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La disoccupazione in Italia: una carenza di flessibilità o di domanda aggregata?

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di Lorenzo Testa e Antonella Stirati, da economiaepolitica.it

Il tasso di disoccupazione italiano continua ad essere a livelli molto elevati, e negli ultimi anni ha raggiunto i massimi storici da quando l’Istat ne effettua la rilevazione. Il governo d’altra parte continua a cercarne la cura nella riduzione delle tutele e diminuzione del costo del lavoro.

Il progressivo processo di deregolamentazione del mercato del lavoro e di diminuzione delle tutele dei lavoratori, attuato in molti paesi europei, tende però a coincidere proprio con un aggravarsi della situazione occupazionale e potrebbe far sospettare che le suddette politiche possano invece avere effetti opposti, cioè favorire la disoccupazione.

In effetti, dal punto di vista puramente teorico, tra gli economisti che condividono le ipotesi neoclassiche, che essendo la maggioranza definiremo qui “mainstream”, esiste un largo consenso intorno alla possibilità che siano le rigidità del mercato del lavoro a causare l’alta disoccupazione. Tale posizione non è però universalmente accettata e altri economisti ritengono che le cause dell’alta disoccupazione vadano ricercate nella carenza di domanda aggregata, non solo come fenomeno ciclico, ma anche in media, su periodi lunghi di tempo. Chiameremo questa posizione teorica per brevità, “keynesiana”, nonostante questo termine possa generare qualche ambiguità.[1]

Inoltre la tesi delle rigidità è fortemente messa in discussione da diverse indagini empiriche. Come dimostra l’ampio studio empirico di Baker, Glyn, Howell e Schmitt (2004), non sembrerebbe esservi alcuna relazione chiara tra disoccupazione e deregolamentazione del mercato del lavoro. Un aspetto di questo è mostrato nella figura 2, che mette in luce l’assenza di qualsiasi relazione tra variazioni del ‘tasso di disoccupazione di equilibrio non inflazionistico’ (NAIRU), stimato per i vari paesi dalle istituzioni internazionali, e la deregolamentazione attuata nel mercato del lavoro.

Gli stessi autori sostengono che i loro risultati “forniscono poco supporto alla visione largamente accettata delle rigidità del mercato del lavoro” (Baker ed altri, 2004: p. 104) e che tali risultati quindi “suggeriscono un enorme divario tra la fiducia con cui le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro sono state affermate e l’esistenza di prove empiriche che effettivamente la regolamentazione del mercato del lavoro sia la causa della disoccupazione” (Baker ed altri, 2004: p. 108).

Anche gli stessi autori “mainstream” fanno fatica a dimostrare la dipendenza della disoccupazione dalle cause da loro ipotizzate ed anzi il più delle volte sono costretti ad ammettere che i risultati emersi siano misti ed insoddisfacenti (si veda ad esempio Nickell 1997, Blanchard e Wolfers 2000 e Fitussi ed altri 2000).

Al contrario da un punto di vista ‘keynesiano’, così come definito sopra, non sembrerebbe esservi alcuna difficoltà nello spiegare come mai l’implementazione delle suddette politiche non sia efficace contro la disoccupazione. Infatti la diminuzione delle tutele dei lavoratori, ha diminuito ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori, accentuando la caduta della quota dei salari sul PIL. Poiché la propensione al consumo dei lavoratori è notoriamente più alta di quella delle altre categorie di reddito, la redistribuzione in loro sfavore porta ad una diminuzione dei consumi che a sua volta avrebbe contribuito, insieme alle altre misure di austerità, alla caduta della domanda aggregata, quindi del reddito e dell’occupazione.

Nell’intento di verificare se la visione appena enunciata sia realistica e utile alla comprensione delle vicende italiane, proponiamo un’analisi empirica relativa alla relazione tra domanda aggregata e livello di occupazione.

Innanzitutto notiamo che l’occupazione ha una relazione diretta con la crescita del PIL.

