di Alfonso Gianni
Dobbiamo all’appello contro il “furto d’informazione”, comparso pochi giorni fa su il Manifesto e alle autorevoli firme che lo sottendono, se tra i caldi dell’estate si è infilato qualche refolo di dibattito economico. Se ne è accorta anche la grande stampa, proprio quella giustamente messa sotto accusa dai firmatari dell’appello. A essere puntigliosi dovremmo precisare che l’imputata principale è la stampa generalista, quella specializzata non ha potuto allo stesso modo nascondere la verità. Basta confrontare, per fare solo un esempio, la differenza che corre fra gli inserti economici di Repubblica o del Corriere della Sera e i loro contenitori per rendersene immediatamente conto.
Forse quell’appello non è immune da qualche ingenuità. Pretendere, come ha osservato Giovanni Mazzetti, che siano i nostri avversari ad usare concetti e linguaggi di chi li contesta è davvero un po’ troppo. Il Pensiero Unico non ammette invasioni di campo. Ma non è questo il punto essenziale. A ben guardare l’appello può essere invece letto – e forse è proprio questo il suo messaggio principale – come un richiamo severo a chi contesta, o vorrebbe farlo, l’ordine di cose esistenti a non lasciarsi schiacciare dalla macchina riproduttiva del modo di pensare dominante.
Purtroppo è proprio quanto è accaduto e tuttora è sotto i nostri occhi. Vi è stato un momento nel corso di questa grande crisi, nel quale pareva che i conti con il neoliberismo potessero essere chiusi. Mi riferisco a quei mesi a cavallo tra il 2008 e il 2009, nei quali il dogma reaganiano “lo stato non è la soluzione ma il problema” appariva frantumato dalla quantità di interventi statuali, dalla Cina agli Usa, a favore del mercato finanziario privato. A quel punto si sarebbe dovuto essere in grado di spingere la contestazione del sistema ben oltre le sue compatibilità. Fare, cioè, sul piano culturale quello che sul terreno dei rapporti di forza non era ancora immediatamente realizzabile. Ovvero esigere che l’intervento pubblico ponesse le premesse nell’economia reale di un nuovo modello di sviluppo, fondato sulla difesa dell’ambiente e della solidarietà sociale, innovando oggetti e finalità produttive, sconvolgendo per questa via gli assetti proprietari.
In altre e molto semplificate parole, bisognava puntare a una inedita – per quanto teoreticamente temeraria – contaminazione tra Marx e Keynes. Non è stato così, oppure laddove qualche cosa di simile è avvenuto – si pensi alle lotte per i beni comuni, in più di un caso vittoriose, come nel referendum italiano – non ha fatto “sistema”, non ha creato un compiuto pensiero alternativo, meno che mai nel campo decisivo della politica economica. Basti pensare al “complesso del debito”, diffuso abbondantemente anche a sinistra e che ha contribuito non poco a determinare il fallimento della breve esperienza del secondo governo Prodi e la successiva defailllance della sinistra radicale che lo aveva sostenuto. Il varco si è a quel punto richiuso e le dottrine neoliberiste, alla faccia del loro storico fallimento, hanno ricominciato a secernere i loro veleni, particolarmente in Europa, abbondantemente diffusi dalla stampa generalista e dai potenti mass-media audiovisivi.
Così accade che chi critica il fiscal compact, recentemente votato a larghissima maggioranza nei due rami del nostro parlamento, viene tacciato di antieuropeismo, mentre invece chi sostiene che per vent’anni il nostro paese deve ridurre del 3% il proprio bilancio – ai valori attuali 48 miliardi in meno ogni anno fino al 2034 – passa per campione dell’unità europea. Un capovolgimento radicale della verità, più che un furto di informazione, in questo caso. Infatti sono proprio le misure contenute nel fiscal compact che spingono i Piigs fuori dall’euro e dalla Ue, allo stesso modo che le lacrime e il sangue imposte dalla Troika al popolo greco hanno aumentato a dismisura il debito pubblico di quel paese e non viceversa. Anche per questo eviterei di fornire altra corda indugiando anche a sinistra su prospettive di uscita dall’euro che “ordinata” in ogni caso non potrebbe essere, ma darebbe ulteriore stimolo agli spiriti più animali e selvaggi del sistema. Né si può sperare, come curiosamente sembra credere Lunghini nella sua bella intervista al Corriere, che la salvezza ci venga da Mario Draghi in ragione della sopravvivenza del suo tasso di keynesismo, che peraltro lo stesso ha dichiarato di avere superato nel suo discorso in una recente commemorazione di Federico Caffè.
