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Draghi senza più armi

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Il presidente della Bce ha realizzato tutto ciò che la politica monetaria può contro la crisi. Che – ha avvertito – non basta: serve anche la politica fiscale (ma non ha spazi) e più ancora le “riforme strutturali”, soprattutto la deregolazione del lavoro. L’ennesima riaffermazione di una linea economica fallimentare ma che cerca di distruggere il modello sociale europeo

Antonio Lettieri da Eguaglianza e Libertà

La crisi finanziaria culminata negli Stati Uniti nell’autunno del 2008 col collasso della Lehman Brothers fu immediatamente paragonata a quella del 1929. Una rievocazione che generò un grande allarme a livello globale. Quale giudizio sulla crisi possiamo formulare a sei anni di distanza? Vi sono quattro punti che possono dare un senso al confronto.

1. Il primo riguarda il tracollo del sistema bancario che, in entrambe le crisi, ha fatto da innesco alla più generale crisi economica. Qui sta una prima rilevante differenza. La crisi bancaria dell’autunno del 1929 si aggravò irreparabilmente nei mesi e negli anni successivi. Erano già trascorsi più di tre anni, quando Franklin D. Roosevelt, giunto alla presidenza, di fronte al panico di massa, che creava lunghe file di risparmiatori di fronte agli sportelli delle banche, diventate icone memorabili della Grande Depressione, decise la chiusura temporanea di tutte le banche, mentre l’amministrazione si accingeva ad assumere iniziative straordinarie di riforma.

Per fortuna si tratta di scene consegnate alla storia. Profondamente diverso è stato il corso della crisi dei nostri giorni. La crisi bancaria americana dell’autunno nero del 2008 non è durata anni, ma un numero limitato di mesi. Nell’estate del 2009, dopo aver eseguito il primo stress test del dopo-crisi, Tim Geithner, ex presidente della Federal Reserve di New York, nominato da Barack Obama ministro del Tesoro, annunciò la fine dell’allarme rosso. Il salvataggio delle grandi banche americane era cosa fatta.

In Europa, la crisi delle banche fu parallela e non meno allarmante. Ma i paesi centrali – dalla Germania, alla Francia e al Regno Unito – la avviarono a una rapida soluzione mettendo in campo massicci interventi pubblici, comprese le nazionalizzazioni. Diversa è stata la sorte dei paesi periferici, ma questo è un altro capitolo. Sei anni dopo, la grande finanza può brindare a un esito che nessun mago della finanza avrebbe avuto l’ardire di pronosticare. Gli indici di Wall Street hanno segnato i più alti livelli della storia americana, e un esito analogo si registra in Europa. Le élite finanziarie, che erano all’origine della crisi, con l’aiuto determinante dei governi, ne sono uscite trionfalmente.

2. Molto diversamente si presenta il quadro economico. La caratteristica più stridente è lo scarto tra gli Stati Uniti l’Europa. E, più precisamente, fra i paesi dell’eurozona e gli altri. Gli Stati Uniti hanno recuperato e superato il livello del reddito nazionale del 2008. Da questo punto di vista, l’effetto crisi è stato cancellato. Nell’eurozona, siamo, invece, ancora al disotto, con l’Italia che fa registrare un drammatico arretramento che sfiora il 10 per cento del PIL.

Ancora più impressionante è l’andamento della disoccupazione. Nel 2010, la Grande Recessione aveva portato il tasso di disoccupazione sulle due sponde dell’Atlantico al 10 per cento della forza lavoro. Quattro anni dopo, negli Usa il tasso di disoccupazione è sceso a un livello prossimo al 6 per cento. Nella media dell’eurozona, ha continuato, invece, a salire, sfiorando il12 per cento, con punte catastrofiche in Grecia e Spagna dove supera il 25 per cento.

Se le differenze indicano due andamenti opposti nello sviluppo della crisi, le prospettive sono ancora più inquietanti. Il tasso di crescita corrente è intorno al 3 per cento negli Usa, mentre oscilla intorno allo zero nell’eurozona, essendo negativo nelle tre maggiori economie: Germania, Francia e Italia. L’aspetto più intrigante è che i due maggiori paesi dell’Unione europea fuori dell’eurozona, Gran Bretagna e Polonia, fanno registrare una consistente crescita del PIL.

Se ne deve concludere che quella che era annunciata come una crisi globale è, sempre di più, una profonda crisi dell’eurozona. In altri termini, le politiche imposte dalla irresponsabile tecnocrazia di Bruxelles, sostenuta da Berlino e dalle élite nazionali, hanno trasformato una crisi profonda, ma gestibile, in una catastrofe economica con conseguenze socialmente disastrose, e minacciose per gli stessi equilibri democratici.

3. E’ in questo quadro di fallimento delle politiche dell’eurozona che tutti gli sguardi e le speranze sono stati rivolti al tempio della BCE, in attesa di un miracolo del suo supremo sacerdote. Dopo un dibattito, acceso quanto confuso, seguito alla riunione dei capi delle banche centrali a Jackson Hole nel Wyoming, su come si dovesse interpretare l’oracolo di Mario Draghi, il responso è stato chiaro e inequivocabile.

Diamo uno sguardo alle due misure principali annunciate da Draghi. La prima è un nuovo, in realtà simbolico, taglio di un decimo di punto (da 0,5 a0,05) del tasso d’interesse, con l’avvertimento che questo è l’ultimo. La seconda misura è centrata sull’acquisto di ABS, Asset-backed securities: in sostanza, obbligazioni emesse dalle banche, sulla base di pacchetti di prestiti alle imprese e alle famiglie. Questa misura, insieme con il possibile acquisto di titoli garantiti dalle banche (covered securities), e la messa in atto dei prestiti diretti al finanziamento delle piccole e medie imprese, già decisa nei mesi scorsi, sono dirette a favorire l’espansione del credito.

