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Abba Lerner e i “saldi invariati” del Prof. Monti

Abba Lerner

“Cambiate quello che volete, ma lasciate invariati i saldi”. Questo il messaggio di Monti al parlamento sulla legge di stabilità. Come se quel che si fa con i soldi non contasse niente. Una regola che ignora testi ed esiti storici della letteratura economica. Rileggiamoli

di Sergio Bruno

L’invocazione della parità dei saldi – che dovrebbe essere assicurata da quelle forze parlamentari che volessero introdurre modifiche alla legge di stabilità – è un altro segnale dell’incultura dominante. Si tratta di una indicazione già sperimentata dai governi quando invece che di “legge di stabilità” si parlava di “legge finanziaria”. Ma l’essere una regola vecchia, oggi condivisa dalle tecnocrazie internazionali, non ne fa una regola razionale e di buon senso.

Cosa si fa con i soldi sembra non importare

Infatti l’affermazione, da parte del governo, che il parlamento è libero di modificare il disegno di legge governativo ma che le variazioni di imposte o di spese volute dal parlamento devono compensarsi, sicché la variazione complessiva del saldo tra spese e entrate deve essere nulla, implica che il governo ritiene totalmente irrilevante, quanto agli effetti, la scelta di quali spese o entrate variare. Cosa si fa con le spese, su chi gravano le imposte, non conterebbe. Conterebbero solo i soldi, più esattamente il saldo dei soldi, non cosa si fa con i soldi.

Spendere per la salute, ovvero per la scuola, o per la ricerca, o per la messa in sicurezza del suolo, o per il ponte sullo Stretto di Messina, o per tutelare gli esodati, sarebbero tutte spese che lasciano il governo sostanzialmente indifferente. E’ sensato? Quali sono gli obbiettivi che si perseguono? E perché al governo, diversamente dal parlamento, non dovrebbe stare a cuore se una legge di stabilità salva vite umane, ovvero assicura una circolazione più veloce delle merci e delle persone, ovvero genera una maggiore crescita di qui a pochi anni, mentre starebbe a cuore solo il famigerato “saldo”?

Lerner: contano gli effetti, non gli impulsi

Pochi anni dopo la pubblicazione della Teoria Generale di Keynes, uno dei più straordinari economisti del secolo scorso, Abba Ptachya Lerner, nato in Bessarabia, macchinista, cappellaio e tant’altro a Londra, poi studente alla London School e, dal 1937, docente in varie università negli Stati Uniti, trasse le conseguenze logiche delle idee di Keynes per quanto riguarda le politiche di bilancio. Queste conseguenze apparivano, a dir poco, scandalose; tali in effetti apparvero allo stesso Keynes, che delle argomentazioni di Lerner arrivò a dire che erano impeccabili, ma “il cielo aiuti chiunque provi a comunicarle all’uomo della strada”, almeno allo stadio dell’evoluzione culturale dell’epoca. Quello stadio è purtroppo oggi più radicato che mai.

Quelle argomentazioni dicevano che il bilancio pubblico non aveva nessuna ragione razionalmente fondata per essere in pareggio, come un bilancio privato. Il bilancio pubblico avrebbe dovuto essere, secondo Lerner, in avanzo o in disavanzo a seconda degli obbiettivi perseguiti e dello stato del sistema economico (una finanza “funzionale”). Non si sarebbe dovuto aver riguardo alla “quantità di soldi” corrispondenti a ciascuna posta di bilancio (in entrata e in uscita). I soldi non sono altro che meri “impulsi” immessi nel sistema. Ciò che conta sono gli effetti di tali impulsi; una proposizione importante in quanto ciascuna di tali poste, ciascun impulso, può avere effetti diversi.

All’epoca e nel contesto della teoria keynesiana tali effetti diversi venivano riguardati come i valori di produzione e reddito (e indirettamente di occupazione) attivati da ciascuna spesa o neutralizzati da ciascuna imposta. Nel contesto keynesiano tali variazioni corrispondevano soprattutto a variazioni di quantità (e quindi di occupazione) e in misura trascurabile a variazioni dei prezzi. Il punto importante per Lerner era che ciascun euro speso o prelevato in poste di bilancio diverse dà luogo (se non per caso) a variazioni del reddito diverse.

In gergo si diceva che i “moltiplicatori” positivi di ciascun tipo di spesa o quelli negativi di ciascun tipo di imposta sono diversi. Nella breve stagione in cui le idee di Keynes, Lerner e di chi aveva fornito ad esse gambe operative (mi limito a ricordare Tinbergen) hanno influenzato politiche e tecnocrazie, tali moltiplicatori diversi venivano stimati econometricamente e resi pubblici da banche centrali e uffici del piano.

Le implicazioni per la condotta di bilancio

L’effetto complessivo di variazioni di bilancio, di conseguenza, lungi dal dipendere dal saldo tra variazioni di spesa e di prelievo, dipende dalla struttura delle poste soggette a variazioni; in altri termini un dato saldo potrà avere effetti diversi a seconda delle variazioni delle poste che lo determinano.

