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Giorgio Lunghini: “Marx e Keynes per capire la crisi. E uscirne”

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Le teorie economiche di Marx e Keynes sono al centro della riflessione di Giorgio Lunghini. Per l’economista, essi sono i principali autori ad aver spiegato i limiti dell’economia di mercato, in contrapposizione alle teorie dominanti del tempo (e di oggi) che non hanno una spiegazione convincente delle crisi economiche, e che pure vengono utilizzate per “curare” la recessione in atto. Lunghini illustra anche i motivi della crisi tra i quali lo spostamento nella distribuzione del reddito e l’incapacità del sistema economico di autoregolarsi e ci illustra le possibili soluzioni per uscire dall’attuale situazione di crisi economica.

Pubblichiamo qui di seguito il testo della relazione al confronto organizzato dall’ Associazione per il Rinnovamento della Sinistra e dalla Fondazione Di Vittorio che si svolgerà al CNEL  giovedì 12 luglio 2012 sul tema “La crisi finanziaria, dai mutui subprime al rischio di crisi per l’euro. Le origini, gli effetti, le proposte di intervento in Italia, in Europa, nel mondo”.  Nel video, invece, l’intervento di Lunghini ad un seminario all’Accademia dei Lincei, con i medesimi contenuti.

0.  È un fatto intellettualmente curioso che la teoria economica dominante non abbia nessuna spiegazione convincente del fenomeno delle crisi, il che dovrebbe bastare per farla abbandonare; ma è politicamente preoccupante che delle crisi si tenti di medicare le conseguenze ispirandosi alla sua filosofia, che è quella del laissez faire.

1.
  Gli aspetti più vistosi della crisi in atto, in questa sua fase, sono gli aspetti finanziari, sono le colpevoli condizioni della finanza pubblica e delle istituzioni finanziarie private. Nel capitalismo, tuttavia, gli elementi finanziari e gli elementi reali sono strettamente interconnessi, poiché una economia monetaria di produzione è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza. Un sistema economico capitalistico potrebbe anche riprodursi senza crisi; ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale – per dirla con Marx – da non generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzione  relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Ovvero non si darebbero crisi, nel linguaggio di Keynes, se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali – by accident or design – da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, e di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico – il ‘mercato’ – non è capace di autoregolarsi.

2.  Negli ultimi anni si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D’altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie alla globalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie nazionali; e grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionale del lavoro e di un appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale. Così che i singoli paesi si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisi ciascuno da solo, ma non autonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttive della Banca Centrale Europea e, in generale, del “senato virtuale”.

3.  Il “senato virtuale”, secondo una definizione che N. Chomsky mutua da B. Eichengreen, è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano “irrazionali” tali politiche perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi e in particolare delle varie forme di stato sociale. I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Infatti è questa una crisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi non sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente – poiché la seconda volta le tragedie si presentano come farsa – in forme di populismo autoritario, con Tolkien al posto di Heidegger e gli Hobbit al posto delle Walkirie. In un mondo fatto di Lumpenproletariat e di piccolo-borghesi.

4.  Sono conseguenze della crisi, e insieme loro cause, che in verità sono i connaturati difetti del capitalismo: l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Per rimediare a questi difetti, nell’ultimo capitolo della Teoria generale Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive e elevate imposte di successione), l’eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell’economia. È un vero peccato (e peccato mortale nel senso del Catechismo: tale quando ci sono nel contempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso) che la keynesiana Filosofia Sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre non sia mai stata presa in considerazione, per via della incapacità dei finanzieri della City e dei rappresentanti dei capitalisti nel Parlamento, di decidere circa le misure da prendere per salvaguardare il capitalismo dal ‘Bolscevismo’; e che il piano Keynes di Bretton Woods sia stato prima temperato, poi smantellato. Tuttavia i problemi reali, che Keynes aveva ben chiari in mente in tutti e due i sensi della parola, oggi in Italia si riducono a uno: a un problema di crescita, equa e rispettosa dei vincoli di bilancio.

5.  La ricetta keynesiana è di per sé, anche se a ciò non era intesa, una ricetta per l’equità e per la crescita. La redistribuzione del reddito (peraltro predicata dall’articolo 53 della Costituzione italiana) comporterebbe un aumento della propensione marginale media al consumo e dunque della domanda effettiva. L’eutanasia del rentier, dunque del “potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale”, renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale. Per quanto riguarda l’intervento dello Stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, “l’azione più importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno di già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”. Ricordo che l’Italia, a questo proposito, ha una tradizione illustre, purtroppo tradita.

