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Lezioni spagnole per l’Italia

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Mentre in Italia prende il via la nuova riforma del mercato del lavoro, è utile guardare ai paesi che hanno già avviato il percorso deregolamentativo. La Spagna è un ottimo esempio. Il seguente articolo, dell’economista spagnolo José Carlos Díez, evidenzia come la riforma sia semplicemente servita a redistribuire il lavoro tra tempo pieno e tempo parziale e tra contratti a tempo indeterminato e contratti precari. 

di José Carlos Díez, docente di economia, Instituto Catolico de Administración y Direccion de Empresas

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Nella tabella sopra pubblicata da El País sono riassunti tutti i pezzi che risolvono il puzzle del mercato del lavoro della nostra amata Spagna. La distruzione del tempo pieno dall’inizio della riforma del lavoro è brutale. Inoltre, le imprese hanno sostituito il lavoro a tempo pieno con il part-time, così il calo di ore e reddito salariale è stato ancora più brutale. Il lavoratore a tempo pieno con un contratto a tempo indeterminato resta in recessione, con un calo dell’occupazione nel 2014 del 3%. La maggior parte dei posti di lavoro sono stati distrutti nelle grandi aziende, che hanno ridotto la loro occupazione del 9% nel 2013 e hanno annunciato licenziamenti per il 2014.

I posti di lavoro qualificati vengono sostituiti da contratti di stage che pagano solo la sicurezza sociale e dal part-time. Perché i datori di lavoro assumono a tempo parziale e temporaneo? Perché il salario orario è inferiore del 40%, essendo giovani, con un tasso di disoccupazione del 50%. E inoltre utilizzano un nuovo meccanismo di “flessibilità”, con straordinari per lo più non retribuiti. La precarietà ha dimostrato che il 70% di coloro che lavorano part-time vorrebbe farlo a tempo pieno.

Provare a porre fine alla crisi con lavori a bassa produttività e con l’abbassamento dei salari, porta al fallimento della sicurezza sociale e della riduzione del debito pubblico. Finora Rajoy ha congelato le pensioni e rotto il salvadanaio dell’eredità ricevuta sulla previdenza. Ma il buco nella sicurezza sociale è di oltre 15 miliardi. Presto il salvadanaio sarà vuoto e cominceranno a ridurre le pensioni, così la deflazione e la depressione si intensificheranno.

Il reddito netto delle famiglie è sceso di 15 miliardi, il 25% da quando la riforma del lavoro è stata approvata. Mentre per le aziende è aumentato di 40 miliardi di euro, per lo più per le grandi imprese nei settori nazionali protetti, che sono quelle che riducono i posti di lavoro come un tritacarne fa con la carne macinata.

La Spagna è in deflazione, il debito pubblico fuori controllo e non sono riusciti a ridurre il deficit. Questo era il piano Merkel-Juncker inviatoci dalla BCE e che Rajoy ha adempiuto alla lettera. Se i neoconservatori vinceranno di nuovo tutte le elezioni europee la situazione è destinata a peggiorare.

Fonte: El economista observador

9 commenti su “Lezioni spagnole per l’Italia

  1. La rivincita dei reazionari dello stato sociale pare proceda sicura e festosa verso la vittoria, cioè la distruzione di qualsiasi garanzia sociale del lavoro, conquiste ottenute nei 3/4 del XX° secolo a costo di sangue ( guerre mondiali ), e lotte sindacali, senza pensare che tutto ciò porterà solo altro inutile dolore, alle classi più deboli.
    Quello che non riesco a capire, come riusciranno i grandi capitalisti del nordEuropa, una volta riusciti a deflazionare tutta l’europa ( è sempre da vedere ),a far accettare al resto del mondo il loro modello mercantilista. Cioè Cina, Russia, Giappone BRICS e USA, accetteranno di essere compratori netti dell’europa, senza battere ciglio?
    Un misto di speranza e analisi della realtà in corso, mi induce a credere che questo sistema, in cui a pagare sono sempre gli stessi, imploderà sotto il suo peso e le sue insanabili contraddizioni.
    Da amici ( uno fraterno ) che ho in spagna, mi confermano che la vita di tutti i giorni si fa sempre più insostenibile, e qualcuno di loro si è anche dichiarato pronto a tutto, pur di fermare questa mattanza.
    Sembra di leggere dei bollettini di guerra, una guerra silenziosa ( non s’odono bombe e grida ) ma devastante come una malattia.

