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Keynes e i fallaci pressupposti del liberismo darwiniano

jmk“Liberiamoci dai principi metafisici del liberismo” – scrive Keynes in La fine del Laissez-faire nel 1926 – “Non è una deduzione corretta dai principii di economia che l’interesse egoistico illuminato operi sempre nell’interesse pubblico”. L’evoluzione darwiniana, basata sulla sopravvivenza del più adatto attraverso la morte, la fame e la carestia, non è affatto un buon modello per le società umane.

di John Maynard Keynes

Cairnes, nella conferenza di introduzione su L’economia politica e il lasciar fare, che fu pronunciata all’University College di Londra nel 1870, fu forse il primo economista ortodosso che lanciò un attacco frontale contro il laissez-faire in generale. «La massima del laissez-faire», egli dichiarò, «non ha alcuna base scientifica, ma è tutt’al più una semplice e comoda regola pratica».

(Cairnes descriveva bene la «nozione prevalente» nel seguente passo della stessa conferenza: «La nozione prevalente è che l’economia politica si prefigge di mostrare che la ricchezza può venire più rapidamente accumulata e meglio distribuita, ossia che il benessere umano può essere promosso più efficacemente, grazie al semplice sistema di lasciare la gente a sé stessa; cioè lasciando che gli individui seguano i suggerimenti dell’interesse egoistico, senza limitazioni da parte dello Stato o della pubblica opinione, purché si astengano dalla violenza e dalla frode. Questa è la dottrina nota comunemente come laissez-faire: e di conseguenza l’economia politica è, credo, molto comunemente considerata come una specie di versione scientifica di questa massima, una rivendicazione della libertà di iniziativa privata e della libertà di contrattazione come l’unica e sufficiente soluzione di tutti i problemi industriali »).

Questa, per gli ultimi cinquant’anni, è stata l’opinione di tutti i principali economisti. Per offrire solo un esempio, una parte del lavoro più importante di Alfred Marshall fu diretta all’indagine dei casi più notevoli in cui l’interesse privato e l’interesse sociale non sono armonici. Ciò nonostante l’atteggiamento cauto e privo di dogmi dei migliori economisti non è prevalso contro l’opinione generale che un lasciar fare individualistico è sia quanto essi dovrebbero insegnare, sia quanto essi in realtà insegnano.

Gli economisti, come altri scienziati, hanno scelto l’ipotesi dalla quale partono e che essi offrono ai principianti perché è la più semplice e non perché sia la più vicina ai fatti. In parte per questa ragione, ma in parte, ammetto, perché sono stati influenzati dalle tradizioni in materia, essi hanno cominciato col presupporre uno stato di cose in cui la distribuzione ideale delle risorse produttive può essere ottenuta attraverso individui agenti indipendentemente secondo un metodo sperimentale, in guisa tale che coloro che si muovono nella direzione giusta distruggano per mezzo della concorrenza quelli che si muovono nella direzione sbagliata. Ciò presuppone che non vi sia grazia né protezione per quanti indirizzino il loro capitale o il loro lavoro nella direzione sbagliata. È un metodo che porta verso l’alto i ricercatori di guadagno cui arride il successo, grazie ad una spietata lotta per la sopravvivenza, attraverso la quale si seleziona il più efficiente per mezzo del fallimento del meno efficiente. Tale metodo non tiene conto del costo della lotta, ma solo dei vantaggi del risultato finale, i quali si suppongono essere permanenti. Se lo scopo della vita è quello di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo più facile di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto.

Corrispondentemente a questo metodo di raggiungere la distribuzione ideale degli strumenti di produzione fra scopi differenti, vi è una supposizione comune circa il modo di ottenere la distribuzione ideale di quanto è disponibile per il consumo. In primo luogo ogni individuo scoprirà ciò di cui, fra gli oggetti possibili di consumo, egli abbisogna di più, col metodo sperimentale marginale, ed in questo modo non solo ogni consumatore verrà a distribuire il proprio consumo nel modo più vantaggioso, ma ogni oggetto di consumo troverà la propria strada fino al consumatore la cui attrattiva per esso è massima, a confronto di quella degli altri, giacché quel consumatore supererà gli altri con la propria offerta. Così, se lasciamo le giraffe a sé stesse: (1) si coglierà la massima quantità di foglie, giacché le giraffe dal collo più lungo, a forza di far soffrire la fame alle altre, arriveranno più vicine agli alberi; (2) ogni giraffa ricercherà le foglie che trova più succulente, fra quelle che può raggiungere; e (3) le giraffe il cui desiderio per una data foglia è massimo protenderanno di più il collo per raggiungerla. In questo modo saranno ingoiate più numerose e più succose foglie e ogni singola foglia raggiungerà la bocca che la giudica meritevole del massimo sforzo.

