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Appello dei giuristi a difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori

Pubblichiamo l’appello promosso da studiolegaleassociato.it a difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. L’appello è firmato, tra gli altri, da Sergio Mattone, Presidente Emerito Corte di Cassazione Sezione Lavoro e diversi docenti universitari.
Le adesioni riservate ai soli giuristi possono essere inviate a segreteria@studiolegaleassociato.it.

L’elenco delle firme è reperibile sul sito studiolegaleassociato.it

Appello “L’articolo diciotto: le verità nascoste”Desta grande sconcerto, tra gli operatori giuridici (avvocati, magistrati) che quotidianamente hanno a che fare, per il loro lavoro, con la tematica dei licenziamenti, il livello di approssimazione e di assoluta lontananza dalla realtà con cui tanti autorevoli personaggi della politica, del giornalismo e persino dell’economia affrontano l’argomento, contribuendo ad alimentare una campagna di disinformazione senza precedenti.
Sta infatti entrando nella convinzione del cittadino (che non abbia, in prima persona o attraverso persone vicine, vissuto il dramma della perdita del posto di lavoro) la falsa impressione che in Italia sia pressoché impossibile licenziare, persino nei casi in cui un’impresa, in comprovate difficoltà economiche e finanziarie, con forte calo di ordini e bilanci in rosso, avrebbe necessità di ridurre il proprio personale (caso spesso citato nei dibattiti televisivi per mostrare l’assurdità di una legislazione che ingessi fino a questo punto l’attività imprenditoriale). Queste leggi assurde, poi, si salderebbero con una asserita “eccessiva discrezionalità interpretativa” dei magistrati (categoria della quale, nell’ultimo ventennio, ci hanno insegnato a diffidare) e sarebbero la causa, o quantomeno la concausa, del precariato giovanile.
Senza considerare che è l’Europa a chiederci di rivedere la normativa in tema di licenziamenti, perché eccessivamente rigida. Inoltre il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro sarebbe un’ “anomalia nazionale”.
Come si sa, il principio di propaganda che sostiene che “una bugia ripetuta mille volte diventa verità” paga, ed è estremamente rara, nei talk show televisivi, la presenza di giuslavoristi che raccontino cosa effettivamente accade nei luoghi di lavoro, nelle trattative sindacali, negli studi degli avvocati e nelle aule di giustizia: che cioè la legge già consente di licenziare per motivi “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” e che conseguentemente i licenziamenti per riduzione di personale avvengono quotidianamente, sia da parte di aziende con meno di 16 dipendenti (che non hanno altro onere che quello di pagare un’indennità di preavviso molto più bassa di quella prevista in altri paesi europei: solo ove un giudice accerti che le motivazioni addotte non sono vere, dovrà pagare un’ulteriore indennità, comunque non superiore a sei mensilità) sia da parte delle grandi aziende (che in caso di esubero di personale di più di cinque unità devono solo seguire una procedura che coinvolge il sindacato, ma che le vincola – anche in caso di mancato accordo sindacale al suo esito – esclusivamente a seguire dei criteri oggettivi nella selezione del personale da licenziare). Al di fuori dei licenziamenti per motivi economici – rispetto ai quali il giudice ha (solo) il potere di effettuare un controllo: a) di verità sui motivi addotti nei licenziamenti individuali e b) di regolarità della procedura nei licenziamenti collettivi – l’art. 18 si applica, ai datori di lavoro con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamenti individuali, quasi sempre per motivi disciplinari.
E qui, di volta in volta, il magistrato valuta il caso concreto, che non è mai come quelli da barzelletta che vengono talvolta riportati per dimostrare l’arbitrarietà del giudice e la presunta assurdità del sistema. Da oltre trent’anni si sente parlare del caso del garzone del macellaio amante della moglie del datore di lavoro, che sarebbe stato reintegrato perchè i fatti avvenivano al di fuori dell’orario di lavoro. Basta che una falsa notizia come questa venga detta in televisione, ed ecco che il quadro è completo e il prodotto confezionato: l’opinione pubblica, dopo un mese di questa martellante propaganda, è pronta ad accettare le giuste soluzioni che – condivise o non condivise da tutti i sindacati – ci facciano fare quel passo decisivo per adeguare l’Italia alle nuove esigenze della globalizzazione e renderla finalmente competitiva anche rispetto ad altri paesi europei che hanno una maggiore flessibilità in uscita.
