Con alcuni recenti provvedimenti del governo Monti, soprattutto con la cosiddetta “spending review”, sono stati apportati ulteriori tagli all’università. Vengono toccati soprattutto il reclutamento di nuovi ricercatori, ulteriormente bloccato, e le tasse universitarie. Una politica, soprattutto quest’ultima, che è in linea con quanto fatto dalla coalizione di centrodestra al governo in Gran Bretagna. Una continuità, questa, tra le politiche italiane e quelle dei conservatori inglesi che deve far riflettere. Ecco alcuni dati per capirci di più.
Già il governo laburista aveva alzato le tasse universitarie per gli studenti britannici portando il tetto oltre le 3mila sterline, circa 3600 euro annui. La coalizione tra conservatori e liberal-democratici ha ulteriormente innalzato il tetto a 9mila sterline, cioè più di 10mila euro l’anno. Contemporaneamente veniva istituito un sistema di prestiti d’onore: se uno studente non ce la fa a pagare le tasse, lo Stato garantirà per lui un prestito bancario che potrà ricominciare a pagare una volta che avrà trovato un lavoro. Una conseguenza di questo sistema è che, già oggi, le facoltà umanistiche e di scienze sociali sono meno attraenti: quale lavoro con quei titoli di studio potrà permettere di ripagare in fretta un prestito da alcune decine di migliaia di euro? Si è molto ristretto di conseguenza il mercato del lavoro per la ricerca e l’insegnamento in quelle facoltà. Ma questo, secondo alcuni, potrebbe non essere uno svantaggio. Il Financial Times di ieri, però, ci informava che c’è stata una più generale contrazione di studenti immatricolati in Inghilterra: il 5% tra i giovani ma ben il 15% tra gli adulti. Non solo, calava l’afflusso verso l’Inghilterra da parte della Scozia, del Galles e dell’Irlanda del Nord, le regioni più povere del Regno Unito. Aumentava invece il numero di studenti stranieri, soprattutto esterni all’Unione Europea. Per chi viene dalla Cina o dall’India, infatti, le rette erano già molto alte prima e non a caso molti atenei preferiscono avere più studenti di questo tipo.
Il Regno Unito è stato da tempo il luogo di sperimentazione di alcune politiche per l’università. I criteri “bibliometrici” per la valutazione prevalentemente quantitativa della ricerca furono introdotti qui sotto la Thatcher e furono piuttosto utili per irregimentare e tagliare il sistema. Oggi il rapido aumento delle tasse e l’introduzione su vasta scala del prestito d’onore cambiano l’accesso all’università: meno adulti (ma non eravamo la società della conoscenza dove tutti dovevano formarsi in continuazione?), meno studenti dalle zone svantaggiate del Paese, più “classi dirigenti” dei Paesi emergenti.
La spending review del governo Monti si muove in una direzione simile, ed è difficile scorgere una vera discontinuità con lo spirito della riforma Gelmini e dei tagli di Tremonti. Abbiamo parlato qui degli effetti di quella legge sul licenziamento di decine di migliaia di precari. La spending review invece rallenta ulteriormente il reclutamento di nuovi ricercatori e blocca l’avanzamento di quelli attualmente dentro – e che percepiscono, bisogna chiarirlo, stipendi ridicoli a fronte di un impegno lavorativo a volte maggiore dei loro superiori di grado. Già oggi l’università e la scuola sono uno dei settori dove più largo è il precariato, un fenomeno che, ci informa la CGIA di Mestre, riguarda per il 34% il settore pubblico. Chi si candida a guidare il Paese dal 2013 potrebbe già impegnarsi a ridurre la precarietà nella parte di mondo del lavoro più dipendente dalle politiche pubbliche.
D’altronde, il progetto è involontariamente coerente: servirà meno gente ad insegnare e fare ricerca perché ci saranno meno studenti. In un articolo sull’Unità di oggi il responsabile università del PD Walter Tocci chiarisce alcuni aspetti della “review” (a proposito, visto che si operano dei tagli, perché questa ipocrisia della “revisione” e non la sincerità di chiamarli semplicemente “spending cuts”, cioè tagli?): 400 milioni già tagliati in precedenza e confermati, 150 milioni alle borse e alle attività di ricerca, 200 milioni con il blocco del turn over. Come si compensano questi tagli? Consentendo alle università di sforare l’attuale tetto del 20%: oggi potevano chiedere direttamente agli studenti non più del 20% di quanto ricevevano dallo Stato. Il meccanismo di “revisione” è complicato ma il risultato, secondo Tocci, sarà che si potrebbe arrivare ad aumenti di 1000 euro in più all’anno per studente. Senza contare le inesistenti politiche per il diritto allo studio in questo Paese per cui, dovendo pagare un affitto, i trasporti e dovendo mantenersi uno studente che voglia proprio vivere miseramente già oggi difficilmente spende meno di 10mila euro l’anno.