Oppure succede che non si riesca a stabilire una convincente connessione di causa-effetto tra le politiche economiche fin qui perseguite in Europa e in Italia e le condizioni reali di vita delle persone. Nel giro di due giorni Istat, Bankitalia e Unioncamere hanno dipinto a rapide ma incisive pennellate il quadro della miseria italiana. Ci hanno raccontato dell’aumento della condizione di povertà relativa (sotto i 1.011 euro mensili per una famiglia di due persone) e dell’incremento del precariato, visto che nel giro di sei mesi gli atipici, su dieci assunti, sono aumentati da sette a otto. Ma tutto ciò viene presentato come distante e comunque non riconducibile alle scelte di politica economica dell’attuale governo, continuamente gratificato di un virtuoso risanamento dei conti pubblici, ai fini fin troppo scoperti di perpetuare “l’agenda Monti” anche dopo le prossime elezioni. Così fa sorgere più dubbi il fatto che lo spread sui titoli di stato sia tornato al livello cui lo aveva lasciato lo sciagurato Berlusconi che non le crude cifre sulla condizione sociale del paese. Non c’è da stupirsi: l’operazione di mascheramento della realtà, anche a “carte” scoperte, è funzionale al disegno di posizionare la crisi anziché nella sua base materiale e sociale, nelle crudeli anomalie dei flussi finanziari.
La separazione della critica dell’economia politica dalla sinistra è stata sicuramente una delle cause principali della crisi e dello stato miserevole dell’attuale condizione di quest’ultima.
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Una politica economica di sinistra, un progetto economico a SX è indispensabile, ma atrettanto utile e fondamentale dovrebbe essere un’analisi della fase capitalistica/finanziaria, e della antropologia sociale italiana.
Noi non siamo un paese di cultura protestante, e il nostro capitalismo è tutto familistico, Stato-dipendente, non possiamo scimmiottare o copiare ricette “calviniste”!
Infine, non abbiamo una classe dirigente di ricalzo presentabile e all’altezza dei compiti.
E per questo la Sx è condannata all’atomismo.
Bellissimo articolo. Sintetizza cio’ che molti saggi ponderosi non arrivano ad esperimere. Poi finalmente un’ analisi davvero multidisciplinare e non la solita autoreferenzialità da economisti…
Monti, paladino del pensiero unico liberista, detentore di un potere di origine non
elettiva e geneticamente non incline alla concezione democratica, ha instaurato un vero e proprio regime tecnocratico-dittatoriale (degli economisti), bandendo dal nostro ordinamento la democrazia, il dialogo politico, la partecipazione, la libertà di critica e, in una parola, il diritto. E così, fin dall’inizio, ‘l’uomo che parlava ai cavalli’, ispirato da cieca fede nel dio-mercato e portatore di una monocultura economica, ha detto, senza mezzi termini ed apparenti emozioni (la Fornero avrebbe almeno versato qualche lacrima!), che sarebbe andato avanti per la propria strada anche senza il consenso delle parti sociali –sì, perché, queste, ha spiegato recentemente, sono solo … parti- , che la concertazione (e quindi partiti, sindacati, ecc.) è la madre di tutti i mali e, dulcis in fundo, che i problemi dell’Italia non potranno essere più risolti in base al diritto. Tanti non hanno inteso –o hanno voluto non intendere- la gravità inaudita di simili dichiarazioni, foriere di tempi grami, non percependo che esse annunciavano il precipizio nel buio: lo smantellamento dello Stato-di diritto, soppiantato dallo Stato-farwest, in cui il diritto, nella sua accezione oggettiva e soggettiva (e del diritto ai diritti) è cancellato, nulla più contano quei diritti civili e sociali che la costituzione pone a fondamenta della società (ubi societas, ibi ius) e dello stato (che appunto per questo si qualifica nel binomio inscindibile Stato-di diritto), espressione stessa della sostanza della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza. Non c’è che dire, incommensurabile lezione da parte del prof, niente a che vedere, ad esempio, con quella che ci viene in questi giorni