6.  Tutti riconoscono che il problema principale dell’economia italiana è un problema di crescita; e che però i vincoli finanziari sono stringenti. Come intervenire, sotto questo vincolo? Qui, a integrazione di quanto ho detto sinora, voglio riprendere un ragionamento di Pierluigi Ciocca che a me pare di grande importanza e attualità; anche perché contiene una implicita critica alla politica dei due tempi, una politica per definizione fallimentare. Ricordo che Pierluigi Ciocca è stato il primo a parlare di un “problema di crescita dell’economia italiana”, nella riunione scientifica del 2003 della Società Italiana degli Economisti; e che di recente ha suggerito Tre mosse per l’economia italiana, che a integrazione della ricetta keynesiana assicurerebbero a un tempo rigore equità e crescita. È culturalmente e politicamente preoccupante che un così ragionevole e semplice suggerimento, che qui sotto riprendo, non sia stato preso in nessuna considerazione.

7.  L’economia italiana è minata da scadimento della produttività, vuoto di domanda effettiva, credito internazionale precario. La politica economica dovrebbe agire simultaneamente sui tre fronti, tra loro strettamente connessi:

7.1  Promuovere la produttività. La produttività risente di incapacità intrinseche alle aziende italiane. Sono limiti – non solo dimensionali – di cui l’impresa porta intera la responsabilità e sulle quali la politica economica non può molto. Ma la produttività trova altresì impedimenti esterni. In primo luogo, la carenza delle infrastrutture materiali e la pressione tributaria. Manutenzione, ampliamento e modernizzazione delle infrastrutture fisiche postulano investimenti pubblici cospicui. La produttività incontra un ulteriore ostacolo esterno nella inadeguatezza del diritto dell’economia. Si richiede una organica riforma del diritto societario, delle procedure concorsuali, del processo civile, della tutela della concorrenza e del diritto amministrativo. Dai primi anni Novanta – paradossalmente, da quando esiste un’autorità antitrust – si è inoltre affievolito l’insieme delle pressioni, di mercato e no, che costringono le imprese a ricercare il profitto attraverso l’efficienza, il progresso tecnico, l’innovazione. Il grado medio di concorrenza è diminuito, il cambio è stato a lungo cedevole, la spesa pubblica larga, i salari reali stagnanti. Per più vie, a cominciare da una vera azione antitrust, la politica pubblica è chiamata a favorire le sollecitazioni produttivistiche nel sistema, confidando che l’impresa privata – quella pubblica essendo stata ridotta dal disfacimento dell’Iri a utilitiese a alcuni servizi – riscopra una adeguata attitudine imprenditoriale, risponda alle sollecitazioni, sappia cogliere le opportunità.7.2  Sostenere la domanda.Per superare una depressione che altrimenti si protrarrebbe ancora per anni e dovendosi ridurre il disavanzo, è necessario agire sulla composizione 〔corsivo aggiunto〕 del bilancio pubblico. Unitamente a minori imposte, non va ridimensionato – come sinora si è fatto – ma va accresciuto il peso delle voci di spesa più idonee a alimentare la domanda. Al tempo stesso, è il peso delle uscite che in minor misura influenzano la domanda a doversi ridurre, nella misura necessaria a raggiungere il pareggio e a fare spazio nel bilancio alle spese da espandere e alla pressione tributaria da limare. Con una simile, articolata manovra di finanza pubblica, la domanda globale, anziché contrarsi, riceverebbe sostegno. Dal miglioramento delle aspettative e dai minori tassi d´interesse deriverebbero maggiori investimenti e consumi da parte dei privati.7.3  Ridurre il debito pubblico. Solo il rilancio della crescita di lungo periodo, unito alla riduzione e ristrutturazione della spesa e a una pressione tributaria perequata, ancorché attenuata, può risanare i conti pubblici. Al di là dell’emergenza e dei provvedimenti salvifici, va posto in atto un programma che nel quinquennio 2012-2016 abbassi la spesa corrente in rapporto al Pil di circa 6 punti. Di questi, 2 o 3 punti concorrerebbero all’azzeramento del disavanzo e assicurerebbero in seguito l’equilibrio del bilancio. Tre punti verrebbero devoluti a maggiori investimenti in infrastrutture e alla riduzione del carico fiscale. Per ragioni di equità e per sostenere i consumi la tassazione va redistribuita in senso progressivo, in primo luogo attraverso un contrasto all’evasione che sia senza quartiere e che sul reddito celato incida anche rilevando livello e variazioni del patrimonio. L’azzeramento del disavanzo si concentrerebbe su tre voci di spesa: trasferimenti alle imprese, acquisti di beni e servizi, costo del personale. Nella media del periodo le tre voci dovrebbero scendere, rispetto a un Pil nominale e reale dapprima in ripresa poi in crescita, grosso modo nelle seguenti proporzioni: i) i trasferimenti alle imprese (da ridurre prontamente anche in valore assoluto, perché fonte di inefficienza, se non di illegalità) di almeno di 2 punti percentuali; ii) gli acquisti di beni e servizi dal 9 al 6%, attraverso severe economie e soprattutto una dura ricontrattazione degli esosi prezzi lucrati dai fornitori; iii) la spesa per il personale – con un parziale turnover, salvaguardando i salari unitari dall’11 al 10%. Su queste basi l’abbattimento dello stock del debito pubblico potrebbe essere accelerato cartolarizzando immobili delle P. A. non funzionali alla loro operatività. Il peggioramento delle prestazioni offerte ai cittadini dal sistema pensionistico e dal sistema sanitario – conquiste e collanti della società italiana – rappresenta invece una fonte di economie a cui solo eventualmente e solo residualmente far ricorso.

