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Alesina e Giavazzi sbagliano: Stato e innovazione sono come marito e moglie

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“E’ un errore comune quello di credere che la burocrazia sia meno flessibile delle imprese private. Può essere così nei dettagli, ma quando devono essere fatti adattamenti su larga scala il controllo centrale è molto più flessibile. Potrebbero essere necessari due mesi per ottenere una risposta ad una lettera da un dipartimento governativo, ma sono necessari 20 anni ad un settore industriale privato per adeguarsi ad un calo della domanda”

— Joan Robinson

Dalle pagine del Corriere imperversa la crociata di Alesina e Giavazzi contro lo Stato inutile e sprecone, ma lo fa prendendo pericolose scorciatoie, quelle stesse che costituiscono il “capo d’accusa” dell’ultimo editoriale del 3 febbraio contro il “mito neostatalista” in tema di politiche industriali. Se oggi la politica industriale deve confrontarsi i problemi dell’innovazione, senza la quale non è pensabile creare le condizioni per la crescita di un sistema economico, è necessario sgombrare il campo da inutili e dannosi fardelli – sostengono i due autori – che sarebbero d’intralcio al dispiegarsi della libera inventiva, l’unica vera risorsa in grado di imprimere quei cambiamenti di passo di cui il sistema produttivo ha bisogno. E sull’onda di una versione “romantica” della “distruzione creatrice” di ispirazione schumpeteriana, ci vien detto che il mercato è capace di selezionare le migliori menti, e che perché ciò avvenga è necessaria flessibilità su tutti i fronti, non ultimo su quello del mercato del lavoro. La tesi di Alesina e Giavazzi è affidata al forte potere dell’evocazione di una polverosa e pachidermica IRI, un istituto dei tempi che furono ma che non son più, perché allora – quando il problema era quello di affrontare il decollo industriale – bastava fare un po’ di imitazione. O almeno così pensano i due autori.

Ma la scorciatoia presa da Alesina e Giavazzi è davvero pericolosa, tanto pericolosa che se non si sta attenti si finisce dritti nel burrone. Il motivo è presto detto: l’onere dei costi e dell’incertezza che i processi di innovazione si portano dietro non è tale da consentire ad una singola impresa che si misuri con le regole del mercato di prendere in considerazione una decisione di investimento. E’ un fatto assodato questo, e peraltro condiviso dall’accademia in materia (si tenga conto che Schumpeter poteva permettersi di parlare di “distruzione creatrice” perché il suo mondo di riferimento era quello dell’equilibrio generale, con piena occupazione delle risorse).

E bisogna essere molto chiari su questo: non basta immaginare uno stato che semplicemente “crei” le condizioni affinché l’attività innovativa delle imprese possa espletarsi nel migliore dei modi. C’è bisogno, invece, di uno stato “imprenditore”, di un attore che cioè possa farsi carico di quegli oneri di cui si è detto e che un’impresa non potrà mai accollarsi, come bene spiega Mariana Mazzucato nel pamphlet “The entrepreneurial state” (2011), richiamando in proposito diverse esperienze maturate (peraltro) negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e facendo notare – appunto – che in tutta una serie di aree tecnologiche chiave (elettronica, informatica, biotech) nessuna iniziativa imprenditoriale avrebbe visto la luce se l’attività più rischiosa (e costosa) del porre le fondamenta non fosse stata portata avanti dall’iniziativa pubblica.

Fare ironia sul funzionario dell’IRI che sceglie al posto del mercato è quindi una caricatura dell’intervento pubblico buona per gli allocchi e per chi già soffre un bias ideologico. Perché, a ben vedere, Alesina e Giavazzi commettono uno scivolone che fa sorridere quando citano Facebook come esempio di innovazione “senza stato”. Facebook non esisterebbe senza Internet e, come sanno anche le pietre, Internet è una creazione del governo degli Stati Uniti, non del mercato; di più: ogni volta che clickiamo un link, usiamo un’invenzione del CERN di Ginevra, il World Wide Web. Gli esempi potrebbero proseguire all’infinito: il primo browser web di massa (NCSA Mosaic) fu sviluppato dal governo USA; il primo touch screen fu costruito al CERN; l’antenato degli attuali database (anche Facebook funziona con i database) fu sviluppato da IBM per il progetto Apollo della NASA; persino Skype è nato grazie a un finanziamento dell’Unione Europea. Se pensiamo ad una qualsiasi tecnologia, insomma, vi è una probabilità molto elevata che essa sia stata sviluppata da un ente pubblico o da un privato nell’ambito di una commessa pubblica.