Prima di Keynes e Lerner si voleva il pareggio di bilancio (la parità tra impulsi positivi e negativi) perché si riteneva che il bilancio pubblico dovesse essere neutrale. Lerner argomenta che solo in certi casi, quando vi è piena occupazione, il bilancio deve essere neutrale. Ma per poter essere neutrale occorre che gli effetti siano neutrali, non che lo siano gli impulsi. In particolare il bilancio non dovrà essere in pareggio ma, con tutta probabilità, in avanzo (le entrate dovranno essere maggiori delle spese), perché i moltiplicatori delle entrate tendono ad essere minori di quelli delle spese, sicché occorrerà “esagerare” con le entrate per neutralizzare gli effetti delle spese. E’ proprio il fatto che le entrate debbano in certi casi essere superiori alle spese che fa capire perché il compito delle imposte non è quello di “coprire” le spese (come accade nei bilanci privati), ma solo quello di regolare la capacità di acquisto dei privati in modo da rendere compatibili le scelte private con quelle pubbliche, evitando effetti inflazionistici.

Quando vi è disoccupazione era invece opportuno, secondo Lerner, che il bilancio fosse in disavanzo, in modo da avere effetti espansivi. Se si fa produrre di più a chi è disoccupato questo non comporta nessuno spiazzamento delle spese private; di conseguenza la maggiore produzione pubblica e privata stimolata dal bilancio espansivo aggiunge beni senza sottrarne; non costa cioè nulla alla collettività in termini di minor prodotto.

La sfiducia nelle politiche keynesiane non travolge le argomentazioni di Lerner

Oggi probabilmente i moltiplicatori continuano a venire stimati, ma non se ne dà pubblicità e della composizione del bilancio tecnocrati e politici sembrano disinteressarsi del tutto. E’ certo vero che le idee keynesiane non sono più di moda, ma le critiche a Keynes sembravano esaurirsi nel fatto che politiche espansive keynesiane avrebbero determinato solo variazioni dei prezzi –più in generale effetti inflazionistici- insieme ad effetti reali nulli od effimeri.

Ebbene, questo tipo di critica alle teorie keynesiane non tocca le argomentazioni di Lerner, che si basano sul fatto che i moltiplicatori diversi delle poste monetarie di bilancio danno luogo ad effetti monetari diversi sulla produzione misurata in moneta.

Di conseguenza, anche ammettendo che non vi siano effetti reali ma solo effetti di prezzo, sarebbe comunque utile conoscere quali composizioni delle variazioni di bilancio siano maggiormente inflazionistiche. E anche in questo caso richiedere semplicemente la “parità dei saldi” costituisce un atteggiamento incolto.

Peraltro ritenere oggi che i problemi maggiori siano di inflazione fa sorridere.

I soldi e il senso delle cose

Oggi adotterei le idee di Lerner in una accezione ancora più avanzata. Compito dello stato è quello di effettuare azioni da cui conseguano effetti positivi rispetto ai bisogni e i desideri dei cittadini (quali interpretati dai soggetti politici di governo). In gioco non sono mai i soldi di per sé ma specifiche operazioni reali; i soldi non sono altro che uno dei tanti effetti, delle tante implicazioni, delle azioni che sono state decise. Lerner, adottando l’ottica keynesiana di breve periodo, considerava solo gli effetti su produzione e reddito monetario. Oggi andrebbero considerati effetti che vanno oltre: le conseguenze dell’agire pubblico sulla cultura, sulla formazione, sulla ricerca, sulla dignità umana, sulla effettiva libertà dei soggetti, sulla democrazia e la qualità di essa, sull’ambiente e la sua conservazione, sulla sicurezza.

Il problema è: esistono presso i ministeri, le tecnocrazie, i partiti, i media, le conoscenze adeguate ad una valutazione delle decisioni pubbliche in merito a questi tipi di effetti? O quanto meno, se non valutazioni (parola spesso abusata), la possibilità e la volontà di aprire discussioni attente, prudenti, lungimiranti, serene sui possibili e probabili effetti? Oppure l’attenzione, l’esagerata enfasi, che viene posta sui saldi tra i soldi sono solo un mezzo per allontanare l’attenzione da tali (ed altre) formidabili carenze culturali?

L’autore è Professore ordinario di Economia pubblica a Statistica alla Sapienza

Tratto da Sbilanciamoci.info

9 commenti su “Abba Lerner e i “saldi invariati” del Prof. Monti

  1. Reblogged this on i cittadini prima di tutto.

  2. Trovo questo articolo – da non specialista di economia – molto interessante . Ho apprezzato la sua interessante prefazione al libro Il Campo dei Miracoli di Augusto Leggio ex collega e amico .
    Ma I have a nightmare che è il Monti bis e non capisco come potremo evitarlo . Ora che uno specialista come Lei rileva in questo governo di “tecnici” atteggiamenti incolti il mio incubo aumenta . Mappando la sua conclusione della cennata prefazione sul suo scritto “mi auguro che solo insieme ai poveri e ai turlapinati di questo mondo che esso possa servire . E me lo auguro soprattutto per i giovani, cui è sempre più difficile fare le promesse che meriterebbero ” ( ho 72 anni )