    • “i grandi capitalisti del nordEuropa”
      peccato che nei paesi del Nord Europa i salari siano più alti, le tutele e il welfare piu’ capillari e vigorose, , Germania compresa dove, tra l’altro, dagli anni cinquanta il modello sindacale e’ stato ed e’ quello della cogestione.
      La solita miopia, non ci si accorge che nell’articolo si parla di Spagna, e non e’ un caso che il vessillo dei paesi più ‘avanzati’ nello sfruttamento delle disuguaglianze sociali siano quelli di cultura cattofascista, come il nostro e la Spagna appunto

  2. ottimo articolo, come ottimo il lavoro di pubblicazione da parte vs. sorge spontanea una domanda: ma quello che rimane del Pd cosa pensa di qs articolo? pensa che i numeri non siano esatti o pensa ancora che la maggiore flessibilità porti ad una diminuzione della disoccupazione ed aumento della produttività? sarei curioso di sapere cosa la sx pensa del modello kaldoriano, giusto per non pensare che la direzione economica del maggior partito italiano non sia digiuna di qs concetti economici

  3. La riforma del lavoro pensata da Renzi presta il fianco a pesanti critiche non solo sul piano economico, ma anche sul quello giuridico. Si susseguono gli interventi che sottolineano le criticità della nuova normativa, criticità che non sfuggono ora nemmeno ad accesi “liberisti” come Ichino (il quale, sia pure con un pudico quanto ingiustificato condizionale, ammette l’incompatibilità della nuova disciplina del contratto a termine con le regole UE) e Tiraboschi (che teme per l’aumento del contenzioso). Se si aggiunge –la notizia è di questi ultimi giorni- la denuncia alla Commissione UE, predisposta dall’Associazione Nazionale Giuristi Democratici, per procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano per la violazione del diritto comunitario, si confermano pienamente i dubbi che avevo sollevato in una nota scritta subito dopo la pubblicazione delle prime notizie sul jobs act e che qui appresso ripropongo:
    L’immagine, indimenticabile e nel contesto azzeccatissima, di Alberto Sordi che fa il gesto dell’ ‘ombrello’ ai lavoratori nel film ‘I Vitelloni’, comparsa su un articolo (LeggiOggi.it) dedicato alla riforma del lavoro all’indomani dell’annuncio-spot delle nuove misure da parte del governo, riassumeva plasticamente, senza tanti giri di parole, l’impressione che aveva destato in molti la prima lettura delle abbozzate linee generali del jobs act renziano. L’impressione era che, al di là dello zuccherino astutamente promesso da Renzi –l’annunciato regalo in danaro (10 ml.di di euro, che molti peraltro dubitavano e dubitano possano essere veramente reperiti)- ai lavoratori si preparava poi qualche amaro boccone, indispensabile anche per accontentare la scalpitante Confindustria che quel regalo avrebbe voluto tutto per sé. ‘Bene 80 euro, ma stavolta niente trucchi’ dicevano (l’Unità, 14.3.2014) i lavoratori destinatari di quel gesto foriero di … pioggia ad essi rivolto dall’Albertone nazionale ed ora dal Matteone nazionale. Ed in effetti, col passare dei giorni, dei comunicati, delle esternazioni renziane e poi della pubblicazione ufficiale del D.L. 34/2014, i timori dei lavoratori hanno finito per trovare conferma, e quella che era solo un’impressione si è trasformata in cruda certezza: il trucco c’è! Si è oramai capito che, in una sorta di gioco delle tre carte, quei soldi promessi ai lavoratori –se mai saranno dati- saranno poi sottratti alle loro stesse tasche da qualche altra parte, ad es. colpendo le pensioni (si parla di quelle sopra i 2.000 euro, ma probabilmente anche più basse), tagliando migliaia di posti di lavoro colpiti dalla scure della spending review (vedasi taglio di 85 mila lavoratori nel pubblico impiego, di 60 mila nella polizia di stato, ecc.), abolendo detrazioni fiscali (vedasi detrazione per coniuge a carico, ecc.), comprimendo/sopprimendo ancora i diritti dei lavoratori (vedasi riforma del rapporto di lavoro a tempo determinato, dell’apprendistato, ecc.). Senza dire che, come dimostrato da più attenti analisti (vedasi Visco e Paladini, Lavoce.info), l’ipotesi di restituire ai lavoratori quegli 80 euro tramite l’innalzamento della detrazione Irpef per lavoro dipendente porterebbe a risultati iniqui e paradossali (escludendo, tra l’altro, dal beneficio proprio i redditi più bassi). Del resto, si era capito da tempo che gli inglesismi tanto amati dai nostri politici, sono solo furbeschi eufemismi –o, se vogliamo, trucchi- per nascondere verità che in italiano hanno nomi impronunciabili. Come Monti