8.  Nell’insieme le tre voci di spesa corrente indicate sopra rappresentano circa un quarto del Pil. In un quinquennio la crescita del Pil potrebbe mediamente risalire al 4,5% l’anno: 2,5% in termini reali, 2% per un’inflazione entro i limiti europei. Se solo venissero bloccate in termini nominali, globalmente le tre voci di spesa scenderebbero alla fine del periodo del 10% in termini reali e quasi del 5% rispetto al prodotto interno lordo. Assumendo, per semplicità, moltiplicatori dell’ordine di 0,5 per le spese che perdono di peso (6 punti) e di 1,5 per i maggiori investimenti e la minore imposizione (3 punti) l’impatto netto del mutamento di composizione del bilancio sulla domanda globale risulterebbe espansivo nella misura dell’1,5 per cento. L’effetto andrebbe distribuito nell’arco del quinquennio alla luce del profilo ciclico dell’economia e nel rispetto dell’equilibrio di bilancio in ciascun esercizio. Il premio al rischio sul debito scenderebbe, perché un piano siffatto è quanto gli investitori, interni e internazionali, chiedono da anni all’Italia.

Giorgio Lunghini è membro dell’Accademia dei Lincei e ha ricoperto il ruolo di presidente della Società italiana degli Economisti. Laureatosi presso l’Università L. Bocconi, è stato docente all’Università degli studi di Milano e di Pavia. Ha tenuto inoltre, dal 1975 fino al 2010, presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi il corso progredito Economia Politica – I modelli economici, poi denominato, dal 2007, Teorie Economiche Alternative. Attualmente è professore ordinario in Economia Politica presso lo IUSS-Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia.

16 commenti su “Giorgio Lunghini: “Marx e Keynes per capire la crisi. E uscirne”

  1. imperdibile, condivisibile e molto convincente.

  2. Salve, potreste dirmi dove posso trovare il video completo di questo evento, se esiste.
    Cordiali Saluti

    • Che vi sia stata una crescente disuguaglianza dei redditi negli Usa non solo non è negata da Krugman, ma è dimostrata empiricamente (come è facile constatare anche su google), tanto è vero che che nel 2007 negli Usa l’1% più ricco deteneva più del 20% del reddito nazionale, come nel 1929 (nel 1980 era sceso al 10% circa).
      Krugman, nell’articolo linkato, non nega che vi sia stata una crescente disuguaglianza (cosa che invece sembra vogliano sostenere gli autori di noise from amerika).
      Krugman non è contrario all’idea che questa disuguaglianza debba e possa essere ridotta (al contrario di quanto vorrebbero far credere quelli di noise from amerika). Basta leggersi “La coscienza di un liberal”.
      Krugman asserisce solo che la piena occupazione non necessariamente sarebbe raggiunta con una migliore distribuzione del reddito e che anzi potrebbe essere raggiunta producendo per l’1% più ricco.
      Si può convenire che non sia interesse del sistema economico contemporaneo avere una situazione di pressochè piena occupazione per periodi lunghi di tempo e che puntare su un solo strumento di intervento, ossia su una tassazione dei redditi fortemente progressiva, per quanto possa essere giusta da un punto di vista sociale, potrebbe non raggiungere da sola l’obiettivo della piena occupazione.
      Krugman ha puntato su altre strade? Ha puntanto su un maggior intervento statale, su maggior investimenti pubblici.
      Questo lo sanno quelli di noise from amerika? Lo hanno letto?