Si osserva l’esistenza di un ritardo della variazione dell’occupazione rispetto alla variazione del PIL. Questa potrebbe essere dovuta da un lato al fatto che le aspettative degli imprenditori, su cui si basa la scelta di assumere o licenziare lavoratori, sembrano basarsi principalmente sull’andamento pregresso dell’economia, e dall’altro all’andamento pro-ciclico della produttività, fenomeno ampiamente noto nella letteratura economica come uno dei corollari della legge di Okun. In ogni caso, questo ritardo sembra confermare che sia l’aumento della produzione a provocare la crescita dell’occupazione e non viceversa, come vorrebbe la teoria mainstream.[2]

Accertata la relazione tra occupazione e produzione, si è verificata la relazione tra quest’ultima e la domanda aggregata. Poiché tra alcune importanti componenti della domanda aggregata (ad esempio consumi e investimenti) e andamento del PIL c’è interdipendenza, al fine di analizzare una relazione di causalità si è scelto di isolare due componenti ‘autonome’ della domanda aggregata, esportazioni e spesa pubblica, che non dipendono dal PIL corrente ma dall’andamento dell’economia di altri paesi e da scelte politiche rispettivamente. Gli andamenti sono illustrati nella figura 4.

Anche in questo caso il grafico è coerente con la visione “keynesiana”, infatti il PIL e la somma tra esportazioni e spesa pubblica variano congiuntamente. Il fatto che le due componenti autonome siano prevalentemente indipendenti dal PIL, sembrerebbe suggerire che sia proprio il PIL a dipendere da queste due variabili e più in generale dalla domanda aggregata.

Con l’intento di approfondire tali relazioni si è costruito un modello econometrico ispirato all’approccio della “domanda effettiva di lungo periodo” (si veda Stirati, Cesaratto e Serrano (2003)). Caratteristica di questo approccio è che il moltiplicatore ha l’effetto di amplificare e propagare nel tempo gli aumenti delle componenti autonome della domanda aggregata, con la peculiarità che agli effetti moltiplicativi dovuti al consumo si aggiungono anche quelli indotti dagli investimenti.

La specificazione è la seguente[3]:

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La variabile dipendente è il saggio di crescita dell’occupazione L, i β sono i coefficienti stimati che misurano l’effetto di ciascuna variabile sul tasso di crescita dell’occupazione, ferme restando le altre variabili. Le variabili di cui si misurano gli effetti sono: tasso di crescita della spesa pubblica al netto degli interessi sul debito (G), tasso di crescita delle esportazioni (EX), la elasticità[4] dei consumi al reddito(c), la elasticità delle tasse rispetto al reddito (t), la elasticità delle importazioni sul reddito (m), il rapporto capitale prodotto (k), le variazioni del prodotto per lavoratore (R). Sono state omesse alcune variabili che risultavano non significative (la crescita dei consumi autonomi e degli investimenti autonomi, anche per la difficoltà ad individuare dei dati adatti a rappresentarle).

Qui sotto, nella tabella 1, sono presentati i risultati ottenuti sulla base di dati annuali che vanno dal 1982 al 2011. I segni dei coefficienti sono tutti coerenti con le attese del modello teorico e si conferma significativo il ruolo di spesa pubblica ed esportazioni nel determinare effetti positivi sulla occupazione. La tabella propone anche i risultati dello stesso modello relativo però alle medie mobili triennali delle stesse variabili, elaborato al fine di catturare gli effetti di lungo periodo, sui valori medi delle grandezze, piuttosto che gli effetti ciclici di breve periodo.