Però questa supposizione di condizioni in cui una selezione naturale illimitata porta al progresso è solo una delle due ipotesi provvisorie che, prese come verità letterali, sono diventate le due colonne che sostengono il laissez-faire. L’altra è l’efficacia e, in sostanza, la necessità delle occasioni di guadagni privati illimitati come incentivo al massimo sforzo. Il profitto, in un sistema di laissez-faire, va a vantaggio dell’individuo il quale, sia per abilità che per fortuna, si trova con le risorse produttive nel posto opportuno e al momento giusto. Un sistema che permette all’individuo abile o fortunato di cogliere l’intero frutto di questa congiuntura offre evidentemente un immenso incentivo alla pratica dell’arte di trovarsi nel posto opportuno e al momento giusto. Così uno dei più potenti fra i moventi umani, l’amore del denaro, è asservito al compito di distribuire le risorse economiche nel modo meglio calcolato per accrescere la ricchezza.

Il parallelismo già accennato, fra il laissez-faire economico ed il Darwinismo appare ora, come Herbert Spencer riconobbe per primo, essere molto stretto. Proprio come Darwin invocava l’amore sessuale, agente attraverso la selezione sessuale, come cooperante alla selezione naturale per mezzo della concorrenza per dirigere l’evoluzione lungo linee che dovrebbero essere tanto desiderabili che efficaci, così l’individualista invoca l’amore del denaro, agente attraverso la ricerca del profitto, come cooperante alla selezione naturale per provocare la produzione nella massima misura possibile di quanto è più fortemente desiderato, misurato in valore di scambio.

Sono tanto grandi la bellezza e la semplicità di una tale teoria che è facile dimenticare come essa non derivi dai fatti concreti, ma da un’ipotesi incompleta introdotta per amor di semplicità. A parte altre obiezioni da menzionarsi più tardi, la conclusione che gli individui agenti indipendentemente per il proprio vantaggio producano il massimo volume complessivo di ricchezza dipende da una varietà di presupposti irreali, come ad esempio che i processi di produzione e consumo non sono in alcun modo organici, che esiste una sufficiente conoscenza preventiva delle condizioni ed esigenze e che vi sono possibilità adeguate di ottenere questa conoscenza. Perciò gli economisti in genere riservano ad una fase posteriore del loro ragionamento le complicazioni che sorgono : (1) quando le unità efficaci di produzione sono grandi rispetto alle unità di consumo; (2) quando sono presenti costi generali o costi connessi; (3) quando le economie interne tendono ad estendersi al complesso della produzione; (4) quando il tempo necessario per gli adeguamenti è lungo; (5) quando l’ignoranza prevale sulla conoscenza ; e (6) quando monopoli e combinazioni interferiscono con l’eguaglianza nelle negoziazioni – essi riservano, per così dire, ad una fase successiva la loro analisi dei fatti reali. Per di più, molti di quelli che riconoscono che la ipotesi semplificata non corrisponde accuratamente al fatto, concludono ciononostante che essa rappresenta ciò che è «naturale» e perciò ideale. Essi considerano l’ipotesi semplificata come benessere e le ulteriori complicazioni come malattia,

Tuttavia, oltre questa questione di fatto, vi sono altre considerazioni, abbastanza semplici, che includono giustamente il costo ed il carattere della lotta di concorrenza e la tendenza della ricchezza di distribuirsi dove non è apprezzata al massimo. Se abbiamo a cuore il benessere delle giraffe, non dobbiamo trascurare le sofferenze di quelle dal collo più corto, che sono affamate, né le dolci foglie che cadono a terra e che vengono calpestate nella lotta, né la supernutrizione delle giraffe dal collo lungo, né il cattivo aspetto di ansietà e di voracità combattiva che copre i miti visi del gruppo […].

