tra Banca d’Italia e Governo sulla politica monetaria ed, in questo senso, la nomina governativa dei suoi organi era ininfluente essendo la potestà di decidere la politica monetaria dell’eurozona rimessa alla BCE. La Banca d’Italia, invece, aveva conservato la vigilanza bancaria – al pari della altre banche del Sistema Monetario Europeo- che a questo punto si esercitava su banche privatizzate socie della stessa Banca d’Italia. Il punto critico dell’indipendenza era divenuto dunque la neutralità della vigilanza. Ricostituire, nel mutato quadro del sistema europeo delle banche centrali (SEBC), le condizioni di indipendenza della Banca nell’esercizio della vigilanza significava, dunque, estromettere i soci bancari ex pubblici. Soci che, a partire dalle ex Banche di interesse nazionale (B.I.N.), erano stati formalmente e sostanzialmente privatizzati nel corso degli anni 90. Con la loro estromissione, si sarebbero eliminati alla radice potenziali conflitti di interesse intestini e si ristabilivano le condizioni per l’esercizio della funzione di vigilanza sulle banche nazionali, in posizione di indiscutibile indipendenza dell’ organismo vigilante. Nella sostanza, nel mutato contesto ordinamentale, si stava cercando di ripetere un’ operazione simile a quella che, nel 1936, aveva portato all’estromissione dall’azionariato privato. In questo senso, l’art 19 della legge 262 del 2005, dopo aver disposto la nomina da parte del Governo del governatore e del direttorio, aveva previsto (comma 3°) il trasferimento delle quote di partecipazione al capitale ( in possesso di soggetti diversi ) allo Stato o altri enti pubblici proprio al fine di assicurare alla Banca d’Italia ed ai componenti dei suoi organi l’indipendenza richiesta 6 dalla normativa comunitaria per il migliore esercizio dei poteri attribuiti nonché per l’assolvimento dei compiti e dei doveri spettanti La sostituzione delle banche che erano state privatizzate con soci pubblici ricordava, dunque, l’ operazione che aveva portato nel 1936 alla estromissione anche allora della banche in proprietà di soci privati. Nel 2005, con la devoluzione della funzioni monetarie alla BCE, il problema della garanzia dell’indipendenza della Banca nei confronti del Governo si era infatti, più che risolto, dissolto. Anzi, l’attribuzione del potere di nomina del governatore al Governo rafforzava semmai l’autorevolezza del governatore all’interno del SEBC. In conclusione, l’art. 19 della legge 262/2005 aveva previsto – proprio per legittimarne “ l’indipendenza richiesta dalla normativa comunitaria” l’eradicazione del conflitto di interessi intrinseco “vigilati/ vigilante ”, che si era venuto a creare per la presenza nel capitale della Banca d’Italia di imprese bancarie ormai privatizzate, prevedendo che le quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia non potessero essere in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici. L’art 19, rinviava poi ad un regolamento attuativo la ridefinizione dell’assetto proprietario della Banca d’Italia e la disciplina delle modalità di trasferimento …., delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici (art 19, comma 10). Tale regolamento, che avrebbe dovuto essere adottato entro tre anni dall’entrata in vigore della legge, dunque nel 2008, non ha però mai visto la luce. Dato che la predisposizione del regolamento era rimessa alla stessa Banca e al Ministero del Tesoro, è difficile ipotizzare difficoltà tecniche nella sua stesura. L’impasse sembra in realtà essere dipesa dall’opposizione delle banche e degli istituti di credito privatizzati, i quali in quella circostanza hanno iniziato a rivendicare diritti legalmente protetti ad una rivalutazione delle loro quote di partecipazione al capitale, non volendo farsi estromettere dalla compagine sociale. (…).

    • Hai dato un saggio delle fonti tendenziose che leggi. Tutto quello che hai riportato tu in un commento fiume, probabilmente pensando di apparire più autorevole scrivendo un commento lunghissimo, l’ avevo riassunto io nei miei commenti precedenti. La sostanza non cambia: banca d’Italia NON è una spa, non c’è un complotto del bildeberg che l’ha resa privata, vi è semplicemente la solita privatizzazione fatta ad capocchiam, alla quale non ha ormai più senso economico rimediare. Ma si arriverà pure a quello vedrai in questo paese di mentecatti. Uscirà un pentastellato o una Meloni che in nome del recupero della sovranità perduta farà tirar fuori allo stato prima o poi un po’ di miliardi per riprendersi le quote di banca d’Italia, cosi’ risolveremo tutti i problemi signora mia.

      • Le fonti “tendenziose” sono, guardacaso, una qualificatissima rivista, elettronica, di giurisprudenza alla quale collaborano fior fiore di accademici e sempre aggiornatissima sulle ultime novità del diritto nonché un saggio accademico di prim’ordine.

