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Il Welfare nel mirino

di Felice Roberto Pizzuti – da il manifesto

L’editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi pubblicato sul Corriere della Sera di domenica scorsa con il titolo «C’era una volta lo stato sociale» ribadisce con chiarezza alcuni luoghi comuni conformi alla visione neoliberista la cui applicazione ha concretamente contribuito alla crisi globale; la loro convinta riproposizione è un segno della difficoltà di uscire da quella visione e dalle sue conseguenze (per timore che ciò possa accadere, in un precedente articolo Giavazzi ha proposto perfino che il Parlamento attuale blindi per la futura legislatura quanto già attuato della «Agenda Monti»!). Secondo i due economisti, il nostro sistema di welfare non è compatibile con la crescita, dunque dovrebbe essere «profondamente» ripensato affinché garantisca i suoi servizi solo alle classi meno abbienti e non anche alle classi medio-alte le quali, però, dovrebbero essere sgravate dai corrispondenti oneri fiscali e contributivi; in tal modo si eliminerebbe quello che viene definito «un giro di conto» che «scoraggia il lavoro e la produzione»: «… se anziché essere tassato con un’aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le rate».

Una crudele demografia
Questa indicazione sarebbe rafforzata e resa urgente dall’invecchiamento demografico che avrebbe incrementato in modo straordinario la spesa previdenziale e quella sanitaria; le corrispondenti prestazioni, seguendo la logica dei due economisti, dovrebbero essere privatizzate, salvo garantirne un livello minimo di tipo assistenziale (o caritatevole).
I due autori ricordano che anche a seguito dell’invecchiamento della popolazione (ma non solo), «relativamente pochi ‘lavoratori’ devono farsi carico di tutti quelli che non lavorano». Ciò è naturalmente vero (nel senso letterale). Tuttavia, una prima considerazione generale è che, crescendo la quota della popolazione anziana, non dovrebbe esserci nulla di stupefacente e riprovevole se anche l’incidenza sul Pil dei beni e servizi da essi assorbita tendesse ad aumentare; specialmente se si fa specifico riferimento a beni e servizi che – almeno in parte – hanno negli anziani i loro più naturali destinatari. D’altra parte, se la quota sul Pil della spesa previdenziale e sanitaria rimanesse costante o addirittura diminuisse pur crescendo il numero relativo degli anziani, la partecipazione di ciascuno di essi al reddito nazionale si ridurrebbe rispetto a quella media pro capite nazionale. Questo è in effetti l’obiettivo di chi – sottacendo o negando le responsabilità del modello neoliberista sul peggioramento generale delle condizioni di vita e di lavoro – strumentalizza i reali problemi della condizione giovanile sviando l’attenzione su improbabili contrasti intergenerazionali. I giovani sono più penalizzati dalla crisi perché colpisce tutto il mondo del lavoro e, quindi, particolarmente chi cerca d’entrarci; ma pagano anche gli effetti controproducenti delle politiche spacciate in loro favore che peggiorano la condizione dei lavoratori più anziani e dei pensionati.
Queste politiche, oltre ad avere un’impronta regressiva rispetto ai valori etico-sociali che hanno contribuito a sostanziare il progresso civile dei paesi occidentali, sono tuttavia infondate anche dal punto di vista dell’efficienza economica e controproducenti ai fini di una ripresa quantitativa e qualitativa della crescita.
La spesa sanitaria italiana è leggermente inferiore (la nostra distanza cresce se confrontiamo la spesa procapite) rispetto alla media europea e quest’ultima è nettamente minore di quella statunitense che, come quota di Pil, è quasi doppia e in termini procapite è ancora più elevata (rispetto a quella italiana è quasi il triplo). Eppure non esiste una evidenza empirica che faccia ritenere la situazione sanitaria Usa migliore di quella europea; anzi, nel paese più ricco del mondo continua ad esserci circa un 15% della popolazione che è troppo ricca per poter accedere al sistema pubblico e troppo povera per permettersi un’assicurazione privata. Questo forte divario, sia di maggiore spesa che di minore copertura rispetto all’Europa, è strettamente connesso al fatto che mentre da noi la componente pubblica gestisce mediamente il 75% dei sistemi complessivi, negli Usa la componente privata è prevalente. Questi dati confermano risultati consolidati della letteratura economica e, in particolare, quanto sia infondata l’affermazione secondo cui ridurre le prestazioni e i corrispondenti costi di un sistema di welfare pubblico dovrebbe renderci necessariamente più soddisfatti e produttivi: spesso, ciò che accade quando si procede in quella direzione è che aumentano i costi a fronte di un peggioramento della copertura assicurativa.
Per i bilanci pubblici i sistemi previdenziali possono costituire un aggravio se il saldo dei loro flussi finanziari è negativo; ma in Italia la differenza tra le entrate contributive e le uscite effettive, cioè al netto delle ritenute fiscali, è invece positiva fin dal 1998 (le riforme dei primi anni ’90 erano state rapidamente efficaci sul piano finanziario, anche se successivamente, quasi ogni anno, ci sono state ulteriori misure restrittive), per un ammontare che è andato crescendo, attestandosi attualmente a circa l’1,8% del Pil.
Secondo Alesina e Giavazzi, «il lavoro e la produzione» sarebbero avvantaggiati e ciascuno sarebbe più attivo se potesse ridurre la propria assicurazione previdenziale con il sistema pubblico e sostituirla con una privata. Eppure la matematica attuariale dimostra che coprire un rischio è tanto meno costoso quanto più ampio è il numero di interessati che si assicurano insieme; i dati confermano inequivocabilmente che i costi di gestione dei sistemi pubblici a ripartizione estesi ad un’intera collettività sono nettamente inferiori rispetto a quelli privati gestiti a capitalizzazione poiché i secondi usufruiscono di minori economie di scala e debbono affrontare consistenti spese per la gestione finanziaria e per la rete commerciale che quelli pubblici non hanno.
La volatilità finanziaria
Le prestazioni di un sistema a ripartizione nazionale, legate grosso modo all’andamento del Pil, sono poi nettamente più stabili rispetto a quelle dei fondi a capitalizzazione legate agli andamenti molto più volatili dei mercati finanziari; e poiché la ragion d’essere dei sistemi pensionistici è «assicurare» il reddito negli anni della vecchiaia, la maggior sicurezza offerta da quelli pubblici è un requisito dirimente per affidare loro la parte essenziale della copertura pensionistica di una collettività. I fondi privati possono assolvere un’utile funzione integrativa per chi può permettersela, ma non possono assumere un ruolo sostitutivo che, invece, continua ad essere propugnato nonostante l’eclatante dimensione finanziaria della crisi globale. Proprio la dirompente incertezza economico-sociale accresciuta nei sistemi economici dall’applicazione delle teorie neoliberiste (che pensavano di averla esorcizzata derubricandola teoricamente a rischio probabilisticamente prevedibile) richiede iniezioni di stabilità.
La crisi globale, peraltro, affonda le sue radici strutturali in aspetti reali del sistema economico che lascia inoccupate forza lavoro e impianti e, allo stesso tempo, non è in grado di soddisfare bisogni anche primari negli stessi paesi economicamente più sviluppati (non parliamo dei miliardi di persone che combattono con la fame). Alesina e Giavazzi apprezzano i recenti aumenti dell’età di pensionamento (anzi considerati tardivi), però devono anche ammettere che, nonostante l’invecchiamento demografico abbia fatto diminuire la quota delle persone in età lavorativa, una parte crescente di esse rimane disoccupata o addirittura fuori dal mercato del lavoro.
Evidentemente, il problema non è tanto nelle tendenze demografiche, ma nel sistema produttivo che dopo tre decenni di «riforme» neoliberiste non è in grado di creare sufficienti posti di lavoro. Continuare ad ignorare questo dato di fatto e il contributo che un welfare state adeguato può dare (come già storicamente è accaduto) alla stabilità economico-sociale, alla capacità innovativa del sistema produttivo e, dunque, sia alle condizioni della domanda che dell’offerta rappresenta un serio ostacolo per il superamento positivo della crisi.