      • Quelli di noise chi sarebbero? ci scrive tanta gente e non sapevo che fossero contrari a politiche redistributive.
        A livello di conoscenze il fatto è che i libri su cui si studia sono pieni di modelli (non mi hanno mai convinto, pochi dati e tante certezze) e molte volte è difficile capire concretamente il problema (i problemi).
        Il fatto di Marx poi non lo capisco, cioè come analisi ok ma dal punto di vista economico
        le sue posizioni sono state (in molti casi) smentite dalla storia e da successive rivalutazioni (per non parlare delle storpiature).

        Mi piace Keynes e mi piace questo blog ma la mia paura è sempre che si cada in certe derive ideologiche (lo dico in generale ed è valido anche per i liberisti di noise).

      • Marx, a differenza di Keynes, non riteneva che il capitalismo potesse essere emendato o “gestito”. Quindi non troverai mai in Marx linee di politica economica. Non era questo il suo scopo. Ma in Marx troverai un’analisi del sistema capitalistico che ha ancora un suo fondamento, almeno per le linee fondamentali.
        Quanto alle derive ideologiche, mi preoccuperei di chi si ostina – contro ogni evidenza – a parlare di laisser faire, quando è evidente che il mercato non è di concorrenza perfetta (se mai lo è stato) o di chi propone di non far nulla (nel senso di lasciar fare al mercato, ove i più forti impongono le loro condizioni) o di tagliare i salari o il welfare quale unico rimedio per una crisi che non è stata generata dai lavoratori e che non farebbe altro che aggravare la recessione, sarebbe socialmente costosa per i più deboli e non rimuoverebbe le cause per una prossima crisi.
        Questa esperienza è già stata vissuta. In poco più di 20 anni (tra il 1917 e il 1929) furono date tre risposte: la rivoluzione bolscevica, il nazifascismo e il New Deal. Attualmente la prima soluzione non trova molti seguaci.
        La seconda è sempre latente e, sebbene quelli che si rischiamano esplicitamente al nazifascismo siano ancora una minoranza, è gente che non ci mette molto a farsi prendere la mano, una volta conquistato il potere.
        Le politiche keynesiane non sono una ideologia. Sono degli strumenti che cercano di attenuare le crisi che ciclicamente investono il sistema capitalistico. I liberisti accentuano le disuaguaglianze sociali e conducono, a lungo andare, ad una delle due precedenti soluzioni. Keynes offrì solo un’alternativa al dilemma del suo tempo (e forse anche del nostro).

      • Concordo su Marx ma per quanto riguarda Keynes pensavo che le politiche da lui proposte fossero da attuare in momenti di crisi.
        Insomma anche “statalizzare” l’investimento a lungo andare ha i suoi rischi basta guardare l’Italia e la gestione criminale del welfare.
        Comunque rimango molto critico rispetto al liberismo e al laissez faire propendo per una linea mediana tra posizioni molto radicali (a mio avviso) come il mercato e la (buona) regolamentazione.
        Buona lavoro con il blog continuate così.

    • L’affermazione di Krugman, va da sé, non sta in piedi. Presupporrebbe che i ricchi spendessero la stragrande maggioranza dei loro redditi in beni di consumo di lusso. Ma molti di questi beni richiedono in realtà poco lavoro. Non solo: costringere i ricchi a spendere tutto, e magari obbligarli a comprare prodotti che non vogliono comprare solo perché così “tengono su l’economia”, è terribilmente illiberale e fondamentalmente stupido. Lei costringerebbe Warren Buffet a comprare decine di migliaia di borse Prada? Cos’è, una specie di legge di Say diretta dall’alto? E’ singolare che un sito che si proclama liberale sostenga una tesi così dirigistica e autoritaria solo per contestare qualcuno.

      Quello che hanno sempre fatto gli Stati è altro. Hanno tassato i ricchi e ridistribuito il reddito. Questo non obbliga nessuno a comprare cose che non desidera e soprattutto è banalmente più efficace: la redistribuzione del reddito innalza la propensione media al consumo e quindi la capacità degli investimenti di creare nuovo reddito.

      @AB: ovviamente non sto criticando lei ma l’idea un po’ stupida che Krugman ha espresso e che nFA ha subito festeggiato.