Sostenere che innovazione e Stato non vadano d’accordo significa quindi non conoscere la storia dell’innovazione tecnologica che ha beneficiato della spesa pubblica sia sul lato dell’offerta che su quello della domanda. E oggi vi sarebbe un estremo bisogno, per l’Italia, di agire su entrambi i lati. Si pensi, solo a titolo di esempio, quale boost innovativo costituisce l’Open Source, così poco sfruttato nel nostro paese (con qualche pregevole eccezione). Oltre al risparmio sul lungo periodo, una domanda pubblica orientata all’Open Source favorirebbe la crescita di aziende innovative italiane e ridurrebbe al nostra dipendenza dall’estero. Lo Stato potrebbe diventare non solo acquirente, ma a sua volta produttore, insieme ai privati, di software liberi, come accade negli Stati Uniti dove, solo per fare un paio di esempi, il governo collaborò allo sviluppo del sistema operativo BSD Unix (su cui è nata Internet) e permise a Linux di diventare il sistema preferito per le infrastrutture informatiche grazie allo sviluppo di moduli “governativi” per la sicurezza informatica.

E sempre per restare agli USA, sta facendo scalpore in rete la notizia che il governo potrebbe realizzare una rete wireless pubblica ad altissima tecnologia, proposta che vede Google e Microsoft giustamente entusiaste. Così come nel ‘900 lo stato ha costruito le autostrade, ora è il momento delle reti informatiche (senza per questo abbandonare la tradizionale cantieristica).

Anche in un paese così poco amante dell’intervento pubblico, insomma, ci si rende conto che lo Stato può e deve fornire al settore privato quelle commodity di base (materiali e immateriali) che richiedono investimenti ingenti, rischiosi, spesso senza un ritorno immediato, senza le quali però l’economia privata subirebbe un rallentamento a causa dei crescenti colli di bottiglia.

E se vale per gli Stati Uniti, a maggior ragione vale per l’Italia, un paese il cui tessuto produttivo è fatto di piccole imprese e quindi piccoli investimenti. E’ per questo che lo Stato si accollò negli anni 50-70 la produzione dell’acciaio, dell’energia elettrica, del gas.

Alesina e Giavazzi sono dunque ostaggio di una pericolosa ideologia, un insieme di posizioni pregiudiziali che si pretendono valide a prescindere dall’esistenza di prove e verifiche che ne confermino la bontà. E tanto ne sono schiavi che neppure si accorgono che, nel richiamare come caso di straordinaria inefficienza dell’intervento pubblico in ambito tecnologico l’attività di sostegno alle tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili, in particolare il fotovoltaico, condotta dallo Stato italiano per il tramite di generosi incentivi pagati dalle bollette degli utenti, non ricordano non solo che non ha incontrato l’opposizione dell’industria, ma ha anche creato danni ben più profondi di quelli evidenti dall’onere delle bollette elettriche, ancorché non irrilevanti. Perché l’Italia i pannelli li ha importati, andando ad avvantaggiare l’investimento tecnologico di altri paesi (Germania e Cina, per quanto ci riguarda), generando un deficit commerciale e non creando le premesse per la creazione di una industria nazionale in un campo strategico come quello dell’energia, dove il ruolo dell’innovazione e dell’intervento pubblico sono fondamentali.  Insomma, quello dei pannelli solari è un clamoroso caso di mancanza di politica industriale, non di suo eccesso.

Lungi dal distruggere l’innovazione, quindi, la spesa pubblica può esserne un motore straordinario, come gli esempi che abbiamo riportato dimostrano. Stato e innovazione, con buona pace di Alesina e Giavazzi, sono da molto tempo marito e moglie.

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p.s. riguardo la “vernice solare” citata da Alesina e Giavazzi ecco cosa dicono gli inventori:

Ora il team della Notre Dame University dell’Indiana deve affrontare la sfida di come migliorare l’efficienza della vernice solare. Attualmente la vernice funziona a circa l’1% dell’efficienza rispetto al 10%  dei pannelli solari tradizionali. Kamat riconosce che questo è un bel problema, ma ha dichiarato a  Mashable.com: «Questa vernice può essere prodotta a basso costo e in grandi quantità. Se siamo in grado di migliorarne in qualche modo l’efficienza, potremmo essere in grado di fare la differenza reale per i  bisogni energetici per il futuro». http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=15904

Vedremo, ma è difficile sostenere che un prodotto come i pannelli, che hanno fatto la fortuna di industrie cinesi e tedesche, siano stati un investimento sprecato.

