11 commenti

La decrescita è in atto. Si chiama povertà

di Gabriele Pastrello – Joseph Halevi da il manifesto del 20 settembre 2012

C’è una genia che prospera su tutto lo spettro politico, italiano e mondiale: i lungoperiodisti. L’atteggiamento di chi posa a pensatore del futuro, disdegnando le misure raffazzonate o gli interventi di breve periodo. I lungoperiodisti di destra aborriscono l’inflazione e vogliono una crescita finanziariamente sana; quelli di sinistra sono preoccupati per gli sconvolgimenti causati dalla crescita incontrollata passata. I secondi hanno ragioni migliori dei primi, ma entrambi paiono ignorare che siamo in un periodo di crisi economica che sta già creando recessione e miseria, come sanno bene gli ammalati gravi greci che non possono più curarsi. I primi però non lo ignorano affatto, anzi. Hanno deciso che la crisi economica è un’occasione d’oro per una terapia di immiserimento di ampi strati di popolazione come la cura migliore. Per questo sono acerrimi nemici di Keynes.

Keynes apprezzava quel passaggio di John Stuart Mill, economista e riformatore liberale nell’Inghilterra dell”800, secondo cui non è desiderabile un mondo che assoggettasse tutti gli spazi alla produzione, facendo scomparire quei luoghi appartati di natura incontaminata, che soli permettono solitudine e bellezza. Keynes vi pensava quando auspicava una crescita zero, ritenendo che la dotazione di mezzi di produzione fosse, già allora, sufficiente a garantire una vita decente per tutti. Ma si preoccupava che questa potenziale abbondanza non fosse funestata dalla miseria della disoccupazione. Doveva lottare contro i lungoperiodisti dell’epoca che si preoccupavano, anche loro, dell’inflazione futura e non della miseria presente. Mentre Keynes, contro i Monti d’allora, si ingegnava di far ripartire il motore d’avviamento di una macchina ferma, non di aggiustarne la carrozzeria. Si trattava e si tratta di un’emergenza da affrontare con mezzi di emergenza, poi il futuro. E in questo caso il primo tempo è l’opposto dell’austerità.
La nostra situazione ha alcuni importanti punti di contatto con quella di Keynes. La crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 è l’unica che, per globalità sistemica, può essere paragonata a quella del 1929. Ma allora se ne uscì, quantomeno negli Usa di Roosevelt e del Wagner Act, sostenendo la domanda con la spesa pubblica e con un aumento del potere contrattuale dei lavoratori. Stavolta, invece, dopo aver frenato con stimoli limitati – solo Usa e Cina – una caduta di reddito e occupazione più rapida di quella post-29, la strategia lungoperiodista di destra vorrebbe cancellare sia lo stato sociale che i diritti dei lavoratori. I lungoperiodisti di sinistra si preoccupano che la crescita prema sulle risorse naturali mondiali. Anche la destra condivide questa preoccupazione. Infatti, ha già deciso che debbano «crescere» oggi solo Sudamerica e Asia, poi l’Africa; e «decrescere» i paesi di più antica industrializzazione, o meglio, le condizioni di vita in quei paesi. Il risultato non potrà essere la «decrescita felice» dei lungoperiodisti di sinistra, ma l’immiserimento, perché il processo è strettamente in mano alla destra. Se si vuole strapparle il controllo, bisogna allearsi con grandi masse cui non si può offrire la miseria, bensì quantomeno il mantenimento – anche se rivisitato e depurato da sprechi – del benessere raggiunto.
Ha sicuramente senso pensare a un mondo futuro non più ossessionato dall’accumulazione. Ma ciò non autorizza il disprezzo verso epoche passate, la cui crescita ci permette di poter pensare a un futuro diverso. Mario Cuomo, governatore dello Stato di New York, diceva: «io sono un figlio delle politiche rooseveltiane, solo grazie a quelle sono qui». Bisognerebbe ricordare, inoltre, che solo il trentennio d’oro – e le lotte sociali del periodo – insieme trasformarono un’Italia povera in un paese con un benessere diffuso. Grazie a questo anche chi non era figlio, o nipote, di magnanimi e prosperi lombi ha potuto accedere a possibilità prima precluse: vita quotidiana decente, istruzione, e poi magari pubblicistica, ecc. Combattere il capitalismo è un conto, ma disprezzare l’unico periodo – quello keynesiano – in cui fu costretto a dividere maggiormente i frutti con i lavoratori, è insensato. Il futuro è certo nero; ma ciò non autorizza a sputare su un passato grazie a cui possiamo ancora quantomeno sopravvivere. E questo vale non solo per Renzi.

11 commenti su “La decrescita è in atto. Si chiama povertà

  1. Reblogged this on i cittadini prima di tutto.

  2. Ariticolo molto importante. Una semplice ulteriore prova dell’ insopportabilità logica di liberismo piu’ austerità. Già´la svezia sta mollando questa porcheria, poi seguiranno gli altri.
    Bisognerebbe creare un fronte “Meno stato, meno Mercato piu’ Comune” al piu’ presto. Una nuova economia post keynesiana dovrebbe finalmente farsi largo e prendere il posto del social liberismo oramai in pappoccia.
    Razionalizzare la spesa pubblica e porla a reale sostegno di aree comunita’, famiglie ed individui in difficolta’. Sottrarre risorse allo spreco e invece porle a sostegno della domanda dei piu’ deboli.
    Creare un fondo di emergenza statale per aziende sane in difficolta´ momentanee al fine di preservare il patrimonio produttivo nazionale.
    Investimenti importanti nel patrimonio artistico e nel sociale.
    Piani di emergenza per aree depresse come il Sulcis…etc.. etc…
    Invece siamo stretti tra Rigor Montis- Renzi- Il banana improvvisatosi keynesiano- ed i parvenu del potere ex PDS, paurosi di fare brutte figure nei salotti buoni…
    vendola pensa ai figli…..Grillo ha la bacchetta magica…..
    Sembra il festival di Castrocaro.