Anche qui i segni dei coefficienti significativi sono quelli attesi e perciò risultano compatibili con la particolare teoria “keynesiana” qui presentata. Si noti che nel caso delle medie mobili triennali gli effetti di variazioni della spesa pubblica risultano statisticamente più significativi e di entità maggiore (ciò è dovuto probabilmente al fatto che gli effetti si dispiegano su un periodo di tempo maggiore del singolo anno). Questo significa che in media nel periodo considerato, a parità di altre circostanze, un aumento di spesa pubblica del 10% determina un aumento dell’occupazione complessiva del 3,5 % (pari grosso modo a 850 mila lavoratori a partire dalle dimensioni attuali dell’occupazione) e, naturalmente viceversa in caso di riduzione della spesa. Si noti inoltre che si parla qui di variazioni percentuali del volume di spesa pubblica, e non di variazioni del suo rapporto con il PIL: il PIl infatti varia, nella stessa direzione, al variare della spesa pubblica.[5] Le variazioni della produttività del lavoro hanno come atteso un effetto negativo: infatti a parità di crescita della domanda aggregata, un aumento della produttività riduce la quantità di lavoro necessaria per incrementare la produzione. La bontà di adattamento del modello ai dati è discreta nel primo caso e molto alta nel secondo.[6]

Per quanto questa analisi quantitativa possa essere migliorata tramite l’utilizzo di metodi econometrici più raffinati e di serie storiche più lunghe, le evidenze qui prodotte sono compatibili con la teoria dell’occupazione in questione.

In termini di politica economica, le deduzioni che possono essere tratte da questa analisi bocciano le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro e di austerità portate avanti dall’attuale e dai precedenti governi e suggeriscono invece la necessità di politiche fiscali espansive e di una decisa redistribuzione, diretta e indiretta, verso i redditi bassi. Direttamente, attraverso aumenti salariali e incrementi nelle tutele dei lavoratori che modifichino, in favore dei salariati, gli ormai del tutto sproporzionati rapporti di forza. Indirettamente, invece, invertendo la rotta delle misure di austerità.

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Bibliografia

Baker, D. ed altri (2004) Labor Market Institution and Unemployment: A Critical Assessment to the Cross-Country Evidence. In Fighting unemployment: the limits of free market orthodoxy. Oxford University Press

Blanchard, O. e Wolfers, J. (2000) The role of shocks and institutions in the rise of European unemployment: the aggregate evidence. The Economic Journal, 110(462), 1-33

Fitoussi, J. ed altri (2000) Roots of the recent recoveries: labor reforms or private sector forces? Brookings Papers on Economic Activity, 2000 (1), 237-281

Nickell, S. (1997) Unemployment and labor market rigidities: Europe versus North America. The Journal of Economic Perspectives, 11(3), 55-74

Stirati, A. Cesaratto, S. e Serrano, F. (2003) Technical change, effective demand and employment. Review of Political Economy, 15(1), 33-52.

Testa, L. (2014) Le cause della disoccupazione: un’alternativa alla visione dominante. Tesi di laurea magistrale, Università Roma Tre.

6 commenti su “La disoccupazione in Italia: una carenza di flessibilità o di domanda aggregata?

  1. non normality, n=28, nessun test, nessun lag, no autocorrelations anche se copre 30 anni, nessun fattore esterno?
    Ma stiamo scherzando?
    questa è junk econometrics del peggior tipo. era meglio se vi limitavate alla statistica descrittiva, facevate una figura migliore.

    Fate un panel, raccogliete almeno 100+ osservazioni (con 28 paesi non dev’essere complesso: sono praticamente 4 anni a paese…), mettete su un fixed effect, e poi ne riparliamo che potreste anche aver ragione voi. Ma ne riparliamo su ricerca fata bene, non su una roba del genere cha fallirebbe un esame di introduzione alla statistica.

    regards

  2. La media mobile è poco significativa. Penso che i vari parametri vadano analizzati, prima di calcolare le costanti, utilizzando le curve di Volterra inserendo le opportunità di crescita e i termini che la ostacola variabile per variabile. Penso che solo così si possano avere coefficienti che portano l’errore medio della formula sui valori rilevati sotto il 5% (condizione minima di affidabilità). Comunque una analisi qualitativa in Italia conferma l’assunto. L’imprenditoria italiana è stata sempre a rimorchio delle agevolazioni statali, con scarsa propensione a rischiare il capitale proprio e con la tendenza a ridurre il costo del lavoro piuttosto che investire in ricerca industriale. Quindi la riduzione del costo del lavoro senza ridurre gli altri costi e senza innovazione può servire solo a ritardare la perdita di competitività, ma non la impedisce.