Ma è proprio vera quest’ultima cosa? Come mai non riusciamo a leggere in nessun giornale che gli indici OCSE che segnalano la cd. rigidità in uscita collocano attualmente l’Italia (indice dell’1.77) al di sotto della media europea (basti dire che la Germania ha l’indice 3.00)? Ed è proprio vero che il diritto alla reintegrazione (in caso di licenziamento dichiarato illegittimo) è previsto solo nel nostro Paese? Premesso che il discorso dovrebbe essere approfondito, va detto che in certi Paesi è addirittura costituzionalizzato (Portogallo) ed in altri è un rimedio possibile (ad esempio Svezia, Germania, Norvegia, Austria, Grecia, Irlanda, in taluni casi Francia) spesso accompagnato da ulteriori tutele.
La verità è che non esiste un vero collegamento tra la ripresa produttiva e la libertà di licenziare, e forte è quindi il timore che il ”governo tecnico”, approfittando della crisi economica, possa dare attuazione ad un antico progetto di riassestamento del potere nei luoghi di lavoro, che per essere esercitato in modo sovrano mal tollera l’esistenza di norme di tutela dei lavoratori dagli abusi. Perchè è questo, e solo questo, il senso profondo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: una norma che sanziona il comportamento illegittimo del datore di lavoro ripristinando lo status quo ante che precedeva il licenziamento – lo si ribadisce – illegittimo. E la cui esistenza, per l’appunto, impedisce che il potere nei luoghi di lavoro (con più di 15 addetti, purtroppo, perchè altrove, appunto, tale tutela non c’è) possa essere esercitato in modo arbitrario e lesivo della dignità dei dipendenti.
Ma nello stesso tempo occorre valutare con estrema attenzione anche tutte quelle prospettate soluzioni che, prevedendo la “sospensione temporanea” dell’articolo 18 per i primi tre o quattro anni per i giovani in cerca di un’occupazione stabile, teoricamente non sottrarrebbero la tutela dell’art. 18 “a chi già ce l’ha”.
Occorre, infatti, quanto meno scongiurare l’ipotesi che in tale formula rientrino tutti i nuovi rapporti di lavoro poiché, altrimenti, inevitabilmente vi ricadrebbero anche coloro che, pur avendo goduto in passato della tutela dell’articolo 18, si ritrovino in stato di disoccupazione (dato che, come abbiamo visto, la norma non vieta affatto di licenziare, sanzionando solo i licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo, e quindi solo quelli illegittimi). E dal momento che, checché se ne dica, il posto di lavoro fisso a vita è veramente un sogno e il mercato del lavoro è in continuo movimento (specie per quanto riguarda l’invocata flessibilità in uscita), nel caso in cui le disposizioni in cantiere non siano circoscritte con precisione, avremmo un esercito di disoccupati attuali o potenziali anche ultracinquantenni che, lungi dal portarsi dietro, infilato nel taschino della giacca, l’articolo 18 goduto nel precedente posto di lavoro, ingrosserebbero le fila dei nuovi precari. Perchè diversamente non possono essere considerati dei dipendenti che per tre o quattro anni siano sottoposti al ricatto della mancata stabilizzazione ove non “righino dritto” senza ammalarsi, fare figli, scioperare o avanzare rivendicazioni di sorta (e se, alla fine del triennio, non vi sarà – com’è probabile – alcuna garanzia di “stabilizzazione” del rapporto, in questo gioco dell’oca si potrà tornare alla casella di partenza, con un diverso datore di lavoro…).
Ecco quindi che, per altra strada, si arriverebbe a ridimensionare anche i diritti di coloro ai quali l’articolo 18 attualmente si applica, risultato che la propaganda vorrebbe finalizzato a favorire quelli che ne sono esclusi: come ha scritto Umberto Romagnoli, è come avere la pretesa di far crescere i capelli ai calvi rapando chi ne ha di più.
Un’ultima annotazione su un’altra soluzione di cui si sente parlare: la sostituzione della sanzione prevista dall’articolo 18 (reintegrazione) con un’indennità in tutti i casi di licenziamenti semplicemente motivati da ragioni economiche.
Si è già detto che tali licenziamenti sono già consentiti, e secondo l’art. 30 della legge 183 del 2010 “il controllo giudiziale è limitato esclusivamente (…) all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”.
Cosa si vuole di più? Perchè si vorrebbe impedire al giudice anche un accertamento di legittimità (e non di merito) sulle motivazioni addotte? Forte è il sospetto che in questo modo si voglia consentire al datore di lavoro di liberarsi di dipendenti scomodi semplicemente adducendo una motivazione economica, anche se non vera. Sancendo così, automaticamente, il pieno ritorno agli anni cinquanta, quando i licenziamenti erano assolutamente liberi e la Costituzione nei luoghi di lavoro, faticosamente introdotta nel 1970 dallo Statuto dei lavoratori, semplicemente un sogno.