I commentatori si sono chiesti se si tratti del famoso quantitative easing, sull’esempio delle Banche centrali degli Usa, della Gran Bretagna e del Giappone. Draghi ha puntualizzato che è corretto parlare di un credit easing, dal momento che l’acquisto dei titoli bancari, a differenza del quantitive easing, implica come garanzia i prestiti effettuati dalle banche in questione. Draghi, tuttavia, non ha escluso che in futuro, se fosse considerato necessario, il governo della Banca centrale potrebbe prendere in considerazione l’acquisto diretto di titoli sovrani a lungo termine, che è il centro del quantitive easing.

Dunque, Draghi, dopo l’icastico “to do whatever it takes”, dell’estate del 2012, quando annunciò la decisione della BCE “di fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”, ha dato fondo alle concrete possibilità di intervento della politica monetaria. Questa prima freccia è stata scoccata – importante, ma non sufficiente a invertire la tendenza deflazionista dell’eurozona. Lo ha spiegato lo stesso Draghi, in occasione del discorso programmatico di Jackson Hole, quando ha avvertito che nelle attuali circostanze di stagnazione e disoccupazione di massa “la politica monetaria perde di efficacia nel generare domanda aggregata”. Non a caso, molti commentatori hanno notato che, in presenza della caduta verticale degli investimenti e dei consumi, il problema fondamentale non è la mancanza di liquidità, ma la sostanziale mancanza della domanda di credito da parte delle imprese e delle famiglie.

Di fronte alla freccia spuntata della politica monetaria, Draghi evoca la seconda freccia, la politica fiscale, la cui responsabilità ricade sui governi nazionali. Misure di politica fiscale fondamentalmente dirette a ridurre le tasse che gravano sulle imprese. Ma Draghi aggiunge una postilla non trascurabile: l’abbassamento delle tasse deve avvenire “in a budget-neutral way”, cioè nel rispetto dei vincoli di bilancio imposti dalla Commissione europea. Operazione ardua,riconosce Draghi, dal momento che “ l’alto livello del debito…inevitabilmente riduce lo spazio dei bilanci pubblici”.

Di fronte ai limiti della poltica monetaria e di bilancio, Draghi punta sulla terza freccia: le riforme strutturali e, più precisamente, la riforma del lavoro. Un tema presentato generalmente in modo confuso e ingannevole, com’è il caso del “Jobs act” in Italia. Ma nella conferenza stampa del 4 settembre a Francoforte, rispondendo alle domande di un giornalista, Draghi fa un’operazione verità. Sentiamo. “Vi sono tre strumenti per rilanciare la crescita. Riforme strutturali, politica fiscale e politica monetaria”. La gerarchia degli strumenti non è casuale, e, in testa vi sono le riforme strutturali. Infatti, Draghi chiarisce: “Durante la presentazione ho iniziato dalla politica monetaria per passare a quella fiscale, ma ho poi concluso che non esiste nessuno stimolo fiscale o monetario in grado di produrre alcun effetto senza ambiziosi, importanti e forti riforme strutturali. Pertanto, in un certo senso, il punto chiave è l’attuazione delle riforme strutturali”. Tra le quali, Draghi sottolinea, la “priorità” spetta alle riforme strutturali dirette all’eliminazione delle “rigidità del mercato del lavoro” (traduzione di chi scrive).

A proposito delle riforme del lavoro: “Io vedo – dice – due temi cruciali…(il primo è) la contrattazione a livello aziendale che consente di riflettere meglio le condizioni del mercato del lavoro a livello locale e dello sviluppo della produttività, con una più grande differenziazione fra i lavoratori e fra i settori”. Il secondo è il superamento delle “rigidità nell’aggiustamento dei livelli occupazionali …in modo da rendere più spedita la riallocazione delle risorse produttive e del lavoro verso i settori più produttivi”. In parole povere, la flessibilità verso il basso dei salari a livello aziendale, e la libertà di licenziare per favorire la produttività aziendale.

Fin qui niente di nuovo sotto il cielo dell’ortodossia neoliberista. Ma la novità sta nell’esplicitazione, dall’alto della cattedra della BCE, del rilievo relativamente secondario delle misure monetarie e fiscali rispetto alla centralità nevralgica della riforma del lavoro. Il discorso è chiaramente rivolto all’Italia e alla Francia, dal momento che gli altri paesi dell’eurozona si sono disciplinatamente adeguati al dogma della deregolazione finale delle condizioni di lavoro, del salario e delle forme di occupazione.

Non a caso, Draghi fa l’elogio dell’esperienza irlandese e spagnola. In Spagna, il governo conservatore di Mariano Rajoy ha risolto la questione dando libertà alle aziende in difficoltà di cancellare il contratto nazionale di settore, ponendo i lavoratori di fronte all’alternativa fra la riduzione, fino al venti per cento, del salario e l’auto-licenziamento. “In Spagna,come in altri paesi in crisi, ribadisce Draghi, le riforme del lavoro hanno cancellato molte rigidità del mercato del lavoro attraverso le riforme strutturali con effetti positivi”.

Eppure, la Spagna, come modello ed esempio da imitare, rappresenta un paradosso assoluto. Considerate tre cifre che ci forniscono un’idea della conclamata efficacia del modello. Prima della crisi, la Spagna aveva un debito di poco superiore al 40 per cento del Pil, il più basso fra i grandi paesi dell’eurozona; nel 2014 si avvicina al 100 per cento. Il disavanzo di bilancio, inesistente prima della crisi, per il 2014 è previsto intorno al 6 per cento del Pil, pari al doppio di quello italiano. E la disoccupazione ha raggiunto, esattamente come quella greca, la spaventosa cifra del 25 per cento. Questo il modello che, in ultima analisi, Draghi in sintonia con Berlino e Bruxelles, propone a Italia e Francia.