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7 commenti su “Alesina e Giavazzi sbagliano: Stato e innovazione sono come marito e moglie

  1. Perché sul Corriere, piuttosto che su qualche altro mezzo di comunicazione, nessuno, ma proprio nessuno, crea i presupposti per un confronto costruttivo tra Giavazzi-Alesina e Worren Mosler, magari con la presenza a monitor di Emiliano Brancaccio.
    Il cardine della proposta teorica ma soprattuto pratica di Warren Mosler, il piano di Piena Occupazione e il JGP (Job Guarantee Pool) non viene mai affrontato, non è in nessun modo affrontato in nessuna proposta-controproposta, né a destra ne’ a sinistra ne’ al centro…..non è in nessun modo reperibile nel dibattito mediatico e non.
    Cito il Piano di Piena Occupazione, proprio perché è il cardine della proposta mosleriana, il cardine del programma di cui è uno dei firmatari….: programma Me-MMT di salvezza economica per il Paese.
    Al di là della declinazione dle programma di cui sopra, lo stesso Mosler ha formulato delle proposte funzionali all’obiettivo di migliorare le prerogative dell’Unione monetarie europea, tra le quali i “Mosler Bonds”……….
    Nessuno, tra gli addetti ai lavori, conferisce il giusto peso e approfondimento al Piano di Piena Occupazione, neppure in termini costruttivi….(che sia la scelta del nome (?) a suscitare anche alla sinistra liberale qualche problema?);
    questo, viene bollato come “pazzia”, vedi l’articolo de l’Espresso (27 novembre 2012) dove, non facendo nessun riferimento alla “piena occupazione”, Boldrin scredita aprioristicamente la teoria della moneta moderna, definendola, più o meno cosa da pazzi, e la declinazione del programma come: socialismo.
    Mi chiedo se qualcuno tra gli economisti, i politici, ha approfondito veramente le proposte di Warren Mosler?
    il 26 ottobre scorso Mosler era invitato al Convegno Internazionale “Public Debt Management” di Rudiger Dornbusch e Mario Draghi presso l’Aula Magna dell’Università La Sapienza.
    Possibile non ci sia stato nessun seguito costruttivo stante la coerenza della prposta mosleriana?
    Perché lo stesso Brancaccio, ha, in qualche modo liquidato la prposta senza sviscerare le prerogative del costrutto teorico e il risvolto pratico, perché non ha approfondito le prerogative della piena occupazione portandole a conoscenza delle persone, mostrandone, quanto meno, gli eventuali punti deboli, alla luce della sua grande capacità di sintesi e chiarezza, il tutto, nel pubblico interesse?

  2. Tutti gli esempi portati dall’articolo riguardano, però, il campo infrastrutturale, che sicuramente è essenziale per creare le condizioni che rendono possibile il fare impresa, ma che direttamente non produce beni. Credo, se ho capito bene il loro discorso, che la polemica di Giavazzi e Alesina avesse nel mirino lo Stato che fa acciaio, prodotti chimici ecc. Le strade per arrivare alla fabbrica le deve sicuramente fare lo stato, ma far funzionare la fabbrica è un altro discorso.

  3. Spesso sono in discaccordo con quello che scrivono Alesaina e Giavazzi in questo caso la cosa è un po più articolata , mi sembra condivisibile che il periodo strorico ed economico sia diverso da quello dell’IRI e che l’innovazione richiede un approccio diverso ma è anche vero che questa,come si sostiene nel vostro articolo, viene a volte da investimenti a lungo termine che il privato non ha possibilità di fare Che comunque nelle politiche industriali ci voglia un’approccio nuovo è indubbio e le difficotà in cui è impantanato anche il Giappone dimostra che le soluzioni non sono facili, ci vuole una adeguato mix di iniziative a lungo termine dello Stato e comunque favorire l’iniziativa privata e le imprese che innovano ( ma anche assumuno), insomma ci vuole competenza, visione ma anche etica ( sia della politica che degli imprenditori e questa da entrambe le parti si è vista poco).

  4. “L’Italia i pannelli li ha importati, andando ad avvantaggiare l’investimento tecnologico di altri paesi (Germania e Cina, per quanto ci riguarda), generando un deficit commerciale e non creando le premesse per la creazione di una industria nazionale in un campo strategico come quello dell’energia” perchè il 70% del gettito delle “componenti tariffarie” A3, imposte col pretesto di sovvenzionare le fonti rinnovabili (delibera CIP 6 del 29 aprile 1992) è stato invece usato per sovvenzionare produttori di elettricità da fonti “sporche” come residui di raffineria petrolifera e rifiuti (dati Autorità Energia) – con Edison, Saras ed EGR come principali beneficiari – per un importo complessivo stimabile in almeno 42 miliardi di Euro a tutto il solo 2010. Se lo Stato italiano avesse usato quel gettito correttamente, come ha fatto quello tedesco, anche in italia si sarebbe sviluppata la ricerca e l’industria nel settore rinnovabuli, come è accaduto in Germania (quello della Cina è un discorso a parte).
    In proposito, se interessa, vedasi qui : http://aspoitalia.blogspot.it/2012/05/la-dolorosa-istoria-delle-rinnovabili.html