dalla Francia! Monti dice che l’Italia ha fatto i compiti a casa, ma il prof che li ha corretti è lui, al tempo stesso studente, che invece dovrebbe essere il primo ad andare a ripetizione, dalla Francia per esempio: anche per apprendere i rudimenti della democrazia, che trova il suo veicolo proprio in quella concertazione da lui aborrita e bandita e che, al contrario, Hollande ha dichiarato espressamente (a proposito del piano di licenziamenti Peugeot-Citroen) essere il metodo imprescindibile dell’azione di governo. Al momento della nomina di Monti a capo del governo si apriva una speranza: quella, di buona parte degli italiani, che con il nuovo direttore d’orchestra cambiasse anche la musica. Speranza illusoria, subito distrutta dal nuovo premier, che, appena insediato, teneva ad affermare orgogliosamente la continuità del suo governo con quello del suo predecessore -al quale tributava addirittura pubblica ‘riconoscenza’- ed esplicitava il Monti-pensiero annunciando, con la scusa dell’emergenza, della ‘guerra’ in atto e delle imposizioni del mercato (‘ce lo chiede il mercato’, ‘ce lo chiede la BCE’), la sospensione non solo della politica –e della democrazia- ma anche del diritto, che del resto, soprattutto sotto forma di quello che Zagabresky (in un recente intervento su ‘Repubblica’) chiama ‘diritto-dovere di ciascuno, rispetto ai problemi comuni, di assumere le responsabilità che gli competono secondo la propria visione delle cose, nell’economia, nella cultura, nelle professioni, nel comune essere cittadini, anche a costo di contrasti e conflitti’, altro non è che una faccia della stessa medaglia: insomma, una sorta di coprifuoco, giustificato come effetto obbligato della situazione di crisi, ma che in realtà ne è la causa stessa, se è vero che, come dice Guido Rossi, ‘le grandi crisi sorgono quando il diritto fa vacanza’. E quindi la sua ‘politica’, i suoi obbiettivi -il mercato innanzitutto con i suoi pretesi vincoli- era cosa scritta fin dall’inizio e, se ora ci ritroviamo al punto di partenza (con uno spread alle stelle, come al momento dell’insediamento del governo dei tecnici) non dovrebbe meravigliarci più di tanto. ‘L’uomo che parla ai cavalli’, il tecnico, guarda solo ai mercanti –il suo … cavallo di battaglia- ignorando invece le persone, gli italiani che soffrono più del dovuto a causa delle sue politiche errate ed inique, di quella -per restare in tema- ‘cura da cavallo’ perseguita nell’ambito, come è stato detto da altro più attento economista a proposito della crisi greca, di un ‘esperimento di laboratorio per vedere fino a che punto la finanza può spingere verso il basso i salari e privatizzare il settore pubblico. È come nutrire sempre meno un cavallo per vedere se sarà più efficiente, fino a quando le gambe gli si piegano e muore’ (M. Hudson, Università di Missouri). E come i cavalli porta i paraocchi, e perciò non vede altra strada se non quella sulla quale si è immesso, né vede la realtà che gli sta intorno, raccontando tra profonde contraddizioni una realtà che non c’è: il paese rimane grandemente corporativo, dice lui che, con le sue ingiuste scelte che colpiscono le fasce più deboli della popolazione, i pensionati e i lavoratori a reddito fisso, ha mostrato finora di difendere più che altro interessi di corporazione; il governo persegue l’equità, dice lui che si rifiuta di fare una delle poche cose che veramente potrebbe dare il segno dell’equità –l’introduzione di una patrimoniale o tassa sulla ricchezza- che, oltretutto –cosa più unica che rara nel nostro Paese- vede d’accordo tutti, imprenditori e sindacati; il paese ha bisogno di crescere, dice lui che con draconiane misure restrittive e oppressive lo ha condannato alla recessione e alla povertà; la crescita ha bisogno di misure sulla conoscenza, cultura, istruzione e ricerca, dice lui, che taglia i costi e toglie l’ossigeno a questi settori fondamentali; occorre creare lavoro per i giovani, dice lui che liberalizza i licenziamenti, prolunga l’età di uscita dal lavoro (e conseguentemente anche quella