  3. Caro Francesco Nicoli, le rispondo per punti per essere più sintetica

    1 – mi auguro che lei estenda la sua ‘indignazione metodologica’ anche ad altri lavori che presentano contemporaneamente ben maggiori pretese di rilevanza scientifica e gravissimi errori metodologici e logici di vario tipo. Penso ad esempio, per citare solo i più famosi e contestati, ai lavori di Reinhart e Rogoff sulla relazione tra debito pubblico e crescita o quelli di Alesina e Ardagna sugli effetti espansivi della politica fiscale restrittiva. Se non è così dovrei pensare che quello che non le piace non sia tanto il metodo poco rigoroso ma, per ragioni pregiudiziali, le conclusioni e/o l’impostazione teorica adottata.

    2 – Certamente l’analisi quantitativa presentata può essere, e sarà, sviluppata e raffinata. Tuttavia i test standard compreso quello sull’autocorrelazione sono stati fatti e danno buoni risultati. Non sono stati presentati qui in quanto si tratta di un breve articolo divulgativo rivolto a un pubblico anche di non economisti

    3 – quello qui presentato può essere visto come un semplice esercizio di statistica descrittiva volto a misurare l’ordine di grandezza delle relazioni tra le variabili; relazioni che come lei stesso osserva sono di per se visibili ‘a occhio nudo’ guardando semplicemente ai dati ed alla loro rappresentazione grafica. Non si tratta, come spesso accade per i lavori econometrici, di un complesso e difficile esercizio maieutico volto ad estrarre dai dati qualcosa che non c’è, o quantomeno non è immediatamente evidente.

    4 – Lei afferma che non è possibile che in 30 anni non ci siano stati fattori ‘esterni’ che hanno influenzato la crescita. Non mi è chiaro che cosa abbia in mente, ma nell’impostazione teorica adottata e descritta brevemente, i fattori esterni agiscono essenzialmente attraverso la crescita delle esportazioni e la propensione a importare che sono entrambe grandezze incluse nell’esercizio di stima.

  4. L’analisi econometrica presentata in questo articolo è ovviamente solo una parte di quella che è stata svolta. Non sono stati riportati per intero gli output e i relativi commenti per non rendere troppo tecnico un articolo che si rivolge ad un pubblico eterogeneo, vista la natura divulgativa di Keynes Blog. Le osservazioni utilizzate sono quelle disponibili nel periodo e nel Paese specifico di nostro interesse, con l’obiettivo di inquadrare il fenomeno entro limiti geografici e temporali tali da garantire, per quanto possibile, la stabilità e la coerenza delle relazioni strutturali tra gli aggregati considerati. Peraltro, vista l’originalità dell’approccio, l’aspetto quantitativo sarà sicuramente soggetto a futuri sviluppi ed affinamenti.

  5. Cari Stirati e Testa, ho apprezzato lo stimolante articolo che, per quanto basato su un’indagine empirica certamente da approfondire, quantomeno evoca la necessità di un dibattito attento, possibilmente scevro da pre-giudizi, sulla natura della disoccupazione nel nostro paese e nel contesto europeo più in generale. Ed è spesso su pre-giudizi, piuttosto che su giudizi tratti da analisi, che spesso, proprio in Europa, si basano interi disegni di politica economica. Il suggerimento che mi permetto di darvi è, nel caso di articoli come questo su Keynesblog, di riportare a beneficio dei lettori più specialisti, magari attraverso un opportuno link, un riferimento a un’appendice tecnica all’indagine svolta. In ultimo, da lettore, ho apprezzato molto lo stile delle vostre risposte in contrapposizione all’arroganza del primo commento, corretto sul piano della sostanza, ma privo di quelle minime forme di rispetto e buona educazione oggi sempre più rare nel nostro quotidiano vivere (in)civile e problema a mio avviso ben più grave di ogni possibile carenza analitica in campo econometrico o qualsivoglia. Grazie

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