Auspichiamo proprio che, con la scusa di dover riformare il mercato del lavoro, non si arrivi a tanto.

13 febbraio 2012

7 commenti su “Appello dei giuristi a difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori

  1. […] è da tempo un Paese a rischio.  Ecco perché vi propongo alcuni stralci del seguente appello a difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, già firmato da centinaia di giuristi: […]

  2. […] è da tempo un Paese a rischio.  Ecco perché vi propongo alcuni stralci del seguente appello a difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, già firmato da centinaia di […]

  3. […] è da tempo un Paese a rischio.  Ecco perché vi propongo alcuni stralci del seguente appello a difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, già firmato da centinaia di […]

  4. […] è da tempo un Paese a rischio.  Ecco perché vi propongo alcuni stralci del seguente appello a difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, già firmato da centinaia di […]

  5. […] sindacati, emissari del male, hanno analizzato la norma e hanno espresso le loro conclusioni qui Appello dei giuristi a difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori Si sono espressi a favore dell’art. 18, tra gli altri, Sergio Mattone, Presidente Emerito […]

  6. A PROPOSITO DELL’ART. 18: PROF-ECONOMISTI E VACANZA DEL DIRITTO.
    In un articolo recentemente pubblicato sul Corriere della Sera (2.01.12), “Ricchezza, Equità, Troppi gli equivoci”, gli autori prof-economisti Alesina e Giavazzi, parlando delle misure economiche “salva-cresci Italia”, non resistono, neanche essi, alla tentazione di dire la propria in materia di disciplina (legale) del lavoro, diventato oramai un vero e proprio must per la categoria, quasi uno status symbol. Sembra, in effetti, che oggi nessuno possa fregiarsi del titolo di prof se non si è cimentato sul tema. Che poi lo faccia anche chi di diritto non ha nessuna cognizione, cadendo in “troppi equivoci” e strafalcioni da matita blu (del prof), questo non importa gran che: il titolo di prof autorizza ad occuparsi di tutto, non solo a propinarci le tante “verità” e prof-ezie in materia economica (poi per lo più smentite dai fatti, senza peraltro che nessuno dei tanti prof si senta almeno ridicolizzato e pronto a far pubblica ammenda), ma anche giuridica. A dire il vero, nella stessa materia economica i prof –proprio perché prof- ritengono di essere autorizzati a dire tutto e il contrario di tutto, con argomentazioni che a noi –ma non siamo prof- sembrano perlomeno illogiche, e già per questo poco o niente credibili. E così, ad esempio, gli autori dell’articolo sopra citato affermano –peraltro in armonia con una diffusa qualunquistica opinione- che, se in Italia la produttività è cresciuta molto meno che negli altri Paesi, ciò è colpa dei sindacati, e quindi dei lavoratori (anche se, aggiungono pudicamente –bontà loro-, qualche colpa ce l’ha pure qualche imprenditore): tesi che brilla non solo per il suo approccio non scientifico, ma soprattutto per la sua contestuale clamorosa contraddittorietà, atteso che solo qualche riga prima, riportando i dati di una (scientifica e documentata) ricerca di Banca d’Italia e Università di Sassari, gli stessi autori rilevano, con buona dose di naiveté, che nel periodo successivo all’introduzione dell’euro, la produttività è cresciuta in quelle imprese che hanno investito inventando nuovi prodotti e cercando nuovi mercati. Con ciò stesso dando ragione a chi –con ben maggiore rigore scientifico- afferma che il calo della produttività in Italia è da imputare, non ai lavoratori (e al sindacato), ma ad una imprenditoria incapace di investire nei fattori incidenti sulla competitività e la crescita, e cioè appunto, innanzitutto, l’innovazione tecnologica e l’internazionalizzazione. Senza dire poi della forzatura, ingiustificata e fuorviante, di spostare il dibattito sull’equità da una doverosa e seria riflessione sul rispetto dei principi costituzionali in materia di partecipazione alle spese pubbliche –eguaglianza, capacità contributiva, progressività del sistema tributario, (art. 53 Cost.)