Eppure, Draghi e, per quanto ci riguarda, Padoan non esitano a riconoscere che queste riforme del lavoro sono destinate nel breve-medio periodo non a migliorare, ma ad aggravare le condizioni di crescita e di occupazione, dal momento che, inevitabilmente contribuiscono a ridurre la domanda, sia dal lato dei consumi che degli investimenti, in una lunga prospettiva di stagnazione, che richiama una forma di “giapponesizzazione” dell’economia dell’eurozona.

Ma allora perché l’ossessiva insistenza sulla riforma del mercato del lavoro (che simbolicamente riappare in Italia con la definitiva cancellazione dell’art. 18)? La prima risposta è che si tratta di una strategia sbagliata. Ma è una risposta vera solo a metà, riferita alla fase attuale. Dal punto di vista strutturale, la riforma del lavoro indica un cambiamento a lungo termine, profondo e radicale dei rapporti sociali di potere. E’ l’affermazione di una gestione autoritaria nei luoghi di lavoro, sostanzialmente liberata dai vincoli della contrattazione collettiva e della funzione di rappresentanza, di intervento e di controllo dei sindacati sulle condizioni di lavoro e salariali. Un ritorno agli albori del XX secolo, spacciato come tributo da pagare alla rivoluzione tecnologica e alla competizione globale del XXI secolo.

4. Per concludere, tornando al confronto fra la crisi corrente e quella degli anni Trenta, la differenza è, per almeno un altro aspetto, stridente. A metà degli anni Trenta, in America si sviluppava col New Deal una rivoluzione del modello sociale destinato a cambiare radicalmente lo scenario americano e a influenzare tutto l’occidente.Tra le grandi riforme sono rimaste nella storia quelle del sistema pensionistico pubblico universale, dell’indennità di disoccupazione, del salario minimo legale, del “welfare” per le famiglie meno abbienti, della creazione diretta di centinaia di migliaia di posti di lavoro attraverso i lavori socialmente utili a carico dell’amministrazione federale.

Ma ancora più straordinaria fu la legge Wagner del 1935 con la quale fu garantito per la prima volta al sindacato il diritto di rappresentanza e contrattazione, promuovendo le condizioni per la formazione e lo sviluppo del più forte movimento sindacale delle vecchie democrazie occidentali. L’attacco all’insieme di queste conquiste coincide in America con la storia degli ultimi trent’anni, iniziata con Reagan, e proseguita fino a ridurre la rappresentanza sindacale nel settore privato a un misero 7 per cento della forza lavoro.

Nelle democrazie europee, i sistemi di welfare e i diritti di rappresentanza e di contrattazione collettiva hanno subito vicende diverse, ma fino alla crisi hanno mostrato una non secondaria capacità di resistenza. Da questo punto di vista, non è un caso che la crisi sia usata per eliminare ciò che resta dell’”eccezionalismo” europeo.

Ma l’aspetto più inquietante non è tanto l’uso della crisi, quanto il lungo silenzio, se non la complicità, della sinistra ufficiale. In Italia prevale quella sorta d’incantesimo che Renzi ha generato intorno alla sua figura di condottiero solitario e vincente. In realtà, un condottiero che ha arretrato di fronte all’unica vera battaglia che conta: il cambiamento radicale della catastrofica politica dell’eurozona.

In Francia, anche in virtù di una più antica tradizione “repubblicana”, Arnaud Montebourg ha dichiarato ad alta voce la verità che tutti conoscono: la politica dell’asse Berlino – Bruxelles ha conseguenze distruttive per gli equilibri economici e sociali dei paesi che ne hanno accettata l’egemonia. In fondo è una verità perfino banale, sostenuta da economisti e politici di mezzo mondo, e dai movimenti di contestazione emersi in Spagna e in Grecia, dove il partito di Tsipras si è collocato al primo posto nelle elezioni europee.

A Montebourg va il merito di aver rotto l’incantesimo. François Hollande, il presidente francese più sfiduciato della storia della V Repubblica, ha reagito sciogliendo l’esecutivo, spostando più a destra l’asse del governo Valls, e sostituendo Montebourg al dicastero dell’economia con suo giovane e fidato collaboratore, proveniente dalla banca Rothschild. Angela Merkel e Wolfgang Schäuble hanno apprezzato.

Non conosciamo il futuro, ma dobbiamo riconoscenza a Montebourg per aver avuto il coraggio di mostrare che può esistere un pensiero critico di sinistra, in grado di aprire una nuova fase di battaglia politica in un paese che è stato decisivo nella nascita dell’Unione europea, e che rimane decisivo anche per il futuro dell’eurozona. La speranza (o l’illusione?) è che l’esempio francese trovi imitatori altrettanto convinti e combattivi anche in Italia.