si era inventato la ‘spending review’ per non parlare –come si diceva una volta- di ‘manovra finanziaria’, così Renzi si è inventato il ‘jobs act’ per non parlare –come si diceva una volta- di ‘articolo 18’. Ma, alla fine, la ‘fissa’ di questo governo, come di quello di Monti e nel solco del disegno liberista tracciato già prima dal governo Berlusconi (leggasi ‘fissa’ di Sacconi), alla fine rimane –ed ecco il vero trucco, nascosto dai pudici paraventi di quegli inglesismi- l’art. 18, o, per dirla con altre parole, la libertà di licenziamento: e con esso, inevitabilmente -perché le due ‘fisse’ vengono comunemente (e subdolamente) propugnate in maniera inscindibile- quella del contratto unico a tempo indeterminato liberamente risolvibile (idea generalmente –ma erroneamente- attribuita ad Ichino, che ne ha fatto poi il suo cavallo di battaglia, ma la cui paternità è in realtà di Biagi, che per primo la sostenne). Ed infatti che cos’è, se non un modo di svuotare completamente l’art. 18 ( quel poco che ne è rimasto dopo la riforma Fornero) ed eliminare ogni vincolo al licenziamento, questo contratto di lavoro a tempo determinato a-causale e reiteratamente rinnovabile in un periodo lunghissimo (tre anni e anche più, stante che il limite triennale si riferisce al rapporto di lavoro col medesimo datore, ma nulla vieta che quel lavoratore sia poi assunto da altro datore ancora per tre anni, e così via di tre anni in tre anni, all’infinito), o anche questo contratto di apprendistato senza obbligo di stabilizzazione, che, con la nuova riforma, diventeranno sicuramente la forma prevalente, per non dire unica, di rapporto di lavoro (non tutelato) in sostituzione di quella del lavoro a tempo indeterminato (tutelato) che, per principio e per legge –vedasi Dir. 1999/70/CE- dovrebbe essere la forma ordinaria di lavoro. E che cos’è, se non proprio questo, il predetto contratto unico a tempo indeterminato, che si vorrebbe introdurre, mero furbesco eufemismo camuffato di favor lavoratoris (il quale lavoratore, a dire di Biagi e Ichino, per questa via sarebbe premiato!) che in realtà vorrebbe dire cancellazione definitiva dell’art. 18 (attesa la libera risolvibilità del rapporto in qualsiasi momento). Indubbiamente, la semplificazione del quadro legislativo in materia di lavoro perseguita da Renzi come obbiettivo della riforma affidata al jobs act è condizione necessaria –anche se non sufficiente- di un percorso di riforma, ma non ci si può illudere di raggiungere questo obbiettivo con una mera operazione di maquillage delle oltre quaranta forme di rapporto di lavoro oggi previste, nate e proliferate colla falsa promessa della crescita dell’occupazione. Alla luce anche di quelli che sono i risultati –l’occupazione non solo non è cresciuta, ma è addirittura diminuita in misura consistente- appare oramai indispensabile un intervento di rifacimento radicale che parta dalle fondamenta per liberarle dalle inutili e dannose sovrastrutture che nel tempo le hanno nascoste e massacrate. Per esser chiari, la vera, indispensabile, semplificazione che Renzi dovrebbe fare è il ritorno al sistema duale del rapporto di lavoro -autonomo o subordinato- eliminando gli ibridi (le forme di c.d. lavoro parasubordinato), meri escamotages elusivi inventati dalla fervida fantasia dei nostri ‘moderni’ ed uniformati giuslavoristi ma in realtà inesistenti ‘in natura’ (giuridica), anzi contro natura. Non ci sono vie di mezzo, non esiste ‘in natura’ un tertium genus di lavoro che non sia né autonomo né subordinato (la pretesa legittimazione della parasubordinazione non può desumersi da una non pertinente norma meramente processuale, l’abusato art. 409, 3° c., cpc, forzosamente piegata ad una interpretazione che non regge ad un’analisi critica obbiettiva), il lavoro o è l’uno o è l’altro. E si sa che quando si cerca di coartare o, peggio, violentare la natura, questa si ribella. Infatti, tutti i problemi (e le vertenze nei tribunali) che nascono in sede di interpretazione e applicazione delle norme in materia di lavoro c.d. parasubordinato, come tutte le difficoltà per definire le medesime (si veda da ultimo la riforma Fornero, vero monumento … alla chiarezza e alla ragione!) nascono proprio di qui, perché si è finito per creare una selva mostruosa ed inestricabile, in cui è difficile penetrare anche per un avvocato: figuriamoci per un imprenditore, il quale finisce per abbandonare –come dargli torto?