11 commenti su “Il Welfare nel mirino

  1. Reblogged this on i cittadini prima di tutto.

  2. Lo stato sociale e l’economia mista sono tuttora le forme migliori di organizzazione sociale, i liberisti dicano quello che vogliono!

  3. […] Continua a leggere » Like this:Mi piaceBe the first to like this. […]

  4. Lo stato sociale l’ha immaginato Lord Beveridge, un liberale.

    Ma questo di adesso non è altro che statalismo, assistenzialismo, dirigismo, clientelismo, interventismo,… Dopo lo stato sociale fascista ci hanno regalato lo stato socialdemocratico di Roosveltiana memoria… e pian piano, grazie a Keynes, abbiamo buttato a mare il pareggio di bilancio e la tassazione limitata con la spesa in deficit fino all’immane debito odierno che ci rende insolventi, non illiquidi (perchè tanto basta stampare!).

    Ce ne corre dallo stato sociale di Lord Beveridge!

    O, forse, adesso lo stato sociale immaginato nel dopoguerra e poi negli anni settanta è diventato un dogma?

    Un altro dogma ideologico?

    Non è contendibile? E’ indisponibile? Non se ne può discutere?

    Chi ne può discutere?

    Quale altra elite di illuminati deve dirci cosa fare? I poltici socialisti o direttamente i loro amichetti banchieri?

    Ma abbiamo ancora bisogno di elites?

    • L’unico dogma che è praticato in Italia da 20 anni è il rigore nei conti pubblici. Con il risultato che l’economia non cresce e la disoccupazione aumenta.
      Il presunto “lavoratore” dovrebbe poi sapere che non possiamo stampare moneta per pagare il debito pubblico. Purtroppo.
      Perchè se fosse così, non vi sarebbe nemmeno un problema di insolvenza. Problema che invece esiste, proprio perchè la Bce non è un prestatore di ultima istanza del debito pubblico degli stati membri. Ed è quello che è successo in Grecia. La quale poteva essere salvata dando 300 miliardi di euro all’1%, anzichè dare 1000 miliardi alle banche, senza risolvere il problema.

