Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo del Prof. Andrea Pannone*, ricercatore senior presso la Fondazione Ugo Bordoni sugli effetti macroeconomici del reddito di cittadinanza.
Il fallimento generalizzato delle politiche di austerità nel fare fronte alla crisi economica in cui si dibattono da anni le economie occidentali, sta spingendo molti leader politici a riconsiderare il ruolo dell’intervento pubblico, in particolare degli investimenti infrastrutturali, quale strumento privilegiato per arginare la stagnazione del PIL e combattere la disoccupazione. Questo ha ridato forza alle tesi di molti economisti circa la possibilità di poter uscire dalla crisi per mezzo di politiche di tipo keynesiano. Su un piano complementare, il prolungarsi degli effetti perversi della crisi ha posto all’attenzione il problema della necessità e della sostenibilità di interventi pubblici diretti a favore di soggetti che hanno perduto il lavoro, e/o a famiglie particolarmente disagiate. Nel nostro articolo (qui la versione integrale) esaminiamo i possibili effetti di alcune politiche pubbliche alternative.
Molti economisti considerano ancora una fase di crisi economica e disoccupazione come una situazione in cui nel sistema si ha un eccesso non temporaneo di risparmio sul volume degli investimenti privati (S > I)[1]. In realtà l’esistenza di eccesso di risparmio è incompatibile con l’idea, che anche Keynes aveva chiaramente espresso nel settimo capitolo della Teoria Generale, per cui le decisioni di produzione dipendono dai cambiamenti totali della domanda effettiva piuttosto che dalle variazioni delle scorte di beni invenduti nel periodo precedente; come invece emerge dallo schema usato da Alvin Hansen nel 1954, e ripreso in molti manuali di economia, per rappresentare la determinazione del reddito di equilibro nell’analisi keynesiana[2]. Questo può essere mostrato facilmente con un semplice modello formale di un’economia chiusa in crescita stazionaria con inflazione zero, in cui le grandezze macroeconomiche sono espresse in termini reali.
Al di sotto della piena occupazione dei fattori produttivi (impianti e lavoratori) si avrà:
1) QP>QD
ossia che la produzione potenziale è maggiore della domanda totale di beni;
Se ammettiamo, coerentemente al pensiero di Keynes nella Teoria Generale, che le decisioni di produzione dipendono dalla domanda avremo:
2) Q=QD
ossia che il flusso di beni effettivamente prodotti, nei limiti del potenziale produttivo esistente, è sempre uguale alla domanda, Chiaramente si ha:
3) QD=C+I
dove C la quantità di beni di consumo richiesti dalle famiglie; mentre I rappresenta la quantità di beni di investimento richiesti dalle imprese; e
4) Q=C+S
dove S è il risparmio.
Sostituendo 3) e 4) nella 2) si ha:
5) S=I
Come si può vedere, quindi, una situazione non transitoria di eccesso di offerta potenziale sulla domanda (eccesso di capacità produttiva), quale quella che caratterizza una fase di crisi economica, non corrisponde mai a una situazione di “eccesso di risparmio”. Infatti, il risparmio è sempre uguale all’investimento in quanto la produzione effettiva, entro il limite di capacità degli impianti, è sempre uguale alla domanda.
Notiamo che il semplice modello proposto è estremamente coerente, oltre che con l’idea che Keynes aveva delle decisioni di produzione, anche col modello produttivo che si è affermato negli ultimi trenta anni in quasi tutte le economie moderne. Nei sistemi di produzione moderni, largamente ICT-based[3], le decisioni di produzione sono sempre più customizzate e gli impianti produttivi sono attivati contestualmente al manifestarsi effettivo del segnale di domanda – così come espresso dagli ordini di acquisto dei clienti – che può presentare caratteristiche di elevata variabilità. Questo perché la capacità e la velocità nel trattare grandi quantità di dati – unita alla possibilità di uso modulare degli impianti e al migliore coordinamento delle fasi produttive che l’ICT consentono – assimila la produzione, di fatto, a un processo just in time, riducendo l’accumulazione indesiderata di scorte e gli sprechi di risorse. Ne deriva che il flusso di beni effettivamente prodotti non può mai essere maggiore della domanda, cosa che invece poteva avvenire nel vecchio modello della produzione di massa, a causa delle elevate indivisibilità tecniche degli impianti e della maggiore dimensione dei lotti produttivi[4].
In conclusione, quando l’economia si trova al di sotto della piena occupazione dei fattori produttivi, non si ha mai eccesso di risparmio. Si ha, invece, un elevato grado di inutilizzazione e sottoutilizzazione del capitale esistente (impianti produttivi), oltre che di elevata disoccupazione. Perché il capitale in eccesso dovrebbe costituire un problema per l’economia?