Fonte: eguaglianzaeliberta.it

21 commenti su “Draghi senza più armi

  1. Se queste sono tutte le armi della Bce, la guerra e’ persa in partenza, 5 anni per decidersi a mettere i tassi a zero e a pompare liquidità, anzi nemmeno quello a ben guardare, suvvia ragazzi siamo seri…ad ogni modo sono d’accordo con Draghi, c’è bisogno di politica fiscale e di riforme strutturali, oltre che di politica monetaria, solo che le riforme non sono quelle che dice lui o che lascia intendere lui…la politica fiscale da intraprendere oggi è il deficit spending e la riforma strutturale più importante è il cambiamento del paradigma della nostra societa’ europea a trazione tedesca, cioè il mercantilismo…è ovvio che ci allontaniamo sempre di più dai paesi anglosassoni, il nostro modello di riferimento non sono loro, ma la Cina, sta avvenendo una cinesizzazione del continente, che andra’ avanti fino a che le competitività relative di Cina ed Europa non saranno confrontabili…è ovvio che le politiche espansive monetarie in questo contesto non solo sono insufficienti, di più sono controproducenti, la stessa idea di moneta strutturalmente forte è inutile nel migliore dei casi se ogni singolo stato europeo non fa mai deficit e ha bilancia dei pagamenti sempre positiva, come vorrebbero gli “austerici”…non serve avere l’euro, ogni moneta diventa forte con questo paradigma…non possiamo fare seria concorrenza a Cina e India, è evidente, lo ha capito anche il Giappone, il paese più mercantilista del mondo per antonomasia, l’unico paese al mondo con 30 anni di bilancia dei pagamenti positiva: quando si sono affacciate le nuove tigri asiatiche, per poter competere con loro ha dovuto far deficit, per evitare che il gdp scendesse…ora ha capito che non ha senso proseguire per questa strada, se vuoi competere con chi ha un reddito procapite un terzo o un quarto del tuo, anche il tuo reddito procapite deve ridursi, e se si riduce il reddito procapite, si riduce anche il pil…a meno che non fai un sacco di deficit, noi europei pretendiamo di essere competitivi coi cinesi senza fare deficit, le conseguenze sono abbastanza ovvie: disoccupazione sempre piu’ alta, pil pro capite sempre più basso…un’ultima considerazione, forse la più importante: cercare di vendere piu’ degli altri porterà inevitabilmente a frizioni geopolitiche e tensioni internazionali sempre più grandi, le prime avvisaglie sono già evidenti e tangibili..

    • Un analisi perfetta, e che svela con precisione geometrica il fine del progetto oligarchico in corso, ossia la cinesizzazione dell’Europa

  2. Da almeno 2 anni, mi tocca riscontrare, anche in ambito accademico (!!), un’ignoranza dei poteri della BCE. Un mese fa, ho lanciato un Quesito-proposta di denunciare la BCE alla Corte di Giustizia Europea per violazione del suo statuto (art. 2) e dei trattati UE (l’ho fatto anche qui, v. “John Maynard Giavazzi (o quasi)” e poi “Uscire dall’euro o “uscire” da questa BCE?”, v. anche il precedente post di questo blog “Siamo tutti keynesiani?”). Ho dovuto purtroppo registrare un riscontro quasi nullo. Come piccola soddisfazione, noto ora con piacere che Antonio Lettieri ha preso atto del mio, evidentemente, utile commento a questo stesso suo articolo, pubblicato su Sbilanciamoci, che l’ha determinato a cancellare una sua erronea affermazione (cfr. punto 3, quarto capoverso), concernente i poteri della BCE. Riporto l’incipit del mio commento e, per non ripetermi, il link all’articolo di Sbilanciamoci:

    Tutto giusto e condivisibile, tranne un punto dirimente.
    Citazione: “Dunque, la politica monetaria sembra svolgere, sia pure in ritardo e con i limiti statutari e della sorda opposizione della Bundesbank, il proprio ruolo”.
    Antonio Lettieri lo ha mai letto attentamente lo statuto della BCE? […]
    http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Moneta-morbida-lavoro-duro-26135 .

    • Temo che il problema non sia tecnico, ovvero capire cosa puo’ e non può fare la Bce, ma politico, cioè di politica economica….se siamo tutti impegnati a vendere e a tenere i conti in ordine la banca centrale in quale modo ci può aiutare? Comprando debito estero per affossare il cambio? Quindi sempre al modello cinese si finisce…noi dovremmo sostenere l’export cinese e degli altri paesi in via di sviluppo, come fanno gli Usa, Uk e probabilmente anche il Giappone in un futuro molto prossimo, non competere con loro…se tutti vendono chi è che compra? La regola non scritta è chi ha moneta forte compra, gli altri vendono…finirà molto male

      • Mi meraviglio che tu dica questo, se hai letto i miei commenti precedenti.

        1. Che il problema sia politico è evidente, direi ovvio.

        2. Ma è ovvio solo a 2 condizioni: a) che anche Draghi (anzi, la sua metà buona – il buono Dottor Jekyll -, ché l’altra metà – il cattivo Signor Hyde – è prona al veto, appunto politico, della Germania) diventi, tecnicamente, keynesiano e prevalga – cosa (quasi) impossibile nella schizofrenia – sulla metà cattiva; e b) che si sgombri interamente – interamente! – il campo dall’asserito impedimento statutario, che è l’alibi perfetto – alimentato dall’ignoranza quasi universale (!!) dei suoi poteri – per l’inerzia della BCE. Cioè occorre che qualcuno dica e dimostri che il re è nudo. E’ incredibile – ma piacevole per me, poiché uno dei fondamenti della mia educazione è stata la famosa fiaba di Andersen de “I vestiti nuovi dell’imperatore”, più nota, appunto, come “Il re è nudo” – che stia toccando a me svolgere il ruolo del bambino che svela l’inganno (anche se credo che, nel mare magno del web, ve ne siano molti altri). Ma siccome è certo che questo non sia sufficiente a superare il veto politico della egoista ed egemone Germania, che non lo farà mai con le buone, l’unico modo per uscire dall’impasse ed evitare la probabile implosione dell’Euro (e poi forse dell’UE) è o minacciare di uscire dall’Euro o denunciare la Bce alla Corte di Giustizia Europea per flagrante violazione del suo statuto (art. 2).