di entrata) e niente fa di concreto per eliminare la piaga del precariato; il paese non ha bisogno di un’altra “manovra”, dice lui che sotto un eufemismo inglese –spending review- ne mette in atto una permanente di tagli che più manovra di questa non c’è. E, per finire, non intende prolungare il suo impegno oltre la scadenza naturale del 2013 –aggiunge- ma intanto (si sa, le smentite equivalgono a conferme) insinua e legittima il rinvio sine die della data di quel ‘ritorno della politica’ (Zagabresky) invocato oramai da tanti, lanciando il messaggio terroristico che lo spread aumenta a causa delle incertezze connesse a detto ritorno (balla, come tante altre propinataci dal Prof, grande come una casa, dato che –come dimostrano i fatti di Grecia, Spagna e Italia stessa- lo spread ha continuato a schizzare in alto nonostante i radicali cambiamenti politici intervenuti in questi paesi e le conseguenti politiche di rigore, austerità, ecc., mentre è calato solo di fronte ai segnali forti di impegno della BCE ad agire per assicurare la stabilità dell’euro, come la ‘paccata’ di euro regalati alle banche e l’annuncio di Draghi relativo all’acquisto dei titoli dei paesi in crisi), e quindi l’implicito corollario della necessità di prolungare l’incarico del salvatore della patria. Il quale, del resto, in un crescendo di autoreferenzialismo, non manca occasione per farci credere, non solo che i compiti fatti a casa sono da 30 e lode, ma che raccoglie il consenso internazionale (salvo che dei mercati, ai quali si rivolge e che lo ricambiano con spread e declassamento crescenti) e grandi successi in Europa, dove, annuncia il supponente prof con accenti che ricordano le parole di altro più famoso supponente della nostra storia (“non siamo gli ultimi di ieri, ma i primi di domani”; “non basta essere bravi, occorre essere i migliori”), ‘l’Italia vuole essere prima della classe’. Insomma, il racconto di un film che solo lui ha visto, mentre il film che gli italiani vedono -e subiscono sulla propria pelle- è quello di un paese ultimo della classe, per giustizia sociale, diseguaglianze, corruzione, povertà, crescita, disoccupazione, tassazione, livello dei salari, ecc., ‘primato’ (ultimato) che questo governo pare fare tutto il possibile per mantenersi ben stretto. Infastidito dalle critiche e dalle bacchettate (ad esempio, del premio Nobel Joseph Stiglitz) che –ad onta dei decantati successi- riceve quotidianamente, il prof, abituato agli applausi ossequiosi e più o meno compiacenti delle conferenze, reagisce stizzoso sparando su partiti, sui sindacati, sugli imprenditori, sulla stampa (sottoposta ad una sorta di coprifuoco al grido ‘taci, il nemico ti ascolta’ –e lo spread aumenta- e ad una bieca censura che si scaglia contro chi –vedasi rivelazioni ultime di ‘Libero’ su Banca Italia- osa raccontare i segreti fatti della nostra italietta), insomma sull’Italia tutta, ritenuta immatura ed incapace, e dichiarando guerra alle parti sociali. Col risultato di spaccare la coesione sociale e di aumentare la solitudine che lo separa dal paese reale, (quello degli uomini e donne, in carne e ossa, che soffrono ‘le conseguenze umane’ della crisi), e di inibire quella partecipazione (‘concertazione’) che egli, da un lato bandisce in quanto ritenuta madre di tutti i mali dell’Italia e ostacolo all’azione del suo governo, dall’altra, contraddittoriamente, sollecita invocando la coesione sociale e il sostegno responsabile e non-critico all’azione del governo per non innescare le reazioni negative dei mercati e lo spread . Ma una tale partecipazione, allo stato attuale, non può invece esserci, perché essa si costruisce solo su un progetto -di società, di futuro comune- che renda credibile chi lo propone, guadagnandogli la fiducia collettiva, e sopportabili i sacrifici richiesti, mentre il governo Monti è privo di quest’anima essenziale: non ha e non può averla, proprio perché tecnico e non politico, e solo la politica può disegnare un simile progetto e coagulare su di esso l’adesione popolare. Paradossalmente, la sua