[L]’individualismo ed il laissez-faire, malgrado le loro profonde radici nella filosofia morale e politica della fine del secolo XVIII e del secolo XIX, non avrebbero potuto assicurarsi il dominio duraturo sulla condotta degli affari pubblici, se non fosse stato per la loro conformità con i bisogni e i desideri del mondo degli affari di allora. Essi davano pieno campo d’azione ai nostri eroi d’una volta, i grandi uomini d’affari. «Almeno metà della migliore abilità del mondo occidentale», usava dire Marshall, «è occupata negli affari». Una gran parte della «più alta immaginazione» di quel tempo era così impiegata. Era sulle attività di questi uomini che erano incentrate le nostre speranze di progresso.

«Uomini di tal classe», scrisse Marshall (The Social Possibilities of Economic Chivalry, in Economic Journal – 1907, XVII, pag. 9) «vivono in visioni continuamente mutevoli, prodotte nei loro cervelli, delle varie vie che portano al loro scopo desiderato; delle difficoltà che la Natura opporrà loro sul rispettivo cammino e degli espedienti con i quali essi sperano di avere la meglio sulla sua opposizione. Questa immaginazione non gode di molto credito fra il popolo, poiché non le è concesso di abbandonarsi ad eccessi; la sua forza è disciplinata da una volontà superiore; e la sua massima gloria è di aver raggiunto grandi risultati con mezzi tanto semplici che nessuno saprà, e solo gli esperti arriveranno ad indovinare, come una dozzina di altri espedienti, ciascuno dei quali appare egualmente brillante all’osservatore frettoloso, fossero messi da parte a vantaggio di uno. L’immaginazione di un tale uomo è impiegata, come quella del maestro di scacchi, nel prevedere gli ostacoli che possono opporsi all’esito favorevole dei suoi progetti lungimiranti e nell’eliminare costantemente idee brillanti perché egli si è già reso conto delle contromisure che vi si oppongono. La sua potente forza nervosa è all’estremo opposto della natura umana da quella nervosa irresponsabilità che concepisce frettolosi progetti utopistici e che si deve piuttosto comparare alla baldanzosa faciloneria del giocatore debole che vuole risolvere alla svelta i più difficili problemi di scacchi mettendosi a muovere da sé stesso sia i pezzi bianchi che i neri».

Questo è un bel quadro del grande capitano di industria, il maestro-individualista, che serve noi nel servire sé stesso, proprio come qualunque altro artista. Ma questo, a sua volta, è un idolo che si sta offuscando; noi dubitiamo sempre più se è lui che ci condurrà per mano in Paradiso.
Questi numerosi elementi hanno contribuito al pregiudizio intellettuale corrente, alla impalcatura mentale, all’ortodossia del giorno. È scomparsa la forza costrittiva di molti tra i motivi originali ma, come al solito, la vitalità delle conclusioni sopravvive a quelli. Suggerire un’azione sociale per il bene pubblico alla City of London è come discutere l’Origine delle Specie con un vescovo sessant’anni fa. La prima reazione non è intellettuale, ma morale; un’ortodossia è in questione e quanto più persuasivi sono gli argomenti tanto più grave sarà l’offesa. Ciò non di meno, avventurandomi nell’antro del mostro letargico, ho tracciato almeno le sue pretese e la sua discendenza, in modo da mostrare che esso ci ha dominati piuttosto per diritto ereditario che per merito personale.

Liberiamoci dai principii metafisici o generali sui quali, in varie occasioni, si è basato il laissez-faire. Non è vero che gli individui posseggano una «libertà naturale» nelle loro attività economiche. Non vi è alcun patto che conferisca diritti perpetui a coloro che posseggono o a coloro che acquistano. Il mondo non è governato dall’alto in modo che gli interessi privati e sociali coincidano sempre. Esso non è condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidano. Non è una deduzione corretta dai principii di economia che l’interesse egoistico illuminato operi sempre nell’interesse pubblico. Né è vero che l’interesse egoistico sia generalmente illuminato; più spesso individui che agiscono separatamente per promuovere i propri fini sono troppo ignoranti o troppo deboli persino per raggiungere questi. L’esperienza non mostra che gli individui, quando costituiscono un’unità sociale, siano sempre di vista meno acuta di quando agiscono separatamente.