        3. Detto questo, che cosa debba fare la BCE (cioè il suo Consiglio Direttivo, formato da Draghi e dai 18 governatori dell’Eurozona) l’ho già scritto: QE e acquisto della parte di debito pubblico eccedente il 60% del Pil di tutti i 18 Paesi EUZ, attraverso titoli nuovi a lunga scadenza e a tasso zero o quasi, alleviando così sensibilmente la spesa degli interessi passivi, il cui risparmio va destinato alla crescita. In tal caso, si deve lasciare l’obbligo del pareggio di bilancio e cedere sovranità all’UE per il controllo preventivo e successivo del bilancio pubblico e delle variabili sottostanti, prevedendo, per un certo periodo, sanzioni non soltanto pecuniarie ma anche politiche (decadenza-rimozione dei responsabili). In alternativa, c’è soltanto che l’UE vari gli EuroUnionBond (proposta Prodi-Quadrio Curzio), che mobilitano un ammontare complessivo di 3.000 mld (all’Italia spetterebbe il 17,9%, pari alla sua quota nella BCE). Siamo in guerra, anche se solo economica, che durerà a lungo, ed occorre un cambiamento radicale di mentalità e di soluzioni. Allora, à la guerre comme à la guerre.

      • Nessuna struttura pubblica è mai indipendente dal potere politico, anche se nel suo statuto è scritto a caratteri cubitali, hanno scritto a caratteri cubitali una idiozia banalmente…l’unico modo per rendere una struttura pubblica indipendente è renderla elettiva, cioe’ creare un’altra struttura politica e dotarla di autonomia finanziaria…chi mette i dipendenti pubblici della Bce al loro posto infatti? Il potere politico, chi decide di rimuoverli o cambiarli? Il potere politico…le banche centrali sono espressione della politica del governo, e ti dico di più: è un bene che sia così, se non fosse così le nostre democrazie sarebbero zoppe, perché in caso contrario ci sarebbe un organo istituzionale dotato di amplissimi poteri del tutto autoreferenziale…

      • Vedo che tu – recidivo – ami le affermazioni ovvie (“Nessuna struttura pubblica è mai indipendente dal potere politico”), ma che, se le sottoponi a verifica e neanche tanto approfondita, lo sono – ovvie – a certe condizioni: nel caso della BCE, che a) la maggioranza dei membri del Consiglio direttivo esegua fedelmente i desiderata (poiché tali sono) del potere politico; b) rinunciando alla sua indipendenza sancita dalla legge, a partire dal momento stesso in cui il potere politico li ha nominati, c) sia disposta – per soddisfare quei desiderata – a disapplicare lo statuto, che, bada bene, contiene regole fissate nei trattati UE dal potere politico (ma in cui vige la regola dell’unanimità); d) assuma che per potere politico s’intenda, non l’unanimità dei Paesi EUZ, ma la Germania e satelliti, poiché i Piigs hanno altri desiderata.
        Tu giustamente obietterai: non è quello che sta succedendo? Ed allora io ti porrei l’obiezione fondamentale in uno Stato (o Unione di Stati) di diritto, che è la seguente: che la ‘moral suasion’ (da te definita impropriamente dipendenza, senza virgolette) esercitata indebitamente dal potere politico minoritario ed egemone sulla BCE svanirebbe come neve al sole nel caso in cui si denunciasse la BCE all’unica Autorità ad essa sovraordinata: la Corte di Giustizia Europea, per flagrante violazione del suo statuto e dei trattati UE. Perché anche per i misfatti della BCE c’è un giudice a Berlino.
        Ma già prevedo la tua affermazione “ovvia”: che anche la Corte di Giustizia Europea non è indipendente dal potere politico… O in questo caso ti arrenderesti? E, anziché continuare a fare affermazioni ovvie all’infinito, decideresti di dare una mano – se non altro diffondendo nel web la mia proposta – a realizzare quel che ora appare come l’unica via d’uscita rapida dal pantano in cui ci troviamo?

    • Sono convinto che anche il qe di cui parli tu (che comunque non verrà mai effettuato in un’Europa come questa qui, al massimo ripeto la Bce comprerà titoli di stato esteri non europei) non servirebbe a politiche fiscali invariate…occorre fare deficit, ampi e prolungati, li deve fare soprattutto la Germania, occorre smettere per 20 anni almeno di fare saldi commerciali positivi, lo deve fare soprattutto la Germania, questa è la precondizione necessaria e non sufficiente per uscire da questo enorme casino…poi la Bce può essere utile senzaltro, anzi essenziale, perché se fai deficit devi monetizzarlo, allora ha senso il tuo qe, ma da sola non puo’ decidere la politica economica e il modello di sviluppo del continente, non è che il re è nudo, il re non fa il suo dovere e il suo stato maggiore non puo’ prendere le decisioni al posto suo…

      • Sono d’accordo, tanto è vero che l’ho scritto pure qui 3 settimane fa, ma non pretendo che tu lo rammenti, anche se hai partecipato alla discussione; né si può scrivere ogni volta tutto, ripetendosi.
        Il re è nudo ovviamente era riferito alla BCE.
        Lo Stato maggiore è indipendente dai politici ed ha come riferimento esclusivamente il proprio statuto e la propria coscienza di funzionari pubblici lautamente pagati dalla collettività europea al cui servizio (teoricamente) essi operano.