        Che si sia parlato di complotti o di Bildeberg è una tua illazione smontata dai fatti ossia da quanto scritto nei precedenti post, nei quali si è solo fatto cenno all’operazione strategica del Britannia per attuare le privatizzazioni in Italia, approfittando dell’attacco speculativo alla lira da parte di Soros e del fatto che la classe politica della prima Repubblica stava finendo maciullata sotto i cingoli di Mani Pulite. E si è fatto, conseguenzialmente, cenno alla improvvisa impennata della carriera di Mario Draghi che di quegli eventi ha beneficiato.

        Quanto postato NON conferma la tua fissazione sulla “semplice privatizzazione a capocchia” (che certo c’è stata), che quindi non sarebbe, per te, un problema, ma smonta la tua seguente affermazione

        “de facto le banche private non possono decidere alcunchè all’interno di Banca d’Italia per legge … E’ quindi un ‘possesso’ formale, non sostanziale”.

        Le fonti “tendenziose” – scritte da accademici qualificati – invece dimostrano che non si tratta di un possesso formale e non sostanziale. Le banche private se hanno resistito alla loro estromissione nel 2005 è perchè, mediante la perpetuazione del conflitto di interesse ingenerato con la privatizzazione, riescono a controllare il loro (presunto) controllore e quindi ad influenzarne anche la politica. Mentre i governi sono ormai estromessi da qualsiasi decisione di politica monetaria, le banche private possono influenzare la vigilanza su di loro e, quindi, “influenzare”, per via della Banca d’italia, anche la politica della Bce. Come del resto fanno anche le banche private tedesche, francesi, etc.

        Quando si parla di perdita della sovranità monetaria è a scenari come questo che bisogna riferirsi. A meno di non voler passare per gli “utili idioti” di chi, in questo scenario, ha benefici per i propri interessi a scapito di quelli generali.

        Sii meno ingenuo.

        Luigi.

  7. A proposito di privatizzazioni a capocchia, il percorso di Bankitalia è abbastanza singolare. Non un complotto di Bildeberg, certamente, e tuttavia tale che qualche perplessità la lascia:

    Sappiamo che nel 1992, in pieno fervore neo-liberista, Carli e Amato decidono di privatizzare le banche. Nessuno eccepisce nulla, finché nel 2004 Famiglia cristiana pubblica qualcosa che fino a quel momento era riservato: l’assetto societario di Bankitalia. Si scopre così che questo organismo fin qui considerato pubblico, appartiene per il 95% a banche e assicurazioni. Bankitalia appartiene a privati, e peggio ancora appartiene a quei privati che essa dovrebbe controllare!
    Un cittadino fa causa e la vince.
    La sentenza 2978/05 Tribunale di Lecce, dice: “Bankitalia è un ente privato … cui è affidato in regime di monopolio la funzione statale di emissione della carta moneta, senza controlli da parte dello Stato e tuttavia controllata da quegli istituti che dovrebbe controllare. Rileva inoltre la violazione dell’articolo 3 dello statuto, che prevede che la maggioranza del capitale dev’essere tenuto da mani pubblica”.
    Per tamponare la manifesta situazione di illegalità, l’allora governo Berlusconi – legge 262/2005 – stabilisce che le quote detenute da soggetti diversi da Stato o Enti pubblici devono essere da questi dismesse entro tre anni.
    Quindi: nazionalizzazione?
    Nemmeno per sogno!
    L’anno dopo il governo Prodi ritiene che anziché dare seguito alla 262 è molto più sbrigativo… riscrivere lo statuto di Bankitalia. L’articolo 3 viene quindi modificato abolendo la previsione che imponeva che la maggioranza del capitale fosse in mano pubblica.
    La legalità è salva. La legittimità un pochino meno.
    Non solo: qualche anno dopo, governo Letta, (2013-2014) si procede alla ricapitalizzazione di Bankitalia con utilizzo di parte delle riserve: la ratio ufficiale è la possibilità di tassare la plusvalenza degli azionisti (la banche) e ridurre il deficit. Il capitale passa da 156 milioni a 7,5 miliardi, rendendo di fatto estremamente onerosa un’eventuale nazionalizzazione. La strategia è sempre la stessa: bruciarsi i ponti alle spalle per poi dire che non ci sono alternative all’andare avanti.
    Noi felici cittadini europei ce la sentiamo ripetere ogni volta…

    • Non è stata una ricapitalizzazione ma un aumento di capitale sociale, ovvero una rivalutazione del capitale sociale sottoscritto.
      Cioè la situazione patrimoniale reale in termini di capitale proprio era molto superiore al capitale sottoscritto. Se lo Stato volesse ricomprarsi banca d’Italia deve comunque riferirsi al capitale reale, non a quello sottoscritto, quindi la rivalutazione non ha cambiato nulla in tal senso, non è una manovra per rendere complicata la nazionalizzazione come dici tu. Poi le banche devono essere d’accordo a vendere, ovvero le devi convincere a suon di moneta sonante indipendentemente da quanto è riportato in bilancio.