- ad un’asserita demonizzazione della ricchezza, con la conclusione, davvero bizzarra, che l’equità consisterebbe nel togliere diritti sacrosanti a chi ne gode (invece che estenderli a coloro che non ne godono). Leit motiv quest’ultimo assai diffuso e caro ai due autori, che in altri interventi –vedasi “Essere prudenti è poco saggio”, Corriere della sera, 20.02.2112- esprimono lo stesso concetto moralistico affermando che la riforma del mercato del lavoro deve mirare ad eliminare la disparità fra giovani e anziani attraverso la riforma dell’attuale sistema di protezione per chi perde il lavoro (e non di chi vi entra), e cioè, in parole chiare, togliendo a chi ne gode i suddetti diritti (c.d. flessibilità in uscita). Anche in tale occasione la giustificazione data dai due è quanto meno poco scientifica ed azzardata: la diminuzione della disoccupazione, essi dicono, in Spagna dal 17,8% al 8,3% nei dieci anni successivi al 1997, sarebbe effetto dell’abolizione, a partire da detto anno, di vincoli simili a quelli previsti dal nostro art. 18, ma non spiegano perché -nonostante detta abolizione- negli anni successivi la disoccupazione spagnola è arrivata a livelli record fino all’attuale 23% (rispetto al 9% dell’Italia); come non spiegano pure perché, per perseguire l’obiettivo che <> , la soluzione sarebbe quella di far pagare alle imprese stesse una parte dei sussidi di disoccupazione, quando tale obbiettivo è perseguito e già garantito proprio da quell’art. 18 che essi vogliono abolire: come non dar ragione al loro accorato invito ad essere … imprudenti! Ma, dove i due autori si superano, piazzandosi in ottima posizione nella gara di ignoranza e disinformazione dilagante in materia, è a proposito di riforma del diritto del lavoro, laddove (Corriere della Sera, cit., 2.01.12), dopo aver sentenziato che i giovani non possono più aspettarsi un “diritto all’illicenziabilità” e dopo aver bocciato i sindacati (e per contro promosso “l’ottima Fornero”: si sa, i prof danno voti), tacciati di rifiutare il dialogo su questi temi e di disinteressarsi dei giovani e dell’equità intergenerazionale, giungono alla –trita e acriticamente recepita- soluzione del contratto a tempo indeterminato per tutti “rescindibile” per motivi economici: cioè, in parole povere, abolizione dell’art. 18, rimanendo questione soltanto di quanto un’impresa debba pagare al dipendente licenziato e non più di reintegro nel posto di lavoro. Lasciamo ai prof-economisti –perché questo è il loro mestiere- la discussione sul piano economico, e segnatamente sull’indimostrata e tutta da dimostrare idoneità di una tale misura a determinare la crescita del Paese, anche se appare lecito avanzare almeno qualche dubbio e porre loro qualche domanda: può considerarsi necessaria detta riforma se la norma in questione ha in realtà un’applicazione del tutto marginale (non si applica alle aziende fino a 15 dipendenti, che rappresentano il 97% del nostro Paese, e al 67% dei lavoratori, nel totale delle cause di licenziamento la questione “reintegro” rappresenta una percentuale minima)? Può ragionevolmente sostenersi che la norma impedisce gli investimenti e allontana i capitali stranieri, quando nel nostro Paese esiste una flessibilità –di diritto e di fatto- dei contratti di lavoro che non trova pari in nessun altro paese (senza parlare dei lavoratori in nero, delle false partite IVA, degli escamotages legalizzati –lettere di dimissioni in bianco, ecc.- che rendono la cessazione del rapporto di lavoro la cosa più facile al mondo, più dello 80% delle assunzioni nel nostro Paese è fatto con contratto precario, risolvibile in qualsiasi momento), oltre ad un livello salariale tra i più bassi in Europa? La risposta, che viene dal “campo” ( da imprenditori come, ad es., De Benedetti, Abete, Colaninno) e non dalle teorie dei prof economisti, è no: «Togliamo di mezzo questa puttanata del dibattito sull’articolo 18. Io faccio l’imprenditore da 54 anni, non mi sono mai imbattuto nell’articolo 18. E quando incontro un amico americano che mi dice che non investe in Italia per l’articolo 18 scopro che non l’ha mai letto» (De Benedetti). Ma, lasciata ai prof economisti … l’economia, al contrario, lascino, essi, a chi si occupa di diritto –o comunque a chi non ignora questo aspetto essenziale della società- la discussione sul piano giuridico -dei principi generali dell’ordinamento e della carta costituzionale in particolare- che dovrebbe essere necessariamente e logicamente preliminare, se non altro per il fatto indubitabile che di legge –in particolare art. 18 L 300/70- e di contratto (di lavoro) stiamo parlando, oltre che per la considerazione che, in forza di quei principi, il lavoro