        vincesko 27 agosto 2014 alle 15:57
        1. La BCE, nell’attuale struttura monca dell’assetto UE, è il vero ganglio del sistema, dire che non è ‘la’ causa dei problemi è vero, ma sicuramente è una delle concause, attualmente la principale, sia per quello che fa (continuare a suggerire l’austerità), sia per quello che non fa, violando il suo stesso statuto (art. 2).
        2. La proposta di aumentare il credito è uno dei provvedimenti necessari, ma non sufficienti; occorre integrarlo con una politica fiscale, ma per attuarla è indispensabile, visti i vincoli UE, che la BCE dia i soldi –molti soldi – agli Stati, poiché solo lei ha i soldi, ad esempio per comprare il loro debito e alleviare la spesa per interessi, destinandone il risparmio alla crescita economica e dell’occupazione. In alternativa, in Italia, c’è il varo di una corposa imposta patrimoniale sui ricchi (5% delle famiglie), a bassa propensione al consumo; ovvero, in UE, il varo degli EuroUnionBond (proposta Prodi-Quadrio Curzio): fondo di 1,000 mld garantito dall’oro e da asset pubblici, per mobilitare (moltiplicatore 3) un ammontare complessivo di 3.000 mld, da destinare parte alla riduzione del debito pubblico e parte alla crescita economica e dell’occupazione.

        Uscire dall’euro o “uscire” da questa BCE?

    • Non avertene a male non c’è vis polemica nei miei interventi, cerco solo, come è mio costume di ragionare sulle cose…allora io dico semplicemente che prendersela con la Bce, con questa Bce a guida Draghi che è bene ricordarlo, è migliore 100 volte di quella precedente e tutto lascia presagire di una qualunque Bce a guida non-Draghi, è un errore strategico fatale in una guerra, visto che e’ così che hai detto la consideri tu.
      È alquanto evidente che Draghi cerca di destreggiarsi tra mille difficoltà per tenere a bada un board recalcitrante, pieni di nemici veri non del sud-Europa bada bene, ma di tutta l’Europa, visto che la visione credo comune ad entrambi è che questa sorta di neoideologia calvinista-mercantilista, porterà allo sfacelo l’Europa intera…se non fosse stato per Draghi noi la guerra l’avremmo già abbondantemente persa, ora tu cosa vorresti fare? Denunciarlo? E perche’ di grazia? Perché non rispetta un codicillo del suo statuto? Uno statuto che cerca di garantire per legge l’impossibile, cioe’ che la banca centrale è indipendente dal potere politico? Scrive Casanova nella sua histoire, un libro che solo pochi riescono a cogliere per quel che è, vale a dire un ottimo manuale di filosofia, specie politica ed economica, scrive dicevo che solo un legislatore stupido fa una legge che non e’ possibile osservare! Per come la vedo io quindi, come strategia di “guerra” è molto piu’ utile denunciare al tribunale della stupidità coloro che hanno impostato l’unione europea su queste basi ridicole e con queste regole demenziali, dimostrandone appunto la loro demenzialita’ e mostrandone apertamente i danni che hanno già arrecato e quelli che produrranno in futuro. Dopodiché come in ogni guerra che si rispetti cercherei alleati, ce n’è uno in particolare dall’altra parte dell’Oceano bello grosso, che ci ha già aiutato parecchio in un’altra guerra mezzo secolo fa, guarda caso proprio contro dei nemici che popolavano la medesima regione dei nemici di oggi, strana la vita a volte eh? Credo che non vedrebbero l’ora di aiutarci ancora…

      • 1. Gioco dell’oca.
        E’ che a te – mi pare – piace il gioco dell’oca: un passo avanti e uno indietro, purché si resti alla casella di partenza. A me no. Ma non c’è problema.
        Anche in quest’ultimo commento, tu fai un’obiezione sensata (se si denunciasse la BCE, ci sarebbero conseguenze sulla stessa), ma la “sporchi”, prima cambiando l’oggetto della denuncia (Draghi e non la BCE), poi ne trai conseguenze arbitrarie o almeno non automatiche (le dimissioni o forse addirittura la rimozione di Draghi) e pessimistiche (al suo posto arriverà uno peggiore). Certamente, un’eventuale pronuncia della Corte di Giustizia Europea sfavorevole alla BCE produrrebbe degli effetti seri, ma non necessariamente quelli che tu paventi. Sarebbe come affermare che ogni qual volta la Corte di Giustizia Europea sanziona l’Italia (è già successo decine. forse centinaia di volte) il governo o il ministro competente si dimette. Non è mai successo.

        2. Guerra.
        Intanto, preciso che quando parlo di guerra non mi riferisco alla BCE ma alla competizione-trasformazione epocale economica planetaria, che è la causa prima dell’attuale depressione economica italiana.
        Per me, il quadro delle determinanti è questo: Si tratta di una crisi economica frutto in primo luogo, appunto, della trasformazione epocale planetaria in corso già da un decennio, che sta rivoluzionando la distribuzione della produzione, della ricchezza e del benessere consolidatasi negli ultimi 250 anni (a metà del 1700, il Paese più ricco al mondo era la Cina e uno dei più ricchi l’Indostan).
        In secondo luogo, la crisi è esacerbata nell’Eurozona dall’assetto monco dell’UE, dell’Euro e della BCE, che non contempla i necessari correttivi degli squilibri tra i Paesi che hanno in comune la moneta, ma strutture economiche disomogenee.
        Ed, in terzo luogo, dall’egoismo della egemone Germania (e suoi satelliti), che trae tutti i vantaggi da questo assetto monco e non intende rinunciarvi.
        Osservo, infine, che, per quanto riguarda in particolare la situazione italiana, anche professori di Economia (da ultimo, 3 giorni fa Francesco Daveri sul “Corriere della Sera”, cfr. “Malati d’Europa e sorvegliati speciali”) danno la colpa a Monti e ignorano o fanno finta di ignorare che la vera causa dell’attuale recessione (oltre ad altre cause preesistenti) sono le sesquipedali ed inique manovre correttive varate dal governo Berlusconi-Tremonti nella scorsa legislatura (valore cumulato di 267 mld, contro i 63 mld di Monti), ma le cui misure permanenti dispiegano tuttora i loro effetti.