Per argomentare il punto, assumiamo che il capitale/impianti disponibile alle imprese all’inizio del periodo di produzione (assunto per semplicità uguale all’anno solare) venga acquistato mediante ricorso al credito bancario[5]. Tale acquisto (investimento) si verifica a fronte di un impegno intertemporale (commitment) a pagare alle banche una rata di affitto annua (rental cost) che è funzione di un dato tasso di interesse, della durata tecnica degli impianti e del capitale anticipato (pari al valore di mercato degli impianti acquistati). Assumiamo anche che la rata venga normalmente pagata dalle imprese mediante parte dei proventi derivanti dalla vendita dei beni prodotti. Un’altra parte di questi proventi vengono utilizzati per pagare i salari dei lavoratori che sono stati impiegati durante l’anno nel processo produttivo; l’ipotesi è che l’impiego di lavoratori vari proporzionalmente con il livello di produzione. La parte rimanente dei proventi costituisce i profitti delle imprese. Data la spesa per salari e i profitti, se i proventi derivanti dalle vendite annue fossero inferiori a quelli attesi – a causa di un’imprevista caduta del livello della domanda che rende parte degli impianti inutilizzati – essi non consentirebbero di coprire per intero la rata dovuta a fine anno per l’affitto del capitale. La parte non coperta costituisce di fatto un sunk cost che si forma ex post in seguito a un evento contingente – l’imprevista mancata valorizzazione del capitale acquistato dalle imprese – a fronte dell’impegno contrattuale intertemporale assunto ex ante con le banche[6]. Questi ex post sunk cost sono associabili a esborsi finanziari aggiuntivi che pongono alle imprese e al sistema economico il problema del loro finanziamento. Questo può avere conseguenze potenzialmente negative per l’economia (vedasi articolo integrale).
Appare dunque abbastanza chiaro che la riduzione (o almeno il contenimento) dell’eccesso di capacità e di capitale nell’economia è l’obiettivo che le politiche economiche devono necessariamente perseguire se vogliono evitare gli effetti più perversi di una crisi.
Il confronto tra politiche di intervento pubblico
Sulla base delle considerazioni fin qui espresse valuteremo, mediante il ricorso a esempi numerici, l’efficacia di tre politiche di intervento pubblico:
a) costruzione di una nuova infrastruttura pubblica;
b) erogazione di un reddito di cittadinanza a favore di soggetti/famiglie che non hanno lavoro;
c) concessione di un ‘bonus’ di reddito a favore di soggetti/famiglie che già percepiscono un reddito da lavoro (ad esempio gli “80 euro”).
L’efficacia delle politiche verrà valutata in relazione alla loro capacità di ridurre l’eccesso di capacità produttiva (ossia il gap tra produzione potenziale e domanda) e il grado di inutilizzazione del capitale/impianti sia nel breve che nel lungo periodo. Con riferimento al breve periodo, è evidente che, essendo il capitale e la capacità produttiva dati, l’obiettivo delle politiche coincide con quello di aumentare la produzione e l’occupazione.
Esprimiamo in modo sintetico le principali conclusioni del nostro lavoro.
a) Nel breve periodo, l’erogazione di un reddito di cittadinanza ha un impatto positivo su produzione e occupazione, sebbene tale impatto possa essere più contenuto rispetto all’investimento pubblico in infrastrutture. Entrambe le politiche, comunque, appaiono decisamente più efficaci della politica di distribuzione di un ‘bonus’ di reddito alle famiglie che hanno già un’occupazione.
b) Nel lungo periodo, una volta esauritisi gli effetti di breve delle politica, la costruzione di infrastrutture determina un aumento del capitale e della capacità produttiva inutilizzata. Per ripristinare gli effetti di breve periodo di questa politica è allora necessario sostenere un investimento di consistenza maggiore del precedente, con conseguente aggravamento del deficit di bilancio e, in prospettiva, con un notevole aumento del debito. La politica di erogazione di un reddito di cittadinanza, invece, può riprodurre nuovamente gli effetti di breve periodo mantenendo costante l’aggravio del deficit e più contenuta la crescita del debito.
Osserviamo che le nostre conclusioni non vanno intese in alcun modo come una posizione critica nei confronti dell’efficacia degli investimenti pubblici, la cui utilità non può essere affatto messa in discussione, specie alla luce dell’indiscutibile fallimento delle politiche di austerità di questi anni. La nostra argomentazione, piuttosto, serve a mettere in evidenza la necessità di armonizzare quelle politiche di intervento con misure di sostegno diretto alle famiglie che non hanno lavoro e alla domanda. In questo senso il reddito di cittadinanza, oltre a rappresentare un non più procrastinabile aiuto alla dignità delle persone, potrebbe costituire uno strumento estremamente utile per contrastare gli effetti più perversi della crisi economica.