è innanzitutto un diritto ed un valore sociale costituzionalmente tutelato, non solo un rapporto economico, (artt. 1, c. 1°, e 4, c. 2°, Cost.). E magari, per allargare un po’ la vista e l’orizzonte oltre i ristretti confini economistici e dell’ossessione-mercato, facciano qualche buona lettura, ad esempio Rudolf von Jhering, seguendo il richiamo che Guido Rossi, nell’affermare che <>, fa al grande giurista tedesco, in particolare alla sua lectio magistralis contenuta in “La lotta per il diritto”. Con buona pace del prof Monti, il quale, in una recente sua lezione televisiva (a “Che tempo che fa” di Fazio, 8.01.12), ha chiarito qual’è il pensiero dei prof-economisti in materia, affermando senza mezzi termini e senza alcun ritegno –la Forniero avrebbe almeno versato qualche lacrimuccia- che la questione dell’art. 18 dovrà essere affrontata, non più sul piano giuridico -dei principi del diritto del lavoro, che, evidentemente, anche Monti ha compreso essere il vero ostacolo ad un’abolizione della norma- ma su quell’economico. Insomma il prof Monti, portatore di una monoculare (dovuta a una monocultura economica) e machiavellica visione, ci ha da tempo annunciato che, per superare la crisi, il diritto “va in vacanza” e che –siano o meno d’accordo le parti sociali, ha più volte chiarito- lo Stato di diritto sarà smantellato per essere soppiantato con una sorta di “moderno” Stato-farwest (per la verità, in questo proseguendo l’opera meritoria già iniziata dal governo Berlusconi, col quale, il prof ha più volte ribadito, esplicitamente ed orgogliosamente, il rapporto di continuità), in cui Costituzione, principi dell’ordinamento giuridico, leggi e regole non contano più: parole di una gravità inaudita e sconcertante in bocca a chi rappresenta lo Stato al massimo livello! Quella limitata visione impedisce, evidentemente, di vedere un lato essenziale della questione, quello dei diritti civili e sociali sanciti dalla costituzione, che non sono vuote forme simboliche, ma fondamenta della società e dello stato (che appunto per questo si qualifica nel binomio inscindibile stato-di diritto), espressione stessa della sostanza della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza. E allora, se la visone deve essere a tutto campo e non può ignorare il lato dei diritti, è sul piano giuridico che necessariamente e non per mero formalismo, la questione deve essere affrontata. Su tale piano, tralasciando gli errori formali e di terminologia (che, peraltro dimostrano, una volta di più, la mancanza di dimestichezza col diritto di certi prof tuttologi) come l’asserita “rescindiblità” (termine tecnico proprio all’ipotesi di cui gli artt. 1447-1448 c.c.) del contratto, ben più pesanti sottolineature –con colore più ‘grave’ del blu, se mai possibile- si devono fare sul contenuto della proposta sostenuta dai due economisti, proposta che solitamente viene attribuita ad Ichino e che lo stesso si auto-attribuisce impropramente, ma la cui paternità spetta, in realtà, a Biagi, il quale per primo la sostenne (vedasi lo scritto del giuslavorista scomparso, pubblicato postumo da La Nazione qualche anno fa). E allora, per spazzare via le tante falsità che sedicenti prof, tecnici ed esperti vanno raccontando su questo tema a sostegno di quello che viene furbescamente propagandato come alto e moderno diritto del lavoro, ma che rappresenta, in realtà, un ritorno al medioevo del diritto e uno scempio di principi di civiltà giuridica, deve essere chiarito che: 1) per legge il licenziamento deve sempre (tranne alcune limitate e speciali ipotesi) essere sorretto da giusta causa o giustificato motivo. Dunque, sia nell’ipotesi di aziende con più di 15 dipendenti -nel qual caso si applica la tutela reale di cui all’art. 18 L. 300/70- sia per quelle al di sotto di tale limite -nel qual caso si applica la tutela obbligatoria di cui all’art.8 L. 604/66- è richiesta la giustificatezza della causa: la differenza è che, se il licenziamento è dichiarato invalido, nella prima ipotesi è previsto anche il reintegro nel posto di lavoro (oltre al risarcimento), nella seconda l’obbligo di riassunzione, pur previsto, può essere in pratica sostituito dal risarcimento; 2) nel nostro diritto esiste già (ed è largamente utilizzato dalle imprese) il licenziamento per ragioni economiche (art. 3 L. 604/66, c.d. licenziamento per giustificato motivo obbiettivo per i licenziamenti individuali, e