        3. Soluzioni.
        USA. Ora, in questo quadro piuttosto complicato, tu sostieni che la soluzione non debba essere quella “interna” di denunciare la BCE, che è – rammento – solo un’extrema ratio, ma che appare come l’unica via d’uscita dal pantano, perché, pur essendo venute meno le basi teoriche della politica di austerità propugnate dalla corrente mainstream e applicate ai Paesi in crisi economica negli ultimi decenni prima dal solo FMI ed ora dalla troika (FMI, UE e BCE), ed abbandonate anche da famosi neo-liberisti che le propugnavano (Giavazzi, Tabellini, Zingales, Alesina, Guiso), i quali chiedono ora un intervento pubblico, sia al governo italiano, sia alla BCE, gli organismi internazionali ciurlano nel manico e sono renitenti a cambiare la terapia (non più tardi di pochi giorni fa, al summit UE a Milano, hanno detto esplicitamente che non possono allentare i cordoni della borsa perché se no gli Stati frenerebbero gli sforzi di risanamento; ma sostieni, dicevo, che debba essere quella “esterna” di chiedere un intervento degli USA. Ma mi è facilissimo eccepire che gli USA lo stanno chiedendo da 5 anni alla Germania di cambiare politica economica, ma invano. A dimostrazione di ciò, riporto quanto l’ex Segretario al Tesoro USA ha scritto nel suo libro, che ha avuto molta eco sui media italiani, poiché vi si parla anche del supposto complotto per far cadere Berlusconi:
        “L’ex ministro Usa: funzionari europei ci proposero di far cadere Silvio”
        Nell’estate del 2011la situazione era peggiorata, però «la cancelliera Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso», anche perché «non le piaceva come i ricettori dell’assistenza europea – Spagna, Italia e Grecia -stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse». (cfr. il mio post “Analisi parziale del complotto contro Berlusconi”).
        In esso, Geitner rivela anche il suo lavoro di persuasione su Draghi perché facesse, insieme, quel che serviva per uscire dalla crisi economica. Draghi qualcosa, infatti, fece, ma fu tantissimo come mere dichiarazioni, rivelatesi determinanti a spegnere l’incendio dello spread, troppo poco come misure effettive anti-crisi.
        Referendum. Infine, osservo che anche gli economisti italiani, visti vani gli appelli, i libri, gli innumerevoli articoli scritti per convincere il potere politico a cambiare rotta, hanno deciso intelligentemente di indire il referendum contro l’austerità, pur consapevoli che si tratta di un atto simbolico (verrebbero abrogate soltanto le parti peggiorative degli stessi obblighi UE, decise dal governo Monti), ma che ciononostante potrebbe rivelarsi, se non decisivo, almeno molto più produttivo di effetti concreti positivi. .
        Conclusione.
        Per concludere, ripeto ciò che ho già scritto qui in calce a “John Maynard Giavazzi (o quasi)”:
        Dato l’evidente, enorme squilibrio delle forze e degli interessi contrapposti, io sommessamente penso che occorra seguire l’esempio dei vecchi socialisti e sindacalisti a cavallo tra l’800 e il ‘900 (fino ad allora le leggi e l’apparato poliziesco venivano usati esclusivamente dai padroni contro i lavoratori): UTILIZZARE AL MEGLIO LE LEGGI E GLI ORGANI DEPUTATI A FARLE RISPETTARE.
        Quindi, da una parte, occorre contare ed appoggiarsi il più possibile sull’unico organo europeo, pur con i suoi limiti decisionali, davvero democratico: il Parlamento Europeo. Dall’altra, attaccare e stanare il ganglio vitale: la BCE. Perciò sto proponendo di denunciare la BCE alla Corte di Giustizia Europea per violazione del suo statuto e dei trattati UE.

        John Maynard Giavazzi (o quasi)

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      Cercando di essere più schematico e conciso possibile:
      1. Non è che a me piace il gioco dell’oca, sono le soluzioni estemporanee che inevitabilmente giungono ad un punto morto;
      2. Guerra: occorre intendersi chi sono i nemici, che risultati si vogliono raggiungere e qual è la strategia migliore da mwttere in campo per ottenerli, se no si corre il rischio di impallinare i tuoi incursori avanzati nelle file nemiche; allora la guerra la dobbiamo fare ad un certo modo di intendere la macroeconomia e la globalizzazione più in generale, che ci porterà allo sfacelo sociale e a tensioni geopolitiche sempre più forti. La Bce è uno strumento al servizio della politica, tecnicamente indipendente ma de facto asservita al pensiero dominante, è scontato che sia così, e’ ripeto corretto che sia così, altrimenti avremmo un organismo autoreferenziale che decide buona parte della politica economica di un continente; è poi inutile cercare di modificare lo strumento senza modificare le intenzioni di chi adopera lo stesso, e d’altra parte se vinciamo la nostra guerra, cioè riusciamo a cambiare le vision strategiche dei policy makers europei, a quel punto lo strumento sarà adoperato nel modo opportuno; la guerra dunque non è una crociata santa contro la globalizzazione, che è un fatto ineluttabile e tutto sommato anche positivo, se siamo autenticamente solidali e promotori dell’uguaglianza dei diritti, impossibile da ottenere senza una più compiuta uguaglianza economica globale, ma dei modi con i quali la globalizzazione stessa va gestita, che non è certo questa folle idea di competere tutti contro tutti in una perenne lotta all’ultimo sangue.
      3. Sottovalutiamo sempre troppo l’enorme potenziale di moral suation del mondo anglosassone nei confronti del resto del mondo…soprattutto nei confronti di una nazione per la quale il mondo anglosassone rappresenta il miglior cliente, del resto è curioso come lei stimi significativi i referendum sul nulla e le denunce più o meno a casaccio e sottovaluti invece il potere coercitivo di una eventuale strategia comune, politica e diplomatica, ma in seguito anche economica di Usa, uk, Francia, italia, spagna, nei confronti di una parte tedesca…