Fonte.

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13 commenti su “Keynes e i fallaci pressupposti del liberismo darwiniano

  1. Tanto per cominciare, dicendo “… gli economisti e gli altri scienziati” fai un grosso torto agli scienziati. L’economia NON è una scienza, almeno fino a quando potremo vedere esperimenti replicati a distanza in laboratori diversi che danno lo stesso risultato.
    Secondo, subito dopo accomuni economisti e scienziati nello scegliere ipotesi semplici anche se distanti dai fatti. Questo è un modus operandi che con ogni evidenza appartiene all’economia; mentre in ambito scientifico mi sembra che ogni ipotesi “semplificativa” venga adottata sempre solo e soltanto entro i limiti della semplificazione, vale a dire: finché vale nel condurre a risultati aderenti alla realtà. E la sperimentazione serve proprio a verificare questo: quanto l’ipotesi di partenza possa condurre a risultati aderenti alla realtà osservata.

    Ed infatti “gli economisti” così facendo hano sbagliato sin da subito: “… In parte per questa ragione, ma in parte, ammetto, perché sono stati influenzati dalle tradizioni in materia, essi hanno cominciato col presupporre uno stato di cose in cui la distribuzione ideale delle risorse produttive può essere ottenuta attraverso individui agenti indipendentemente secondo un metodo sperimentale, in guisa tale che coloro che si muovono nella direzione giusta distruggano per mezzo della concorrenza quelli che si muovono nella direzione sbagliata”. Si trascurano il banale fatterello che la natura può contare su NUMERI e su TEMPI enormi, su scale di grandezza che non attengono nemmeno lontanamente all’esistenza umana, intesa sia come individuale che come riferita alla specie; perché il numero dei fallimenti in natura è enorme, tale che se applicato all’economia implicherebbe una vita di sofferenza per la stragrande maggioranza degli individui; e perchè, per quanto attiene strettamente alla competizione industriale, viene trascurato l’altro banale fatterello che va sotto il generico nome di “fortuna”. Mi spiego con un esempio: in cosa consiste il merito per una società di software che casualmente si trova ad avere sede nelle immediate vicinanze di chi in IBM sta sviluppando i primi pc aziendali? Il risultato è sotto gli occhi di tutti: i sistemi operativi per pc di gran lunga più diffusi sono anche quelli di gran lunga peggiori.

    Poi non vado più avanti perché trovo persino irrispettoso usare così tante parole per discorerre di così enormi banalità. La critica al laissez faire è sin troppo ovvia: esattamente come dire che la legge della jungla non si adatta alla società umana. Grazie al cavolo. La società umana perdo ogni senso nel momento in cui viene “regolata” dalla legge del più forte. Lascio solo uno spunto: non è che alla fine, in mancanza di regole certe e ben solide, oppure in presenza di entità in grado di agire sulle stesse regole, la tendenza sia inevitabilmente quella di andare verso la legge della jungla, in quanto chi comanda e si trova ad essere il più forte finisce (o comincia …) col volerne approfittare? E non è che ormai da decenni, e specialmente dalle nostre parti, il più forte è lo Stato, anzi, per meglio dire, la politica che governa lo Stato?

    • L’economia è una scienza sociale, quindi sì…è annoverabile tra le scienze.

      • L’economia si annovera tra le scienze da sola.
        “Le regole che governano il procedimento di acquisizione di conoscenze scientifiche sono generalmente conosciute come metodo scientifico. Gli elementi chiave del metodo scientifico sono l’osservazione sperimentale di un evento naturale, la formulazione di un’ipotesi generale sotto cui questo evento si verifichi e la possibilità di controllo dell’ipotesi mediante osservazioni successive, dirette in natura o attraverso la riproducibilità tramite esperimenti in laboratorio.” (Wikipedia).
        All’economia manca del tutto la “possibilità di controllo”, a causa della complessità dell’oggetto. Anzi. Già sull'”osservazione sperimentale” ci sarebbe parecchio da ridire.