  8. Per quanto riguarda la ricapitalizzazione, hai tecnicamente ragione, sono stato approssimativo; anche se avevo sottolineato che l’aumento di capitale avveniva tramite utilizzo delle riserve.
    Per il resto, si tratta di una tua opinione, di cui prendo atto ma che non condivido.
    Quando nel ’92 le banche sono state privatizzate non è che si sia tenuto conto del capitale reale (patrimonio) di Bankitalia, ma la loro partecipazione (pre-esistente, in quanto banche pubbliche) nei loro bilanci è rimasta al valore nominale, cioè la quota parte di 156.000 euro (salvo mi pare una banca, che per ragioni di bilancio aveva successivamente rivalutato, di sua iniziativa, il valore della sua partecipazione).
    Difficile sostenere che non si si è trattato di una regalia davvero singolare: poi si può argomentare che è stata fatta per permettere allo stato di tassare la plusvalenza, oppure per permettere alle banche di conferire al proprio bilancio un attivo che lo rendesse più consono alle norme di Basilea…
    Ma oggettivamente, oggi che questa regalia è stata (parzialmente, visto che il patrimonio netto di bankitalia è di 124 mld)) formalizzata, e le banche hanno a bilancio attivi per la quota parte di 7,5 miliardi mi pare che le cose, nell’eventualità (ahimè remota) di ri-nazionalizzazione è diventato tutto più complicato e oneroso.
    E rimane comunque il fatto che l’intera vicenda, senza scomodare Bilderberg, è davvero di dubbia liceità – per dirla con un eufemismo.

    • Ne avrai pure preso atto di quanto ho scritto ma non l’hai capito.
      La privatizzazione significa che lo stato vende sul mercato una parte di asset pubblici. Ciò che incassa dipende da quel che raccogli sul mercato, e quel che raccogli sul mercato dipende dall’analisi che gli investitori fanno del tuo business. Non è che se è scritto a bilancio 1 ma tutti sanno che è 100 il prezzo è 1, chiaro? Quindi quando il governo ha privatizzato, gli asset sono stati valutati secondo il loro valore effettivo (presunto), se li dovesse ricomprare quegli stessi asset dovrebbe di nuovo sborsare il prezzo relativo al loro valore effettivo, non quello che è scritto in bilancio in ogni caso, chiaro? La rivalutazione delle quote è una iniziativa del tutto neutra rispetto al discorso della privatizzazione ed eventuale rinazionalizzazione delle quote societarie di Bankitalia, ok? Questo è quello che dico io, se non sei d’accordo spiega il perchè, senza utilizzare l’argomento che io ho già 2 volte confutato delle quote societarie che prima erano sottoscritte ad 1 (durante la privatizzazione) e poi a 100 (oggi). Ho dimostrato ampiamente che anche qualora le quote partecipative di Bankitalia fossero domani valorizzate ad 1 euro simbolico, il prezzo (eventuale) di riacquisto dello Stato sarebbe completamente indipendente da questo valore simbolico.
      Parliamo per cortesia con ragionamenti sensati, di cose concrete, su cose reali, che le chiacchiere sono davvero troppe!

  9. Mah… che vuoi che ti dica, Il tuo approccio non è certo dei migliori per un dialogo costruttivo. Resto convinto che una maggiore urbanità gioverebbe a tutti; purtroppo la rete questo passa, il faut faire avec.
    Ho capito perfettamente che il valore patrimoniale è indipendente da quello nominale delle azioni, e che sul mercato è quello a valere e non questo: mi hai svelato una nozione che in tanti anni non mi era mai balenata alla mente.
    La domanda è per quale ragione questi parametri non sono stati usati nel 1992, quando le banche sono state privatizzate lasciandole proprietarie di Bankitalia senza che nessuno esigesse una contropartita ragionevole. Questo provvedimento corrisponde, a mio modo di vedere, a un’illecita alienazione del patrimonio pubblico (cioè anche mio e tuo), dal momento che è stata fatta a gratis e non ha prezzi di mercato, e rappresentava un vulnus alla pretesa di congruo risarcimento da parte delle banche ove un domani si fosse proceduto a nazionalizzare Bankitalia. Oggi non è più così, o lo è significativamente molto meno, dal momento che con la ricapitalizzazione e la conseguente imposizione delle plusvalenze realizzate possono sostenere che almeno per i 7,5 mld esse hanno sostenuto costi che non consentono più di guardare alla loro quota come a una regalia.
    Ma se tutta l’operazione di sembra condotta in maniera trasparente e perfettamente in linea con le regole di mercato, chi sono io per convincerti del contrario? Fai pure.

I commenti sono chiusi.