  3. […] Continua a leggere » Like this:Mi piaceBe the first to like this. […]

  4. AB scrive: per quanto riguarda Keynes pensavo che le politiche da lui proposte fossero da attuare in momenti di crisi
    Vi è forse qualche dubbio che l’economia occidentale non stia vivendo una grave crisi economica e finanziaria?

    Scrive inoltre: “statalizzare” l’investimento a lungo andare ha i suoi rischi basta guardare l’Italia e la gestione criminale del welfare.
    Se per gestione criminale intende i fenomeni di corruzione e clientelismo, me la prenderei con quei politici che operano per interessi personali. Tanto per essere chiari: se ritiene giusto che a chi non ha il dono della vista sia riconosciuto un assegno economico di sostegno, non può concludere che questo strumento deve essere abolito perchè purtroppo qualcuno si è spacciato per cieco senza esserlo (casi realmente accaduti, come saprà).
    Quanto alla statalizzazione degli investimenti, le ricordo che è anche merito delle imprese statali e delle opere pubbliche se nel dopoguerra l’Italia ha potuto lasciare alle sue spalle la povertà e la miseria. Ora ve ne sono molto meno di imprese statali e gli investimenti pubblici sono al minimo storico, ma non mi pare che il mercato ci abbia regalato prosperità e ricchezza: la disoccupazione è oltre il 10% e quella giovanile supera il 36%.

    • D’accordo con lei sul welfare e sul clientelismo ( e chi vuole levare la pensione ad un cieco vero?)

      Sulla crisi e Keynes il mio dubbio non era relativo alle politiche in condizioni di crisi ma a queste in contesti espansivi.
      Oggi ci sono poche aziende pubbliche? Magari mi sbaglio ma l immensa selva di partecipate e altre società misto pubblico e privato mi pare siano una realtà non trascurabile.

      • Acquisito che è il momento di applicare le politiche economiche keynesiane (poichè è evidente che siamo in una situazione di crisi), le migliaia di partecipate a cui di solito si fa riferimento sono quelle degli enti locali che erogano servizi di pubblica utilità (acqua, luce, gas, ecc.).
        Purtroppo è una tendenza che è andata emergendo negli ultimi decenni, pensando che una gestione più “vicina” al mercato avrebbe portato maggiore efficienza. Molto spesso si è semplicemente risolta in un’occasione per nominare gli amici di turno a capo di queste aziende più o meno pubbliche.
        Ma il guaio dei liberisti da strapazzo è che spacciano per privatizzazione ciò che è un trasferimento dell’esercizio di un monopolio naturale dal pubblico al privato. Quale concorrenza ci può essere ad esempio per l’acqua se in un comune vi può essere un solo fornitore? Dato che non si può chiedere alle famiglie di avere 4 o 5 contatori dell’acqua e utilizzare quella che al momento è più conveniente, l’esercizio privato di una risorsa fondamentale come l’acqua porterebbe inevitabilmente ad un aumento spropositato delle tariffe. Non è forse meglio allora che rimanga a controllo pubblico e a tariffe ragionevoli? Dovrebbe essere compito dei cittadini valutare l’efficienza della gestione, se accettare eventuali aumenti delle tariffe (e in che modo) o cambiare i gestori (cosa che purtroppo non avviene).
        Idem per l’energia elettrica o il gas. Sembra che in questo settore vi sia concorrenza, visto quanto spesso ti chiamano a casa per cambiare gestore. Di fatto i risparmi che si possono ottenere sono ridicoli. Perchè chi offre il servizio opera di fatto in condizioni di oligopolio. E quindi, ancora una volta, non sarà il consumatore a trarne un vantaggio. Come è successo per Telecom Italia. E’ stata privatizzata, ma si continua a pagare un canone ad una società ora privata che non ha fatto investimenti infrastrutturali (e quelli fatti sotto il controllo pubblico sono già stati ampiamente ripagati). Eppure l’Italia è notevolmente indietro nella connessione veloce, perchè il gestore dominante non ha interesse ad investire nei territori che non danno un ritorno economico soddisfacente, limitando però la possibilità a vaste aree del paese di avere un accesso ad internet decente ed efficiente.
        Quando parlo di imprese pubbliche, parlo della tanto deprecata Iri. Che pur con tutti i suoi difetti (e ne ha avuti molti, grazie alle gestioni democristiane), ha svolto un ruolo fondamentale per rilanciare il paese nel dopoguerra fino alla fine degli anni ’70, quando si è incominciato a smantellarla.
        Parlo dell’Enel, che dopo la nazionalizzazione, ha portato in tutta Italia l’energia elettrica (non solo dove conveniva ai privati). Parlo dell’Eni, uno dei gioielli di famiglia che è rimasto e che prima o poi – temo – sarà svenduto, perdendo il controllo di un operatore fondamentale per i rifornimenti energetici di questo paese (la Francia si guarda bene dal privarsi dal controllo diretto dei suoi campioni nazionali, non solo energetici).
        Prima di essere liberisti, bisogna accertarsi che vi siano le condizioni di libera concorrenza. Se non vi sono, si creano solo dei monopoli. E in tal caso, come i liberisti dovrebbero sapere, non vi sarà innovazione, miglioramento del servizio, prezzi giusti. Il consumatore ci perderà. Alcuni monopoli sono inevitabili. Altri si possono evitare. I liberisti da strapazzo li sostengono sempre e a qualunque costo, purchè siano in mano dei privati. Dove stia il liberalismo di chi propugna che i molti debbano accettare le condizioni poste da pochi o da uno solo è un mistero che al confronto quelli di Fatima impallidiscono.