  5. Come informatico e attivista del software libero mi sento in dovere di chiarire meglio alcuni punti che non mi sembrano chiari
    Per arpanet sono nate la posta elettronica e il protocollo FTP giusto per citare le cose più note. E’ vero che nell’ Università di Berkley sono nati prgetti importantissimi per lo sviluppo di internet fra tutti il protocollo TCP/IP indispensabile per connettersi tramite modem. Va ricordato però che non riuscirono mai a produrre un sistema BSD completo tanto che si dovevano appoggiare ad AT&T UNIX, infatti ci furono delle grosse beghe legali che sicuramente contribuirono alla diffusione di Linux che arrivò dopo. Va ricordato che Linux è solo un kernel il cuore di un sistema operativo indispensabile ma da solo non fa funzionare un sistema anche senza interfaccia grafica. Per poter avviare Linux rimanendo in ambito software libero è necessario il progetto GNU della Free Software Foundation che non è una organizzazione governativa e fondamentale per il successo di Linux in ambito server fu il software Apache. La cosa più interessante da notare secondo me che spesso questi progetti nascono da studenti universitari e dottorandi che probabilmente non sarebbero nati se fossero stati dipendenti di qualche azienda. Per dire quanto è importante il software libero e l’ open source si possono fare alcuni esempi. Android ha nel suo cuore una versione modificata di Linux e questo ha permesso a google di non partire da zero.Molti browser moderni tra cui Chrome e Safari si basano sul motore open source Webkit che deriva da uno storico progetto open source KHTML sviluppato per l’ ambiente KDE. Nel cuore di Os X c’ è il micorkernel Mach e FreeBSD entrambi progetti opensource di università americane. Va ricordato che in Italia è nato uno dei progetti open hardware più conosciuto, Arduino.
    Bisogna ricordare però come la miopia dei governi può anche produrre danni, valga per noi italiani l’ esempio di Olivetti. E’ poco noto ma il primo personal computer è italiano si chiama Programma 101 ed è stato sviluppato nel 64 (!) dall’ Ing. Perotto. Su YouTube c’ è uno spledido documentario di History Channell che racconta questa storia. Se il governo italiano per compiacere gli Usa non avesse fatto chiudere la divisione elettronica di Olivetti probabilmente avremmo una vera Silicon Valley italiana. Altro punto importantissimo da ricordare è che il sistema di brevetti usa sta bloccando parecchio l’ innovazione infatti in america è possibile brevettare anche un idea ad es. poter sbloccare lo smartphone con un gesto delle dita infatti adesso le grosse aziende cercano di accapararsi più brevetti possibili e questo è un problema gigantesco per le startup. Probabilmente adesso non sarebbe più possibile fondare un ‘ azienda in un garage e portarla al successo ma bisogna appoggiarsi ad un colosso valga per tutti l’ esempio di YouTube che senza Google sarebbe stata sommersa dalle cause per violazione di copyright

  6. […] l’industria continua ad essere assente. Mentre sappiamo che nessun paese ha operato salti tecnologici importanti in assenza di un adeguato intervento di investimento pubblico, per l’onere e per l’incertezza […]

  7. Probabilmente la “vernice” di cui parlano nasce da questa tecnologia brevettata da un gruppo del CNR di Bologna http://goo.gl/W0o0m. Il prodotto è (o era) commercializzato come “Photon Inside” dalla Bleiner ag (Austria), che non sembra disporre di uno straccio di sito se non – forse – questo http://www.bleiner.eu/ e questo http://www.photoninside.com/, sostanzialmente due cadaveri. In rete si trovano poche informazioni, spesso abbastanza vecchiotte (ad es. questa del 2008, interessante anche perché cita altri casi oltre a quello italiano:http://goo.gl/mulil). Le più recenti hanno abbastanza l’aspetto di fotocopie. L’impressione che si ricava dalle ricerche in rete è che non si tratti affatto di un prodotto largamente disponibile, come gli autori vogliono farci credere, e nemmeno di una tecnologia particolarmente promettente. Di questa bufala ha parlato tra gli altri il Fatto http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/12/vernice-fotovoltaica-di-archimede-pitagorico/496354/

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