Già oggi l’università italiana, come scrisse qui Alfredo Amodeo, è uno dei fattori negativi della mobilità sociale: i figli degli architetti fanno gli architetti, i figli dei farmacisti faranno i farmacisti. Con buona pace della meritocrazia. Gli iscritti già quest’anno sono calati del 10% – ma sono aumentati, guarda un po’, nelle università private. Si vuole davvero continuare così? Come su altri fronti, non è vero che si tratti di tagli inevitabili: la spesa si può veramente riqualificare (questo vuol dire “review”) cioè spostare da settori improduttivi e frutto di corruzione e commistione tra politica e affari verso i servizi agli studenti e la ricerca; si può reintrodurre la tassa di successione sui grandi patrimoni che, da sola, potrebbe colmare i tagli operati negli ultimi anni; si può devolvere qui una parte di proventi provenienti da nuove imposte sulla rendita finanziaria e immobiliare. Si tratta, insomma, di avere il coraggio di attaccare il Partito della rendita per costruire un nuovo modello di sviluppo e produrre nuovi beni pubblici.
Cosa ne pensa chi si candida a guidare, per il centrosinistra, il Paese dopo il 2013?
Mattia Toaldo fonte: Italia2013.org
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
L’aumento delle tasse universitarie per i fuoricorso, deciso dal governo nell’ambito dell’ultima manovra-spending review, offre lo spunto per qualche riflessione sul ‘dossier istruzione’ nel nostro paese, universitaria in particolare, e su quella che viene considerata un’anomalia tutta italiana nel panorama europeo. L’aggravio esponenziale del ‘prezzo’ da pagare per l’esercizio del dritto costituzionale allo studio ci viene gabellato ipocritamente come giusta misura penalizzante per chi non studia (gli ‘sfigati” di martoniana memoria) e stimolo per gli studenti a finire prima gli studi (come ha spiegato il solito, ineffabile, Martone), ma un’analisi obbiettiva e libera da surrettizie interpretazioni di parte rivela che tali asserite giustificazioni sono assolutamente non veritiere e che la realtà è tutt’altra. A tal proposito non si può ignorare e non tenere in debito conto alcune considerazioni di fatto, e cioè che ci sono facoltà -come ingegneria, ad esempio- che solo qualche rara mosca bianca riesce a portare termine nei cinque anni canonici (previsti in maniera del tutto irragionevole contro tutte le statistiche, le quali dicono -e ciò vorrà pur dire qualcosa- che la durata media dell’intero corso di laurea è di circa otto anni); che nelle nostre università il carico di studio è irragionevolmente e inutilmente maggiore di quello di altri paesi (la riforma universitaria, doveva, in ottemperanza anche alle direttive comunitarie, tendere a rendere più snelli i corsi di studio e quindi a favorire il più rapido completamento degli stessi: ma si è ridotto sulla carta il numero degli esami, mentre il carico di studio e di materie è rimasto nella realtà identico, colla sola differenza che più materie, prima oggetto di singoli esami, sono state accorpate in uno stesso ‘plurimo’ esame!); che molti studenti lavorano (precariamente e in nero) per potersi pagare i già costosi studi e per questo sono costretti a sottrarre molto del loro tempo e delle loro energie allo studio; che spesso le università si ingegnano sadicamente in mille modi (burocrazia ottusa e persecutoria, regolamenti medievali ed insensati, rapporto docenti-studenti altissimo, disorganizzazione e carenza di strutture, assenteismo di docenti e … presenzialismo di vecchi baroni dediti solo a perpetrare il loro potere con dispotiche angherie sugli studenti) per bloccare il rapido e sereno percorso di studio degli studenti; che tale rapidità e serenità è preclusa a molti studenti costretti a rinunciare alla frequenza attiva e costante, non potendo essi permettersi di risiedere nella città sede di università a causa dei pesanti costi aggiuntivi (si calcola che tali costi, escluse tasse e libri, ammonti almeno, nell’ipotesi minore, a 7.000 euro l’anno) e che per questa stessa ragione molti studenti sono costretti a scegliere la facoltà non perché quella più rispondente ai loro interessi e capacità, ma solo perché è quella sotto casa o comunque più vicina alla propria residenza. Alla luce di tali considerazioni, e senza ignorare che -come pure l’analisi della Commissione UE segnala- una delle ragioni per cui nel nostro paese un maggior numero di giovani è indotto a protrarre il periodo di istruzione è da ricercare nell’elevato tasso di disoccupazione giovanile, appare allora evidente che l’anomalia italiana (le statistiche dicono che