      Peraltro, il nostro debito pubblico non deriva dalla spesa pubblica, come solitamente intesa, ma dagli interessi che paghiamo.
      Infatti dal 1991 ad oggi abbiamo cumulato un avanzo primario (hai capito bene: UN AVANZO) di oltre 600 miliardi di euro. E se non ci fossero gli interessi e detto avanzo fosse stato destinato a ridurre il debito, oggi avremmo meno di 70 miliardi di debito pubblico (il 4% del pil).
      Purtroppo abbiamo gli interessi, che in questi anni ci sono costati 1750 miliardi di euro. Ti ricordo che il debito è meno di 2000 miliardi). Se solo avessimo avuto un pareggio di bilancio primario, il debito oggi sarebbe a 2400 miliardi. Se non lo è, è per merito dell’avanzo primario di cui sopra.
      Quindi prima di sparare sciocchezze sulla spesa pubblica, sarebbe ora che si incominci a guardare in faccia la realtà: il problema sono gli interessi sul debito, non la spesa pubblica, dato che con tutte le inique manovre finanziarie fatte in questi 20 anni hanno prelevato ai cittadini, tra imposte e tasse, più di quanto è stato dato loro in servizi e redditi, per 600 miliardi di euro!

      • grazie per l’interessantissimo articolo, utile per smascherare le faziose balle che i liberisti di tutto il mondo ci raccontano da decenni

    • Lo stato sociale . con tutti suoi limiti, difetti e pecche e’ l’unico che ha garantito e puo’ garantire un benessere diffuso( vedi ad es. Germania, Austria, Olanda,Francia e fino a qualche decennio fa’ anche l’Italia).I benefici di tale sistema sociale ricadono anche sulle classi agiate, ma i liberisti negano tutto questo, sono loro i veri dogmatici, spero per ingenuita’ e non in mala fede.La concezione dello Stato sociale non significa statalismo, non e’ un dogma ma una di situazione di fatto possibile in ogni Nazione..Gli illuminati, i plutocrati , coloro che si considerano “elite” e tutti i sostenitori de lnuovo ordine mondiale sono di fatto tutti allineati su posizioni neoliberiste e uindi per lo smantellamento totale dello Stato sociale, per poter far meglio i propri affaracci.La causa maggiore dei deficit pubblici non e’ lo Stato sociale( questo si’ che e’ un dogma inventato ad arte dei liberisti), ma le cause principali sono ad esempio l’evasione ed elusione fiscale (quasi 200 miliardi annui solo in Italia) il signoraggio bancario, le oltre 100.000 pensioni d’oro, le aziende pubbliche svendute agli “amici di turno”, lspeculazione finanziaria che spadroneggia, le truffe in politica, ecc..Dopo venti anni di liberismo malcelato iL deficit pubblico in Italia e’ raddoppiato …….:, non vado oltre, comunque ognuno e’ libero di pensarla come vuole, ma il sottoscritto e tanti altri europei siamo sempre piu’ convinti che la sciagurata ideologia liberista e’ quella realta’ che ci sta portando vero il baratro e non lo Stato sociale.
      Distinti saluti

  5. ALESINA E GIAVAZZI DOVREBBERO FARE QUELLO CHE NON HANNO MAI FATTO: andare a lavorare !! ECONOMISTI DI QUEL GENERE CHE DICONO SEMPRE LE STESSE COSE – SEMPRE NELLA STESSA DIREZIONE, CIOE’ CHE CI DOBBIAMO IMPOVERIRE SEMPRE DI PIU’. VISTO CHE SONO ECONOMISTI PERCHE’ QUALCHE VOLTA NON CI SPIEGANO I SOFISTICATI MECCANISMI DELLA FINANZA MONDIALE, COSA SONO LE BANCHE DI AFFARI, COME MAI LA G.BRETAGNA NON E’ ENTRATA NELL’EURO E MAI VI ENTRERA’, A CHI APPARTENGONO LE VARIE BCE- FONDO MONETARIO. LA BANCA D’ITALIA ECC.-ECC, CI SAREBBERO TANTE COSETTE DA SAPERE PER CAPIRE COME MAI SIAMO ARRIVATI A QUESTO PUNTO.!!!! GRAZIE DELL’ATTENZIONE

    • Assolutamente d’accordo, ci sono troppi economisti o sedicenti tali o giornalisti che si spacciano per economisti , che ci raccontano soltanto quello che fa comodo ai potenti.

  6. Alesina e Giavazzi sono sue psicopatici deliranti. Il fatto che il loro delirio si chiami Neoliberalismo e sia molto ben strutturato non ne attenua la portata patologica, dato che ovunque nel mondo questa ideologia sia stata applicata ha prodotto disastri sociali e morte indegni di una società civile. Riposino in pace. Amen.

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