  3. Nel caso possa interessare a qualcuno, segnalo che ho tradotto l’articolo di Lerner “Functional Finance and the Federal Debt” qui: http://gondrano.blogspot.it/2012/08/la-finanza-funzionale-e-il-debito.html

  4. Reblogged this on Riprendiamoci noi stessi. Un blog per riflettere! and commented:
    …. Spendere per la salute, ovvero per la scuola, o per la ricerca, o per la messa in sicurezza del suolo, o per il ponte sullo Stretto di Messina, o per tutelare gli esodati, sarebbero tutte spese che lasciano il governo sostanzialmente indifferente. E’ sensato? ….

  5. Le osservazioni del prof. Bruno, molto interessanti e certamente degne della massima considerazione, non tengono però nel dovuto conto il fatto che i cosiddetti “tecnici”, ai quali rivolge la sua dura critica, non possono fare a meno di passare sotto le forche caudeine parlamentari e, in questa veste, devono cercare di conciliare la teoria con la realtà politica che hanno di fronte. Non so se i politici si pongano domande relative alla correttezza tecnica delle loro decisioni (dai risultati si direbbe di no), ma è comunque con loro che chi governa deve misurarsi ed è con loro che deve scendere a compromessi. Questo è tanto più vero se si considera come Monti è arrivato al governo, senza, voglio dire, alcuna investitura elettorale. Personalmente non credo che Monti non sappia valutare gli esiti dei diversi impieghi del denaro, ma credo che cerchi di fare il possibile nell’ambito di una situazione molto difficile sul piano politico. Questo aspetto del problema non è secondario e mi sembra ingeneroso non tenerlo presente.

    • Ma la frase di Monti è ex ante rispetto ad ogni contatto con il Parlamento e il prof. Bruno dimostra per tabulas l’assurdità tecnica della stessa . Parlare d’ingenerosità mi sembra fuori posto ( e quella del governo verso i soliti noti ?) e poi ….non si preoccupi tanto purtroppo sempre al Monti bis ( ancora non eletto ma scelto ex post per l’insipienza della classe politica) Lorenzo Marzano

      • Ho trovato solo oggi per caso il mio articolo ripubblicato su Keynes Blog e, soprattutto, commentato. Mi dispiace di non aver potuto rispondere ai commenti. E’ uscito la settimana scorsa un mio più lungo articolo su Sbilanciamoci.info, che ritengo costituisca una risposta adeguata alla maggior parte dei commenti. In esso, tra l’altro, chiarisco meglio le responsabilità delle tecnocrazie e della “cultura” che ne struttura l’imprinting, chiarisco che le correzioni di stima dei moltiplicatori da parte del FMI (anche di Blanchard) non sono in alcun modo un cambiamento del loro modo di pensare (i loro modellicontinuano ad usare agenti iperdotati con aspettative razionali che spontaneamente corregono, anticipando, le cazzate che fanno i governi con i disavanzi: guarda dove si vanno a concentrare i pochi coglioni!), e tante altre cosette.
        Per cui non ce l’ho con Monti in particolare, ma con i meccanismi e con le culture con cui la sfera politica ha consentito che le tecnocrazie acquisissero il prestigioso monopolio dei grilli parlanti e purtroppo agenti. Il mio bersaglio è quindi la perdita del pluralismo culturale.
        In ogni caso, controcorrente rispetto a quanto accade proprio oggi a Bruxelles, sostengo l’esigenza che parta un movimento dal basso per fare del bilancio europeo uno strumento di coesione, che punti nel tempo a mediare il 10% del PIL europeo in funzione della produzione di beni comuni europei e di una politica di parte reale che faccia dell’Europa un polo competitivo planetario, che possa alimentarsi (e debba farlo in certe fasi) attraverso creazione diretta di moneta da parte della BCE (inizialmente aggirando gli ostacoli normativi che lo impediscono). Inoltre sostengo che le banche tornino a specializzarsi (idea cui sono arrivate anche le forze politiche tedesche, stanno a notizie di stampa) e che vengano stabilite delle quote (variabili in funzione di programmi e ambienti) che le banche devono investire in campo reale, costituendo al contempo fondi pubblici di garanzia specializzati per ridurre i rischi globali e trasmettere i bassi tassi di interesse agli utenti finali.
        Spero così, in un quadro di prevalente pessimismo, di aver dato qualche speranza al mio coetaneo 72-enne, mio lettore anche altrove. Lo sapeva che scrissi un libro sulla disoccupazione giovanile, per il Mulino, negli anni 1970? Forse alcune delle proposta sarebbero valide ancor oggi, in particolare quella, condivisa con Paolo Sylos Labini, di un esercito del lavoro da usare come ultima spiaggia per piccole opere locali, per viaggiare in giro per l’Italia e fungere da meccanismo di integrazione, basato, dal punto di vista contrattuale, sul modello dei contratti di imbarco dei marittimi.

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