art. 24 L. 223/1991 per i licenziamenti collettivi); 3) l’art. 18 altro non è che l’applicazione di principi generali del nostro ordinamento giuridico: il contratto –qualsiasi contratto- è legge tra le parti (art. 1372 c.c.), per cui il recesso privo di giusta causa obbliga, oltre che al risarcimento, all’esecuzione in forma specifica, e, cioè, per quanto riguarda in particolare il contratto di lavoro, appunto il reintegro nel posto di lavoro. D’altro canto, l’inefficacia/nullità radicale del recesso comporta come conseguenza la riviviscenza del contratto che, non essendosi mai giuridicamente interrotto, è considerato essere continuato medio tempore; 4) il reintegro nel posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo non è un’anomalia del diritto italiano, come qualcuno falsamente sostiene, ma è previsto anche in altri Paesi (ad es. la Germania), e, secondo i dati OCSE, in questi giorni pubblicati, non è affatto vero che il licenziamento sia più facile negli altri Paesi e che in Italia il lavoratore dipendente goda di maggiori tutele e garanzie (anzi, se si escludono gli USA –che peraltro godono di un contesto generale non comparabile- è semmai vero il contrario). Fatte queste precisazioni, una domanda allora si pone, ad Ichino e in genere ai fautori del licenziamento c.d. “facile” (rectius: ingiusto), i quali mirano a liberalizzare il licenziamento, in maniera più o meno intensa disancorandolo dalla giusta causa e dall’obbligo dell’adempimento specifico previsto dall’art. 18: cosa c’è di illegittimo, ingiusto, aberrante, anomalo o anacronistico nell’attuale normativa (peraltro già sostanzialmente svuotata dall’art. 8 del decreto Berlusconi) secondo cui il licenziamento è consentito solo in presenza di giusta causa (o giustificato motivo), con la conseguenza che, qualora risulti nullo/inefficace (perché il giudice ha accertato che giusta causa o giustificato motivo in realtà non c’è), l’inadempimento del contratto dà diritto al lavoratore di ottenere (peraltro solo nelle aziende con più di 15 dipendenti) l’adempimento in forma specifica/reintegro nel posto di lavoro? E poi, Ichino dovrebbe spiegare che cosa vuol dire che il reintegro nel posto di lavoro previsto dall’art. 18 non si dovrà più applicare, secondo la sua proposta, ai licenziamenti per ragioni economiche. La cosa non ha infatti alcun senso già sul piano logico: se, come dovrebbe essere ovvio, il reintegro è la conseguenza per il licenziamento nullo/inefficace -e non certo per il licenziamento, anche determinato da ragioni economiche, che sia legittimo per la presenza di tutti i requisiti di legge- i casi sono due: o il licenziamento è appunto legittimo, e allora nulla quaestio di reintegro si pone (il reintegro, già ora coll’attuale normativa, comunque non spetta), oppure il licenziamento è nullo -cioè difettano le pretese ragioni economiche-, e allora non di licenziamento per ragioni economiche si tratta, e dunque l’ipotizzata esclusione del reintegro sarebbe automaticamente inapplicabile! A meno che la proposta norma riformatrice dell’art. 18 non dica che, per far scattare detta esclusione, sia sufficiente la mera dichiarazione del datore di lavoro che autocertifichi che il licenziamento è dovuto a ragioni economiche! Ed a questo che probabilmente pensa Ichino quando dice che il datore di lavoro deve poter licenziare liberamente per ragioni economiche e organizzative anche solo prospettate sulla base di previsioni di future situazioni di crisi, difficoltà ecc., e non solo per quelle attuali (oggi richieste): come dire, insomma, che sarà sufficiente che il datore di lavoro dichiari di prevedere, secondo sue inevitabilmente soggettive e comunque non dimostrabili analisi (sbagliano le previsioni i prof, figuriamoci quelli che prof non sono!), che tra qualche anno avrà qualche problema economico, per mandare a casa, già da subito, un pò di dipendenti. Poi, se in seguito le sue previsioni si rivelino sbagliate, pace …. (ovviamente per i licenziati)! E magari si pensa pure –tutto è possibile sulla strada del sistematico annientamento dei principi giuridici e dell’affermazione dello Stato farwest- ad una norma che preveda -come prevedeva ad esempio quella, contenuta nella prima manovra Berlusconi (e poi fortunatamente stralciata), che intendeva scippare ai docenti precari della scuola statale il diritto di ricorrere al giudice- una sostanziale non impugnabilità