
Il Ministro del Lavoro Elsa Fornero
Nella selva di cifre e affermazioni che si rincorrono sulle retribuzioni e sul costo del lavoro in Italia, sono senz’altro opportune alcune precisazioni. Se non altro per capire perché mai i lavoratori italiani, che nella classifica europea dei percettori di reddito sono tra gli ultimi, sarebbero penalizzati perché è “il costo del lavoro” a gravare sulle imprese. E’ questo l’intento dell’articolo di Domenico Moro, apparso su economiaepolitica.it che giunge a conclusioni assai convergenti con le nostre, esposte nell’articolo “L’Italia paese dai bassi salari”.
L’obiettivo di Moro è infatti quello di rilevare l’imprecisione dei confronti tra paesi che sono stati proposti, e al tempo stesso di valutare analiticamente il significato delle due distinte variabili in gioco, retribuzione e costo del lavoro, per comprendere in che misura il lavoro sarebbe la causa dell’inefficienza del sistema produttivo italiano e dunque della sua competitività.
Una prima grave svista, sottolinea Moro, consiste nel non aver considerato corrette unità di misura: “…non è corretto confrontare retribuzioni e costo del lavoro annui. Orari e ore effettivamente lavorate variano da Paese a Paese. È come se al supermercato comparassimo i prezzi di confezioni di tonno di dimensioni diverse, senza impiegare una unità di misura comune, il prezzo in euro al chilo. Per un confronto corretto dobbiamo prendere le retribuzioni orarie.”
Non meno rilevante è la scelta dei paesi con la cui media l’Italia viene confrontata, tenuto conto di fattori come l’appartenenza all’area euro e il grado di sviluppo. Per questo, precisa Moro: “Ha molto più senso confrontare l’Italia con la media della Ue a 16 (area euro), e ha ancora più senso, all’interno dell’area euro, confrontare l’Italia con i Paesi con caratteristiche socio-economiche più simili”.
Peraltro anche un confronto che abbracci le retribuzioni nella loro totalità, non tenendo conto del diverso contributo che settori tra di loro disomogenei anche per retribuzioni apportano all’economia in ciascun paese , è pure fortemente distorcente.
Valori su base oraria in un confronto riferito al comparto manifatturiero in ambito euro sono pertanto le cifre poste all’attenzione. Studiando le quali, si scopre che l’Italia risulta assai penalizzata sotto il profilo delle retribuzioni e c he forse il grado di arretratezza che emerge è persino sottostimato poiché “che le retribuzioni considerate riguardano le aziende con oltre 9 dipendenti. Pertanto in Italia, dove le microimprese pesano di più che nel resto dell’Europa occidentale, le retribuzioni dell’intero settore manifatturiero sono, con tutta probabilità, ancora più basse.”
Ma se tutto questo vale per le retribuzioni, non diversamente le cose stanno per il costo del lavoro che “è la somma delle retribuzioni con le seguenti voci: tredicesima (e altre mensilità aggiuntive), TFR, eventuali straordinari, ferie e permessi maturati, e … contributi sociali. Questi ultimi riguardano i contributi a carico dell’azienda per pensione e assistenza sanitaria del lavoratore.” Da tutto questo non emergono imposte sul lavoro, come spesso lamentato da parte di Confindustria, che denuncia la presenza di un alto costo del lavoro. E anche qui, fatti i debiti confronti secondo i più corretti criteri introdotti, se ne ricava che il costo del lavoro in Italia è basso.
Pertanto “Non solo non ha senso dire che le retribuzioni sono basse perché il costo del lavoro è alto, perché non è vero, ma è altresì evidente che si usa questa argomentazione per tagliare ulteriormente il salario. Le presunte tasse da eliminare sono in realtà una parte del salario, cioè i contributi sociali e previdenziali. Insomma, si fa confusione per poter tagliare ulteriormente il salario, con la pretesa magari di volerlo aumentare. Uno degli obiettivi impliciti della attuale controriforma del mercato del lavoro è comprimere anche il salario indiretto, che aveva tenuto sinora relativamente meglio rispetto a quello diretto, come possiamo vedere nella Tab. n.1.
Di solito Confindustria aggiunge nelle sue argomentazioni per il taglio del costo del lavoro che in Italia i salari sono bassi, oltre che per colpa del costo del lavoro troppo alto, anche per colpa della ridotta produttività. In realtà la produttività italiana è bassa proprio perché le retribuzioni e il costo del lavoro sono bassi. Infatti, lì dove c’è abbondanza di forza-lavoro a basso costo le imprese evitano di investire in mezzi tecnici, diminuendo la quota di capitale per addetto, e quindi la produttività del capitale. Non scordiamo che la produttività totale dei fattori si compone di produttività del lavoro e del capitale. Negli ultimi 15 anni non è certo la prima ad essere crollata, grazie a tempi di lavoro più intensi e più lunghi, bensì la seconda. Il calo della produttività totale dei fattori è stato causato proprio dalle controriforme del mercato del lavoro degli ultimi 15 anni, dal pacchetto Treu alla Legge 30, come hanno dimostrato due studi, uno del Fondo Monetario Internazionale e un altro di economisti dell’Università di Harvard e della Northwestern University.
Infatti, la deregolamentazione del mercato del lavoro, unitamente alla maggiore offerta di forza lavoro femminile e immigrata (di base meno pagata), ha aumentato l’offerta totale di lavoro in presenza di domanda stagnante o più ridotta. Come sempre accade quando l’offerta di forza-lavoro è maggiore della domanda, i salari sono diminuiti e le imprese hanno perso la spinta a innovare e ad aumentare la quota di capitale tecnico per addetto, per mantenere alto il margine di profitto, che viene comunque garantito dai bassi salari. È significativo che in Italia e Spagna, dove le controriforme del mercato del lavoro sono state più intense e salari e costo del lavoro sono più bassi, il Margine operativo lordo (Mol) sul fatturato è nettamente più alto che in Germania e Francia (Graf.1).
In Italia e Spagna rispettivamente 7,5% e 8,9%, in Germania e Francia, 6,6% e 5,4%. In conclusione, si può affermare che la nuova riforma del mercato del lavoro, introducendo nuova flessibilità in uscita e in entrata, non può che produrre una ulteriore contrazione, nello stesso tempo, di salario e produttività totale.”
Tutto questo, manco a dirlo, continua a creare effetti depressivi sulla domanda interna, mentre non aumenta di una virgola la capacità del nostro sistema produttivo di competere sull’innovazione e di giovarsi, quand’anche ripartisse il ciclo internazionale, del traino della domanda estera.
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