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        1. Anche con quelle non estemporanee.
        2. Guerra. Non bisogna complicare le cose semplici. Io di solito, quando affronto un problema complesso cerco di dividerlo in parti più semplici senza perdere di vista le interrelazioni. Sono d’accordo con te che la globalizzazione può essere un’opportunità, ma il gioco dev’essere equo. Ed ora non lo è. E’ nemico chi non rispetta questo principio, Può essere la Cina, ma può essere anche la Germania o la BCE.
        3. Premesso che io non disdegno l’aiuto di nessuno, né tanto meno di una potenza come gli Usa, ti ho dimostrato che finora la pressione USA sulla Germania è stata del tutto inefficace. Nella scorsa puntata di “Ballarò”, Prodi ha detto 3 cose importanti: a) che il sistema UE nelle intenzioni originarie dei leader doveva essere completato passo passo, b) che ora è incompleto e c) perché manca una vera leadership e non va bene che sia la Germania da sola (non c’è più neppure la diarchia con la Francia) a comandare. Che si fa, si continua ad aspettare che l’intervento USA sortisca qualche effetto o si sperimenta qualche altra strada per evitare che la barca affondi? Anche i popoli, non soltanto gli individui, hanno una psicologia. Primo Levi scrive (ne ‘La Tregua’) che i Tedeschi sono arroganti. Dostoevskij scrive (‘Memorie dalla casa dei morti’): “Di certo si doveva credere un uomo molto intelligente, come accade per solito a tutti gli uomini ottusi e limitati”. L’arroganza dei Tedeschi rasenta l’ottusità, ma ovviamente c’è anche un calcolo egoistico da ‘bottegai’: l’attuale UE li favorisce ed essi inclinano irresistibilmente a prendere solo i vantaggi e non ad assumersi anche gli oneri di Paese leader. E’ vano e/o ci vuole troppo tempo (per) convincere i Tedeschi; qualcuno arriva ad affermare che essi sono talmente arroganti e ottusi che non cambieranno neppure quando ci smeneranno anche loro (come in parte sta già succedendo). Nessuno convincerà la Germania, allora cerchiamo un’altra opzione. Io l’ho individuata nella denuncia della BCE; non sono un esperto, ma ritengo che anche un gruppo di cittadini, o forse persino uno solo, possa presentare un esposto-denuncia contro la BCE alla Corte di Giustizia Europea. Chissà, forse “chianci-piero” l’ha già fatto e ce lo tiene nascosto (v. discussione in https://keynesblog.com/2014/08/22/john-maynard-giavazzi-o-quasi/#more-5701 ).
        Tu, intanto, elabora la tua strategia meditata, realizzala e facci sapere. Auguri.

  3. Fassina (e Acocella, ecc…) avrà le palle per dissociarsi dall’abolizione dell’articolo 18 o no? a parole lo fa da mesi…ma nei fatti?

  4. vorrei dire che in questo momento invidio gli economisti perche essi riescono a districarsi con i ragionamenti dalle fitte nebbie che avvolge il sistema economico complessivo . l,economia attuale è come un puzzle dove non solo si deve trovare il pezzo mancante , ma si devono anche capire (la logica per cui quel pezzo) non è al suo posto. trovo perfino ripetitivo (ma andava fatto) il fatto che il new deal si fondava su gran parte delle analisi e soluzioni keynesiani. attualmente penso che l,attuale crisi ha solo una vaga somiglianza (anche se i fattori che l,hanno determinati in gran parte non sono dissimili ) da quelli (vista che il sistema che l,ha generato è piu o meno lo stesso) tuttavia penso che le soluzioni attuali per il superamento della crisi vada necessariamente risolta comprendendo e risolvendo tutti i fattori peculiari a partire dalla questione europea e di conseguenza dell,euro. 1) perche se l,europa fosse (ma non lo è ) una comunita sono convinto che draghi o chi per esso potrebbe fare qualsiasi magia per inventarsi le risorse necessarie a far ripartire l,economia in zona euro 2) purtroppo in italia ma complessivamente nel sud europa manca un progetto che sia alternativo alle attuali politiche economiche (imposte e finora sbagliate per noi) imposte dal nord europa e di cui la bce e solo il braccio esecutivo. rispetto al fatto che le economie piu forti dovrebbero favorire la liquidita ai piu deboli lo trovo giusto, ma qualcuno potrebbe dirmi chi detiene l,euro forte e chi quello debole all,interno della stessa “comunita” e come è possibile che chi ha l,euro debole in UE puo favorire la liquidita ai paesi a giovane capitalismo.

  5. “Ma allora perché l’ossessiva insistenza sulla riforma del mercato del lavoro (che simbolicamente riappare in Italia con la definitiva cancellazione dell’art. 18)?”
    Dato che non svalutiamo l’euro svaluteremo gli europei!

  6. Avremmo bisogno di politici più giovani e preparati…come lui, per capirci:

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