natura tecnica e non politica è al tempo stesso la forza del governo Monti (che può contare sul sostegno di una maggioranza di tipo ‘bulgaro’) e la sua debolezza (per l’assenza di partecipazione democratica), e ne contrassegna l’intrinseca contraddizione insita nell’idea di un monstrum contro natura qual’è quello di un governo non politico. D’altro canto, non può dimenticarsi che quella partecipazione è resa in fatto inibita nel momento in cui la democrazia e la sovranità di un popolo vengono fortemente condizionate, se non escluse, dall’imporsi di un potere esterno ed in fatto auto-sovraordinatasi, che eterodirige il paese senza averne la legittimazione giuridica (la Germania, e la Francia, che sinora hanno in fatto deciso e decidono le sorti di Grecia, Spagna e Italia e dell’Europa intera non ne hanno alcun potere legittimo) ed elettiva (la Commissione UE, la BCE sono anche essi ‘tecnici ’) e senza, soprattutto, che a questa cessione di sovranità e di politica corrispondano quel progetto –di società, di futuro comune- e le compensazioni/contrappesi che una vera unione politica sovrannazionale dovrebbe porre sul piatto della bilancia a fronte di quello delle rinunce e dei sacrifici imposti. Ed allora, se è oramai chiaro che il governo ‘senz’anima’ dei tecnici ha fallito, non rimarrebbe, in effetti, che invocare il ‘ritorno della politica’: cosa, però, facile a dirsi e difficile a farsi nella situazione attuale del nostro Paese! Chi è oggi in grado -ed ha la forza (politica)- di assumersene il ruolo? Chi è in grado di proporre quel progetto coagulante –di società, di futuro comune- che gli guadagni la fiducia (politica) e renda accettabili i sacrifici richiesti in vista della realizzazione del cambiamento che tutti invocano? L’annuncio del ritorno ‘alla’ politica –e non ‘della’ politica- fatto da Berlusconi in questi giorni non può certo essere visto –basta leggere le reazioni del mondo politico internazionale (e dei mercati)- come risposta a questi interrogativi, ma piuttosto come un lugubre de profundis alla speranza di quel progetto e, con esso, alla speranza del Paese di uscire rapidamente da questa drammatica crisi.
A mio avviso si continua a pisciare fuori del vaso e il vuoto di democrazia non è iniziato con Monti.
Sparare contro Monti oggi è come sparare contro la croce rossa!
Che Monti sia quello che si dice è un fatto, ma il prosciugamento del lago dovuto alla crisi ha fatto emergere una Italia più complicata e sbiffida, quella sostanziale!
Sono venute a galla intrecci e trame di una mastodontica economia parassitaria che vive all’ombra dello Stato e della classe operaia; é emerso inoltre, sopratutto al Sud che oltre all’ “economia dei pedaggi”, si è stratificata la mala-economia dove gli operai lavorano in un perenne ricatto della salute; alla “periferia dell’impero” il capitalismo “malato” tiene sotto scacco un’intera città e tutta la politica del territorio.
La politica ha fatto patti scellerati con il peggiore capitalismo.
La recente deindustrializzazione ha fatto affiorare il sistema vischioso, i giri d’interesse e di potere delle CORPORAZIONI e del CAPITALISMO “di Stato”; il POTERE quotidiani in cui è ordinato l’Italia.
Entrambe, corporazioni e prenditori hanno da tempo occupato saldamente lo Stato sia nella sua fase deliberativa (sono in parlamento) che in quella esecutiva (dei loro uomini piazzati nella parte apicale delle amministrazioni); é così sia a livello centrale che in quello periferico della Pubblica Amministrazione, costruendo in questo modo i mille canali per il dissanguamento (legale e borderline) e sperpero delle risorse dello Stato a spese dei lavoratori dipendenti unici produttori di ricchezza.
Le corporazioni sono il residuo del sistema fascista (erano il suo sistema di gestione sociale), la resistenza prima e la Sx poi (men che meno la vecchia borghesia), non hanno mai debellato tale struttura, anzi ne hanno cavalcato spesso le loro istanze spesso isomorfizzandosi nella struttura, rinunciando comunque alla formazione di uno STATO MODERNO in Italia.