      • E’ una scienza che, come diceva Max Weber, si costruisce il proprio oggetto, non lo trova già fatto, come accade per il fisico o per il chimico. Costruire il proprio oggetto vuol dire compiere un’operazione culturale, esercitare una selezione tra i fatti giudicati significativi ai fini di una certa tesi e trascurare gli altri. Un fisico non può trascurare qualche aspetto dell’oggetto da esaminare, altrimenti la sua teoria non funziona, viene smentita. Uno scienziato sociale può variare l’oggetto e adattarlo alla spiegazione (si ricordi cosa diceva Popper a proposito dello storicismo marxista).Non si tratta di una differenza da poco, per cui possiamo certamente usare la parola scienza per indicare le scienze sociali e quelle della natura, ma dobbiamo tenere presente che in realtà analizzano fenomeni molto diversi e che la capacità di previsione dei fenomeni che ne deriva non è omogenea.

    • Solo una precisazione: il testo è di Keynes :)

  2. Una qualche base “scientifica”, tenendo presente che si parla di comportamenti umani, si puo’ anche concedere: persino Marx ammette che la borghesia, con il suo capitalismo, ha trasformato il mondo…

  3. Evitando di fare discussioni filosofiche che lasciano il tempo che trovano ci sono alcuni studi e risultati che dovrebbero far riflettere sulla questione: a) il primo teorema dell’economia del benessere dimostra che in condizioni di mercato perfettamente concorrenziale e senza considerare i fallimenti di mercato , il gioco della libera concorrenza arriva automaticamente a un “ottimo paretiano” , su questo punto due riflessioni , l’ottimo paretiano che si raggiunge non è equo perchè si parte da condizioni date e comunque per assicuarre la libera concorrenza ci vuole un arbitro ovvero lo Stato b) il secondo terorema dell’economia del benessere afferma che si puo raggiungere un determinato ottimo ( quindi anche più equo) se si cambiano le condizioni iniziali, Riflessioni sul punto, rientra in gioco lo Stato per definire le condizioni di partenza e inoltre quali sono i criteri di decisione ?( scelta sociale), Su questo Arrow ci dice con il teorema dell’impossibilità, che scelte sociali perfettamente democratiche sono complicate e non banali ovvero si pone il problema di come garantire un effettiva democrazia delle scelte ( problema istituzionale) c) la teoria dei giochi e l’equilibrio di Nash dimostra che tali equilibri non sono ottimi paretiani e quindi le scelte individuali non garanticono neanche il raggiungimento dell’ottimo paretiano d) Sen ha dmostrato infine anche che l’efficienza paretiana non si concilia con una completa libertà. Conclusioni : difidate da chi produce slogan semplicistici del tipo il mercato è migliore e lo Stato crea solo problemi o anche viceversa che solo lo Stato puo risolvere tuttii problemi, la realtà è piu complessa e gli studi economici più recenti lo mettono bene in evidenza. E. visto che lo Stato comunque ha un ruolo fondamentale dovremmo preoccuparci tutti affinchè ci sia più democarzia e istituzioni migliori , basta vedere cosa succede in Europa dove il potere è in mano alla Troika non democraticamente eletta.

    • Aggiungo il teorema di Lipsey-Lancaster (che i liberisti non citano mai): se le condizioni di concorrenza perfetta non sono tutte presenti contemporanemanete (cioè sempre nel mondo reale), aumentare la concorrenza non migliora l’allocazione efficiente delle risorse.

    • Lo Stato non deve entrare in gioco ma è il banco colui che deve dare le carte (il denaro) a chi gioca ( aziende , privati e Stato stesso quando occorre) perché lo crea ex nihilo.
      Non come ora che siede al tavolo da gioco e compete con aziende e privati. Poi per assurdo, come per aziende e privati,o per avere denaro per i suoi compiti istituzionali si deve indebitare con altri privati che creano il denaro ex nihilo!!!

  4. Grande Keynes! Maestro di epistemolgia e di empirismo. Uno dei più grandi pensatori del 900 e non solo un grande maestro di economia.