  3. […] Continua a leggere » Like this:Mi piaceBe the first to like this. […]

  4. Il moderno Minotauro

    L’obiettivo vero è la disoccupazione nei Paesi assoggettati e lo spostamento di risorse umane verso quelli che possono dettare condizioni agli altri.

    Dai Paesi mediterranei sottoposti a misure insostenibili di risparmio (cinico e fuori luogo il termine “austeritá”: non é austerità restare senza pensione e far la fame o essere disoccupati) e quindi spinti verso l’inevitabile recessione fuggono a migliaia i giovani qualificati ma senza prospettive professionali.
    Vanno nei Paesi del Centro e Nord Europa (Germania, Svizzera, Inghilterra, Paesi Scandinavi e anche Paesi dell’Est nn contaminati dall’euro), o in altri continenti (Australia, Sudamerica) che si trovano a poter usufruire di personale qualificato a costo, poiché i costi della formazione sono stati sostenuti dai Paesi da cui i giovani fuggono. Dall’Italia in un anno sono fuggiti circa 200.000 laureati e diplomati, e l’esodo cresce in continuazione di intensitá.
    Risultato: nei Paesi meta dell’emigrazione di qualitá le aziende avranno un vantaggio che ne rafforzetrà la competitività, mentre nei Paesi da cui proviene l’esodo le aziende chiudono e la recessione cancella ogni possibilità di redenzione dei debiti.
    Si crea cosí un indebitamento perpetuo, una moderna schiavitù.
    Ai tempi di Teseo i Greci dovevano portare 14 giovani ogni anno per darli in pasto al Minotauro. Ora il Minotauro si chiama Volkswagen, Siemens, Vinci ecc., e lungi dal mangiare i giovani che arrivano li inserisce nella produzione traendone benefici poiché ha nel contempo eliminato nei Paesi di provenienza ogni forma pericolosa di concorrenza e non deve temere la nota e sperimentata misura disperata della svalutazione poiché l’euro è il secondo pilastro di questa strategia di assoggettamento dei più deboli ai più forti economicamente.

  5. I (lungoperiodisti di destra) però non lo ignorano affatto, anzi. Hanno deciso che la crisi economica è un’occasione d’oro per una terapia di immiserimento di ampi strati di popolazione come la cura migliore. Per questo sono acerrimi nemici di Keynes.

    Ah sì?
    Chi vuole che ci sia la decrescita dei prezzi in modo tale che il potere d’acquisto di stipendi e salari non solo si conservi, ma addirittura possa aumentare, cioè che la gente si arricchisca o almeno mantenga il potere del proprio capitale, sarebbe uno che vuole immiserire ampi strati della popolazione.
    Gran bella teoria davvero!

    Ma davvero credete che inflazione e consumismo siano la panacea?

    La crisi italiana si combatte e si risolve soltanto trasformando il nostro Paese in un luogo davvero vantaggioso per farci impresa, per creare lavoro e ricchezza, in un Paese in cui chiunque lavora sia certo di arricchirsi e che la sua ricchezza sarà protetta e conservata, e sia sicuro che non verrà complessivamente tassata per più del 30% da chi vuol vivere alle spalle di chi lavora davvero.

    • La mission di “mission:impresa” è forse il fallimento delle stesse?
      E’ in grado di spiegare come sia possibile ridurre i prezzi lasciando invariati i costi di produzione? Se ciò avvenisse, le imprese chiuderebbero una dopo l’altra. A quel punto la sua illusione di avere un reddito rivalutato andrà in fumo, perchè si diffonderà ancor di più l’area di chi non ha proprio un reddito.
      Ecco potremo consolarci bruciando i risparmi rivalutati dalla riduzione dei prezzi. Ma solo chi li ha.
      E dopo che avremo bruciato anche questi, saremo tutti più ricchi?

  6. Già dal titolo si capisce l’inutilità dell’articolo.
    Seguo con interesse keynesblog, sono convinto che nel breve periodo l’Europa ed l’Italia intera abbiano bisogno di maggior keynesismo e minor austerità, ma seguitare nell’ormai dolosamente errato accostamento tra DECRESCITA (non deflazione o recessione) e POVERTA’ è qualcosa che ha sinceramente rotto. Sinceramente.
    Se l’autore non sa di cosa scrive, allora farebbe meglio a smettere di digitare sulla tastiera e leggersi qualche libro sull’argomento. Magari degli italiani Pallante o Cacciari. O magari potrebbe semplicemente trattare d’altro. E voi di keynesblog continuare sull’ottima strada – percorsa fino ad ora – delle argomentazioni, che fino ad ora vi hanno reso uno dei migliori blog di economia italiani.
    Oppure dovrei leggere i decrescisti desiderosi di veder morire di fame o di sanità nulla i popoli d’Europa, a partire dai Greci dato che i suddetti (unitamente a Serge Latouche) non hanno mai scritto – né tanto meno enunciato – nulla di tutto ciò. Anzi.

    • Caro Giordano, grazie per i complimenti e anche per la critica. Tuttavia ciò non toglie che la teoria della decrescita suscita molti dubbi legittimi tra gli economisti progressisti, ivi compresi quelli che hanno a cuore le questioni dell’ambiente, della distribuzione della ricchezza, e della “felicità”.

I commenti sono chiusi.