Per corporazione si intende: avvocati, medici, farmacisti, ingegneri, baroni universitari, ordini vari, massonerie, mafioserie, partiti, notai, CL, esercito,coop, ecc. ecc ed anche le varie formazioni di “malavita” organizzata si pongono come corporazione rispetto allo Stato (quelle che vengono chiamate “trattative”, ma in realtà sono le solite mediazioni ed ricerca di ri-equilibri tra corporazioni). In Italia si ha diritto di cittadinanza solo all’interno di queste corporazioni, fuori di esse si è solo dei sudditi; all’interno si acquisisce il diritto ereditario, per cui i figli prenderanno le veci dei padri (familismo amorale allagato).
Analogo discorso vale per il “capitalismo” indigeno (assistito) che vive all’ombra dello Stato, a capo dei quali spesso ci sono i figli dei vecchi capitalisti “straccioni”. Questi rampolli da produttori di cose si sono trasformati in neo RENTIER, diventando parte integrante dei “grandi mungitori” di Stato; stiamo parlando di Autostrade Spa, Banche private, fondazioni, ospedali, Sip, Enel, Eni, IRI, Alitalia, Ansaldo, le innumerevoli “concessioni”, ecc. ecc. Che macinano profitti in condizione di totale monopolio garantito dallo Stato.
Da noi LIBERALIZZARE alla Giavazzi, alla Berlusconi, o alla Amato vuol dire dare agli “amici” in condizione di favore delle “industrie” a reddito garantito. Altro che concorrenza ed efficienza!!
Questo è il nostro “catto_capitalismo” attuale, e questa è la classe dirigente nell’impresa e nella finanza! (come sempre, anche qui ci sono delle eccezioni, ma sono una minoranza).
Questo sistema economico NON è assolutamente capitalistico, come la Sx dice, e tuttavia occupa lo Stato ed è il principale attore politico. Socialmente questi sono la vera base economica, culturale e sociale di Berlusconi e della destra in generale (prima erano la DC e dei craxiani).
Non a caso Monti viene culturalmente dalla mitteleuropa, ed ha “commissariato” TUTTA la classe dirigente (non solo quella politica!) Italiana.
In questo quadro un certo “liberismo” stile Nord europeo, -paradossalmente, e a causa della nostra atavica arretratezza- per gli operai italiani sarebbe una vera manna, potrebbe essere la volta buona che si completi l’emancipazione totale dalle basi storiche socio-economiche dal fascismo.
Invece la Sx che non si fa carico di quello che è: “lo stato della nazione” concreta, non vede che questa è diversa dall’economia globalizzata del nord Europa. Paventa l’esistenza di un capitalismo liberista/finanziario nazionale assolutamente INESISTENTE, o meglio inconsistente (basta vedere il peso della nostra borsa)!
E con un’ottusa politica elettoralistica, la Sx ci spinge ad allearci sempre con la parte più fascista e arretrata della nazione: le corporazioni e il protocapitalismo “assistito” solo perchè anche questi ceti sono contro Monti.. Che politica del ciufolo è?
In attesa che sorga la tanta decantata economia alternativa, e la soluzione totale al capitalismo, la crisi attuale potrebbe essere sfruttata per fare i conti definitivamente con le potenti corporazioni e con il nostro capitalismo accattone, favorendo magari le piccole imprese e un sistema di imprese cooperanti di territorio (discorso lungo da fare a parte).
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E’ necessaria una critica dell’economia politica
perfetto savinoas quoto 100%
Oggi la fiducia verso ci ci amministra è ai minimi storici, certo che è bene salvare qualcuno che, almeno, ha mostrato di non guardare alla politica coma ad un mestiere. Secondo me dopo un mandato è bene tornare al proprio lavoro. Non è possibile vivere 30 anni di politica. Vi lascio un link del Fatto Quotidiano (il miglior giornale della nazione secondo molto, e io sono uno fra questi)) al riguardo, parla di Tiziano Motti http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/27/europee-eletto-udc-non-si-ricandida-e-rinasce-in-versione- rock-terminator/964995/