uno studente su tre è fuori corso; solo il 45% degli studenti porta a termine gli studi universitari, contro una media OCSE del 69%; la percentuale dei laureati è pari al 20,3% contro la media europea del 34,6%; sempre meno giovani si iscrivono all’università, nell’anno accademico 2009/2010 sono circa 1.200 in meno rispetto all’anno precedente, i n un trend costantemente negativo dal 2004/2005), non si può spiegare con presunte colpe proprie degli ‘sfigati’ studenti -che studierebbero poco e poco si impegnerebbero, e per questo sarebbero da penalizzare- e che non si possa onestamente pensare di rimediarvi con provvedimenti estemporanei quale quello dell’aumento delle tasse per i fuoricorso ora varato dal governo. Appare evidente che in realtà si tratta di un provvedimento pesantemente iniquo –l’ennesimo del governo Monti- perché finisce col penalizzare cittadini che, per le ragioni sopra esposte, già versano in una situazione svantaggiata e sperequata rispetto ad altri privilegiati, il cui vero obbiettivo è il disegno di un’università lusso per poche elites , in aperta violazione del principio costituzionale secondo cui ‘la scuola è aperta a tutti’ (art. 34 Cost.). Appare evidente che ben altri sarebbero i provvedimenti da prendere per accelerare gli studi -obbiettivo certamente meritevole e anzi doveroso, imposto anche dalle direttive comunitarie- e per rimediare alla suddetta anomalia tutta italiana, le cui vere ragioni sono connesse all’irrazionalità, arretratezza , inefficienza e carenze dell’intero nostro sistema di studi: come si può più facilmente cogliere facendo un raffronto coll’esperienza degli altri paesi, dove i giovani terminano gli studi (spesso più brevi) prima (e prima entrano nel mercato globale del lavoro), ma non certo perché essi sono più studiosi o più intelligenti, né perché le tasse universitarie sono maggiori! E’ evidente, infine, che il nostro paese non favorisce il diritto allo studio e non investe nei giovani-futuro del paese (non offre ad essi mezzi , sussidi e adeguate agevolazioni per poter affrontare serenamente l’impegnativo percorso universitario, a differenza di quanto avviene negli altri paesi, non a caso l’Italia è agli ultimi posti tra le economie occidentali per l’impegno finanziario nell’istruzione universitaria: in media i paesi Ocse spendono 11.512 dollari per ogni studente, mentre l’Italia ne investe solo 8.026). E sono proprio queste le ragioni a base delle preoccupazioni espresse dalla Commissione U.E. in merito alle carenze dell’istruzione italiana, considerate come un aspetto delle debolezze strutturali del nostro paese: “La qualità complessiva del sistema di educazione e formazione è insoddisfacente con alti livelli di abbandono scolastico prematuro e una bassa partecipazione alla formazione successiva”, scrive la Commissione e per questo raccomanda all’Italia di “adottare misure per ridurre i tassi di uscita dall’educazione superiore e combattere l’abbandono scolastico” e, come tutti gli altri 26 paesi UE, di intensificare gli sforzi per raggiungere gli obiettivi fissati per il 2020 in materia di istruzione, sia per quanto riguarda la riduzione degli abbandoni scolastici, che devono scendere a livello UE sotto il 10% , sia per l’aumento dei laureati, che devono arrivare al 40%”.
“Per molti, ma non per tutti. L’università secondo le destre europee (e secondo Monti?) ”
La domanda “..e secondo Monti?” la interpreto come una domanda retorica, perchè è chiaro a tutti che Monti non fa politiche di sinistra e lui e i suoi ministri, ad iniziare dalla Fornero, sono ben in simbiosi con i governi conservatori europei di destra. Monti è di destra, più di destra di quanto lo siano stati i governi Berlusconi
[…] pubblici. Cosa ne pensa chi si candida a guidare, per il centrosinistra, il Paese dopo il 2013? Per molti, ma non per tutti. L "The work goes on, the cause endures, the hope still lives and the dream shall […]
[…] i tagli alla spesa, in buona parte “lineari”, come nella tradizione di questi anni, e alcuni aumenti delle tasse. In una “spending review” ci si aspetterebbe di vedere tagliate le spese poco […]
[…] i tagli alla spesa, in buona parte “lineari”, come nella tradizione di questi anni, e alcuni aumenti delle tasse. In una “spending review” ci si aspetterebbe di vedere tagliate le spese poco […]
[…] i tagli alla spesa, in buona parte “lineari”, come nella tradizione di questi anni, e alcuni aumenti delle tasse. In una “spending review” ci si aspetterebbe di vedere tagliate le spese poco produttive: […]
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