* Economista esperto nell’analisi dei processi di innovazione tecnologica e dei suoi riflessi a livello microeconomico e macroeconomico. Attualmente è ricercatore senior presso la Fondazione Ugo Bordoni, ente in cui lavora dal 1993. Nel 1998 ha conseguito il Dottorato in Scienze Economiche all’Università di Roma – La Sapienza. Nel 2000, autorizzato dalla Fondazione, ha collaborato in qualità di esperto con il Dipartimento di Affari Economici della Presidenza del Consiglio alla definizione di un sistema di indicatori di monitoraggio dello sviluppo della Società dell’ Informazione. E’ stato Professore di Economia Politica all’Istituto per la Cultura e la Storia d’Impresa ‘Franco Momigliano’ e docente in diversi Master di economia dei nuovi media presso l’Università di Roma Tor Vergata. È autore di diverse pubblicazioni nazionali e internazionali, le principali tra le quali sono visibili all’indirizzo: https://scholar.google.it/citations?user=ux2owS0AAAAJ&hl=it
Note
[1] Su questo punto si veda ad esempio l’articolo di Sergio Bruno su Sbilanciamoci: http://sbilanciamoci.info/autore/sergio-bruno/
[2] “I prefer… to emphasise the total change of effective demand and not merely that part of the change in effective demand which reflects the increase or decrease of unsold stocks in the previous period. Moreover, in the case of fixed capital, the increase or decrease of unused capacity corresponds to the increase or decrease in unsold stocks in its effect on decisions to produce” (John M. Keynes, Teoria Generale, 1936, cap. VII)
[3] Per sistemi di produzione ICT-based intendiamo processi produttivi che fanno uso massivo di Information and Telecomunication Technologies.
[4] Questo impedisce sempre, tra l’altro, che i prezzi possano ridursi automaticamente, come vorrebbe la teoria neoclassica, una volta che l’economia si fosse allontanata dall’equilibrio di pieno impiego per effetto di una caduta della domanda.
[5] L’argomento non perderebbe comunque alcuna generalità se assumessimo che le imprese acquistino il capitale ricorrendo, invece che al credito bancario, interamente a mezzi propri.
[6] Bisogna dunque distinguere tra ex-ante sunk cost, perfettamente noti alle imprese al momento della stipula del contratto di affitto, e ex-post sunk cost che si verificano inseguito a ‘notizie’ che l’impresa acquisisce alla fine del periodo di produzione su un risultato inatteso. Sulla differenza tra ex-ante e ex-post sunk cost si veda Owen R., Ulph, D., (2002) “Sunk Costs, Market Access, Economic Integration, and Welfare”, Review of International Economics, 10(3), 2002, pp. 539-555.
Quello che mi manda in bestia degli “economisti” è la loro capacità di mantenersi seri mentre deformano continuamente a colpi di ipotesi il significato delle “grandezze” su cui ragionano. In pratica si ostenta un rispetto per i numeri astratti col quale si maschera la totale mancanza di rispetto per i valori concreti.
Comunque facciamola breve. Il reddito di cittadinanza come oggi concepito, ovvero un’integrazione fino a 600 – 700 € al mese, all’atto pratico andrebbe a coprire esigenze di sopravvivenza o poco più. Significherebbe che i fruitori anziché andare a mangiare a casa dei genitori o alla mensa della Caritas verrebbero messi in condizione di fare la spesa da sé. Il che significa semplicemente una restituzione di dignità alla persona, non una modifica della domanda di beni, che sarebbero sempre gli stessi (sussistanza).
Doveroso, nelle condizioni in cui siamo; ma certamente di nessun impatto sull’economia.
Quanto infine all'”infrastruttura pubblica”: essa contribuirà positivamente all’economia SE SERVE. Diversamente sarà soltanto un DANNO, per esempio a causa del consumo di territorio (il cui valore in economia ci si ostina a considerare pari a zero).
Condivido in pieno.
Anche se Sarei più propenso al reddito di cittadinanza(basta che non siano spiccioli e gestito all italiana),per quanto concerne le opere pubbliche penso che nel corso degli anni si siano buttati via fin troppe risorse in opere inutili e costose.
Le parole di Rifkin del 95? nel suo “la fine del lavoro” sono quanto mai attuali.Non essendoci più lavoro, qualunque riforma é destinata a fallire. I vari economisti lo sanno ma nessuno lo dice chiaramente e le cose sono destinate al peggio. L’Italia non più soldi per fare alcunché. È evidente la necessità di ridurre l’orario di lavoro al fine di dare lavoro a più persone possibile. in alternativa il reddito di cittadinanza ma non una “mancetta” per sopravvivere ma come superamento della globalizzazione dell’economia, attraverso la rivalutazione dell’utilità sociale dei singoli da attuare attraverso il no.profit che credo sarà il fulcro della quarta era dell’industrializzazione