      • La gestione di alcuni servizi pubblici secondo me in presenza di una buona regolamentazione può essere affidata anche a privati, in Italia i privati che gestiscono il servizio idrico sono pochi (intendo privati non società quotate con più del 50% del capitale pubblico).
        Il pubblico non è sinonimo di sicurezza e il privato non è sinonimo di insicurezza, si dovrebbero fare gare pubbliche e trasparenti (mi pare che lo stabilisca anche la UE).
        inoltre non capisco quando dice : .” Non è forse meglio allora che rimanga a controllo pubblico e a tariffe ragionevoli? Dovrebbe essere compito dei cittadini valutare l’efficienza della gestione, se accettare eventuali aumenti delle tariffe (e in che modo) o cambiare i gestori (cosa che purtroppo non avviene).”
        Cosa significa tariffa ragionevoli? insomma ache se pubblico un ente non può lavorare in perdita (e questo non significa che le tariffe debbano per forza essere alte ), i cittadini possono valutare l’operato di un amministrazione comunale che ha eventualmente gestito la “gara” e in presenza di un buon accordo tra le parti potrebbe esserci una gestione efficiente.
        Se poi come in Italia come ha ricordato giustamente Lei si affida tutto agli amici degli amici questo è un problema della regolamentazione in quel particolare settore.
        Giustamente non può esservi concorrenza in un settore definibile come monopolio naturale (anzi non ha alcun senso) ma può esservi una buona regolamentazione (e non la criminale deregulation).

        “Prima di essere liberisti, bisogna accertarsi che vi siano le condizioni di libera concorrenza. Se non vi sono, si creano solo dei monopoli. E in tal caso, come i liberisti dovrebbero sapere, non vi sarà innovazione, miglioramento del servizio, prezzi giusti. Il consumatore ci perderà. Alcuni monopoli sono inevitabili. Altri si possono evitare. I liberisti da strapazzo li sostengono sempre e a qualunque costo, purchè siano in mano dei privati. Dove stia il liberalismo di chi propugna che i molti debbano accettare le condizioni poste da pochi o da uno solo è un mistero che al confronto quelli di Fatima impallidiscono.”

        Concordo.

    • I recenti dati Mediobanca su un campione di imprese danno conto di una serie di fenomeni tra cui: a) un progressivo “allungamento” dell’età media degli impianti e una forte riduzione degli ammortamenti aggregati, segno di una riduzione continua degli investimenti; b) una poderosa riallocazione del ciclo produttivo al di fuori dei confini nazionali, tanto da far sintetizzare alla stampa titoli del genere: “il 67% del made in Italy prodotto all’estero”. La domanda sorge spontanea: di fronte a questo scenario, cui è associata anche una riduzione del reddito distribuito e una concentrazione del medesimo, quali politiche mettere in campo e, soprattutto, quale potrebbe essere l’orizzonte temporale richiesto per recuperare il terreno perduto?

  5. Quello che è necessario da subito, senza girarci intorno, è l’introduzione di un’imposta patrimoniale.
    Poi un aumento delle tassazioni delle rendite, anche finanziarie.
    Purtroppo però chi ci governa sono proprio coloro che detengono la maggior parte della ricchezza per cui saranno sempre contrari ad un’equa distribuzione di essa.

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