  5. Rimanendo, per fare un esempio, nella passione per il gioco del calcio, si possono individuare varie preferenze a livello individuale, quali giocare, guardare una partita alla TV, giocare una partita simulata su PC, giocare a Subbuteo, etc. I componenti di un gruppo di amici potranno ordinare le preferenze in maniera diversa. Diverse procedure democratiche (maggioranza semplice, doppio turno, premio di maggioranza, etc.) potrebbero condurre a decisioni diverse, o anche all’impossibilita’ di prendere una decisione. Se le preferenze sono ordinate in maniera incoerente, passando da un individuo all’altro, non esiste procedura che le possa tradurre in un ordinamento coerente condiviso. Un consenso democratico su un ordine di priorita’ si raggiunge solo nella misura in cui le preferenze individuali sono ordinate nella stessa maniera, con vari risultati possibili fra i punti limite del consenso unanime e del cortocircuito.

    Si potrebbe, come soluzione alternativa, istituire uno specifico mercato, consentendo a ciascuno di comprare la partecipazione altrui: mettiamo 4 proposte e 4 amici, diamo a ciascuno un budget di 4 “buoni-calcio”. Dato il sistema dei prezzi (posso spendere 4 per comprare 3 adesioni alla mia prima scelta, ma ne posso prendere 12 per vendermi all’ultima mia scelta) un ottimo paretiano si raggiunge, ma non e’ affatto detto che si raggiunga, su uno dei quattro programmi “calcistici”. Le risorse complessive saranno a quel punto distribuite in maniera diseguale, ma efficiente, se nessuno vuole piu’ scambiare i suoi buoni (nessuna transazione e’ piu’ possibile perche’ una delle due parti non ne vede il vantaggio). Ovviamente, l’operazione viene resa possibile solo dall’impegno a ripeterla: e nelle successive occasioni i buoni passeranno di mano nuovamente e la decisione finale sara’ diversa (mentre, se non si cambia la procedura decisionale, e date come immutabili le preferenze individuali, la decisione democratica rimarra’ la stessa). Per spiegare quale fra gli “ottimi paretiani” viene raggiunto, o per quale motivo esso non venga raggiunto (ognuno sta a casa sua e conserva i buoni per il fine settimana successivo, due si guardano la partita e gli altri due giocano sul PC, etc.), bisogna tirare in ballo ulteriori variabili (quali l’esistenza o meno di una regola di esplicitazione delle proprie preferenze prima della contrattazione vera e propria, la rapidita’ di calcolo diversa fra i vari individui che consente ai primi due di individuare la mossa giusta e concludere il primo scambio e indirizzare le successive transazioni in un certa direzione, oppure il caso, il destino, variabili esterne al modellino, etc.).

  6. Che carriera potrà fare un economista che decide di mettere in discussione la religione di coloro che detengono il potere economico? E che fine farà se non ha ereditato risorse familiari sufficienti?
    Non è fin troppo evidente che scegliere la “scienza” invece che la “religione”, in questo caso, prevede un finale inglorioso? Per cui, ci sono in giro fin troppi “scienziati” che sanno bene quali parole il padron Don Rodrigo gradisce, e per dar ragione sono uomini.
    “E lei, signor dottor riverito, in vece di farmi de’ sogghigni, per farmi capire ch’è del mio parere, perché non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarmi a persuader questo signore?”
    Quando si sente parlar male della Economia è perché tutto questo non è solo un puro sospetto.
    Merito va, comunque, a quelli che, come Keynes, sanno dire, e riescono a dire, anche la semplice banalità che il re è nudo.

  7. Esempio concreto di come l’interesse individuale NON coincide col benessere collettivo:
    per il singolo imprenditore è vantaggioso pagare il proprio dipendente il meno possibile ma il suo dipendente è nello stesso tempo è anche cliente di un altro imprenditore. Di conseguenza se TUTTI gli imprenditori pagheranno i propri dipendenti il meno possibile si ritroveranno senza clienti e dovranno chiudere baracca lasciando i loro dipendenti senza lavoro.
    Nemmeno un genio come Keynes è riuscito a far entrare nella testa dei soloni nostrani un concetto così elementare e semplice. Ignoranza o malafede?

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