del licenziamento! Già attualmente il motivo “economico” è largamente utilizzato dalle aziende quale “ordinario” escamotage -camuffante il vero dissimulato motivo illecito- per liberarsi di dipendenti (magari scomodi), figuriamoci cosa succederebbe se passassero “riforme” del tipo di quelle proposte da Ichino! E’ chiaro, infatti, che lo scopo sottinteso di tutte tali proposte di riforme liberiste è quello, al di là delle garanzie di facciata che eventualmente potranno essere previste sul piano formale, di consentire all’italica furbizia di dare spazio al licenziamento selvaggio, a-causale in quanto rimesso ad nutum, al mero arbitrio, del datore di lavoro. Come ugualmente chiara è la furbesca trovata di propugnare, in nome di un asserito senso di giustizia e di tutela a favore dei lavoratori -giovani soprattutto, oggi penalizzati dalla piaga del lavoro a tempo determinato- la necessità del contratto a tempo indeterminato: per tutti , si sottolinea con l’enfasi di chi annuncia una grande riforma di giustizia, per poi aggiungere però –questa volta nella maniera più marginale e discreta possibile- “rescindibile”! Ma non può sfuggire, a chi non si faccia abbagliare da tanta improbabile generosità nei confronti dei lavoratori, che tale “rescindibilità” (rectius: recedibilità, risolvibilità) non è affatto dettaglio marginale e irrilevante, essendo tale da modificare radicalmente la natura stessa del contratto, che nessuno potrebbe illudersi di considerare veramente “a tempo indeterminato”, e cioè idoneo ad assicurare la tutela della stabilità del rapporto: evidente è, al contrario, che un contratto a tempo determinato, non potendo essere risolto prima della naturale scadenza del termine, offrirebbe maggiori garanzie di conservazione dell’occupazione e sarebbe quindi più sicuro e stabile che non un rapporto a tempo indeterminato “rescindibile” liberamente in qualsiasi momento. Quanto agli effetti di una simile riforma, propagandata dai suoi sostenitori (compreso Monti) quale panacea a tutti i mali dell’Italia e che favorirebbe la crescita del Paese, l’occupazione, la produttività, gli investimenti esteri, ecc., il meno che si possa dire –e va detto- che trattasi di mere “prof-ezie” (dei prof-economisti), indimostrate e tutte da dimostrare. Mentre, non difficili da prevedere, già da ora, appaiono gli effetti negativi connessi ad un consistente aumento della conflittualità sociale e interclasse, rinfocolata dal ritorno ad un sistema da “padrone delle ferriere” titolare di un potere assoluto sui dipendenti (licenziabili ad nutum e perciò facilmente sfruttabili e ricattabili), e del contenzioso giudiziario, che intaserebbe, ancor di più di quanto non succeda oggi, le aule dei tribunali, chiamati a pronunciarsi sulla legittimità e sui limiti di una norma (quella ipotizzata) che violerebbe principi generali dell’ordinamento –espressamente richiamati e ribaditi anche dalle nuove disposizioni recentemente introdotte dalla L. 4.11.2010 n. 183 (art. 30) in materia di cause di lavoro- quali, oltre a quelli più sopra richiamati, quello della stabilità del rapporto (Cost., artt. 4 e 36), quello di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), quello della giustificatezza della causa e della causa quale elemento essenziale del negozio giuridico (art. 1418 c.c.,), quello del favor prestatoris quale parte debole del rapporto, e che risulterebbe in contrasto con la generale tendenza del nostro ordinamento a rafforzare la giuridica tutela di prioritari interessi coinvolti nel contratto mediante la progressiva riduzione delle ipotesi di recedibilità a-causale e il correlativo aumento delle ipotesi di recedibilità causale. Contenzioso che non sfuggirebbe neanche al vaglio della stessa Corte Costituzionale, la quale ha più volte ribadito l’irrevocabilità dello statuto dei diritti sociali, per loro stessa natura progressivi, ed il sostanziale divieto di regressione delle tutele costituzionali acquisite, nel caso di specie giustificate dall’esigenza sociale di porre rimedio allo squilibrio tra le parti del rapporto in cui quella più debole (il lavoratore), in assenza di dette tutele, sarebbe facilmente soggetta ad abusi e prevaricazione. Ma Ichino, che nelle aule dell’Università insegna diritto del lavoro e in quelle dei tribunali difende i grandi gruppi finanziari e industriali (non i lavoratori), queste cose sicuramente le sa. O almeno dovrebbe saperle: come ha detto recentemente un noto industriale (e presidente di una grande banca nazionale, ex presidente di Confindustria, non della Fiom) molti, professori compresi, che parlano di licenziamento e di art. 18 non sanno neanche di cosa parlano, perché non sanno cosa sia veramente il lavoro! Per finire, una proposta (ovviamente provocatoria): lasciamo pure che i prof economisti dicano la loro –è un diritto, in democrazia-, ma aspettiamoli poi alla resa dei conti dei fatti, i quali soli possono bocciare o promuovere, anche se in questo Paese l’amnesia (nel senso di dimenticare quello che si è detto il giorno prima) e l’irresponsabilità (nel senso di non rispondere delle proprie parole ed azioni) sono vizi talmente comuni da essere considerati oramai virtù da premiare (magari con nuovi e prestigiosi incarichi governativi, accademici, bancari, ecc.). A quel punto, che prima o poi inevitabilmente arriva, se i fatti -dando ragione a chi autorevolmente sostiene che le teorie macroeconomiche negli ultimi trent’anni propinateci dai prof economisti sono state «spettacolosamente inutili al meglio, e positivamente dannose al peggio, tant’è che noi viviamo nell’era buia della macroeconomia» (Paul Krugman, premio Nobel) e che <> (Guido Rossi)- dovessero dimostrare che, ancora una volta, i prof ci hanno raccontato inesorabili panzane (per non usare il più … raffinato “francesismo” di De Benedetti) e le manovre studiate (poco) non sono quelle che possono rappresentare la “vera” soluzione dei problemi del nostro Paese e determinarne un nuovo sviluppo sostenibile; che a tale scopo non può servire né la riforma delle pensioni (che già in altri Paesi che l’anno adottata, Germania per es., si è dimostrata più dannosa che utile, con la conseguenza che già si pensa ad una giudiziosa marcia indietro) ed in particolare l’innalzamento dell’età pensionabile (che, inevitabilmente, porta con sè l’effetto nefasto di un ulteriore innalzamento dell’età di ingresso nel lavoro dei giovani), nè l’abolizione dell’art. 18 (che non fa crescere né l’occupazione né la produttività), né l’invenzione di nuove e fantasiose forme di contratto di lavoro (magari in aggiunta alle oltre quaranta già ideate dalla fervida fantasia di Biagi, ora oggetto di revisione critica anche da parte dei suoi stessi idolatri) che stravolgono l’unica forma correttamente ammissibile che il diritto del lavoro (quello vero – e veramente moderno- dei grandi giuslavoristi come Santoro-Passarelli, Giugni, ecc., frutto dell’applicazione di principi di civiltà irrinunciabili e non negoziabili che nessuna crisi finanziaria, mercato, lezione economica, pseudo-modernismo o pseudo-imposizione della BCE, può distruggere) ha elaborato in decenni di progresso, almeno facciano, i prof, pubblica ammenda e, dopo aver rinunciato al pomposo titolo, ritornino sui banchi di scuola! Almeno, dopo essere stati tediati dalle quotidiane lezioni dei garruli ed onnipresenti prof-economisti, potremo anche noi –se avremo ancora la forza di scherzare- riderci su, pensando a quello che a proposito degli àuspici diceva -e potremmo dire oggi dei prof-economisti- lo storico di quell’epoca: e cioè che questi antichi sacerdoti romani, quando si incrociavano per strada, non potevano fare a meno di sghignazzarsi addosso l’un l’altro!

  7. Nel testo della mia nota “A PROPOSITO DELL’ART. 18: PROF-ECONOMISTI E VACANZA DEL DIRITTO” sono saltate, evidentemente per un problema di natura tecnica nella procedura di pubblicazione, alcune frasi virgolettate . Per la comprensione del testo, nella sua interezza originaria, riporto qui di seguito dette frasi:
    – dopo “per perseguire l’obbiettivo che”, la frase mancante in era: “le imprese ci pensino bene prima di licenziare un dipendente, tanto più quanto più a lungo è durato il rapporto di lavoro”;
    – dopo “il richiamo di Guido Rossi, nell’affermare che “, la frase mancante in era: “le grandi crisi sorgono quando il diritto fa vacanza”;
    – dopo “tant’è che noi viviamo nell’era buia della macroeconomia (Paul Krugman, Premio Nobel) e che”, la frase mancante in era: “l’attuale crisi è la riprova di quanto le teorie, le dottrine, le scuole autoreferenziali possano provocare disastri e quanto i loro sacerdoti o corifei, quando incapaci di onestà intellettuale, continuino indefessi a professare contro ogni evidenza storica (Guido Rossi)”

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