- qualsiasi, pur volenteroso e ottimistico, progetto di nuove assunzioni. Bisogna allora avere il coraggio di cancellare dal dizionario gius-lavoristico il monstrum del lavoro para-subordinato o para-autonomo che sia e del lavoro fittiziamente autonomo (co.co.pro, contratti di associazione in partecipazione, false partite Iva, ecc.), dietro al quale si nasconde un esercito di lavoratori sfruttati e senza tutele, malpagati e privati a vita di ogni certezza sul proprio futuro (compresa quella di poter raggiungere una pensione, nonostante i non irrilevanti contributi previdenziali versati). Quanto poi, in particolare, alla riforma dell’apprendistato e del rapporto a tempo determinato, ben poca cosa, rispetto alle aspettative, sembra quella delineata dal jobs act renziano, atteso che questo non scioglie –anzi aggrava- i nodi e le problematiche lasciate aperte dalla riforma Fornero. Questa doveva –dicevano- promuovere la ‘buona occupazione’, in particolare quella dei giovani, e combattere la piaga del precariato, ma ha prodotto solo disoccupazione e, al massimo, ‘cattiva’ occupazione, dovuta anche all’abuso (‘non ne abusate’, raccomandava agli imprenditori l’ineffabile Fornero!) di espedienti legalizzati che consentono lo sfruttamento a basso costo del lavoro, condannando i giovani al precariato a vita. Ma è questa buona occupazione? Giova ciò allo sviluppo economico e sociale del Paese? E’ grazie alla liberalizzazione illimitata del lavoro a tempo determinato, replicabile per tre anni e anche all’infinito (con differenti datori), rimesso totalmente ad nutum del datore e per questo ricattatorio (per il lavoratore, sotto la spada di Damocle del non rinnovo del contratto) e bypassante qualsiasi tutela (comprese quelle che la stessa riforma intende perseguire, come ad es. la maternità che la nuova legge tutela con misure atte ad impedire la pratica ricattatoria delle ‘dimissioni in bianco’), che si può creare buona occupazione e combattere la piaga del precariato? Risponde a tale obbiettivo, e prima ancora ad una qualche giusta e giustificabile funzione, un contratto di apprendistato che consenta che chi ha già fatto lunghi studi (più lunghi che in qualsiasi altro paese), e magari, a 29 anni, laureato, super-specializzato e fornito anche di pregressa esperienza di lavoro, possa essere considerato, ancora e per ben tre anni, una specie di sotto-lavoratore di serie B, in fatto occupato in attività identiche a quelle di qualsiasi altro lavoratore invece che in attività formative (l’obbligo della formazione è stato in sostanza abolito) eppur sottopagato (fino a due livelli contrattuali inferiori di quello che spetterebbe) e con minori diritti, se non addirittura senza diritti (al termine di un sì lungo periodo non ha nemmeno quello della stabilizzazione e della corresponsione della piena retribuzione contrattuale)? A questi interrogativi il jobs act non dà risposta, lasciando ben poche speranze in una effettiva volontà di procedere a riforme che non siano fatte solo di parole e di illusori espedienti, déjà vu e già falliti quando non addirittura già sanzionati: infatti, l’Italia è già stata sottoposta a procedura di infrazione dalla Commissione UE per la disciplina del contratto di formazione e lavoro e per quella del lavoro a tempo determinato. Stupisce, in particolare, che si continui ad ignorare -da parte del Governo, oltre che dagli esperti o presunti tali di diritto del lavoro, sindacalisti, ecc.- che, a norma della Dir. CE 1999/70, il contratto a termine deve obbligatoriamente essere giustificato da ‘condizioni oggettive’ (causa) e devono essere evitati abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti/rapporti a tempo determinato. E stupisce anche che Renzi ignori che, a norma della stessa direttiva, per prevenire detti abusi, gli stati membri, ‘previa consultazione delle parti sociali e/o le stesse’, devono introdurre misure relative alle ragioni obbiettive per la giustificazione del rinnovo di detti contratti/rapporti, alla durata massima dei contratti/rapporti successivi e al numero dei rinnovi, sicché egli non può sbrigativamente liquidare la questione svicolando dietro un trito ‘sindacato chi?’, ‘i sindacati non mi interessano’ e ‘se ne facciano una ragione’. Se questo è il quadro che si apre con la nuova riforma, si può già prevedere che, ben lungi dal deflazionare il contenzioso giudiziario come illusoriamente afferma il ministro Poletti, essa non potrà sfuggire al vaglio della Commissione U.E, della Corte di Giustizia e dei tribunali, davanti ai quali accenderà sicuramente nuovo contenzioso. E Allora, non rimane che un invito: ‘Per favore cambiate quel decreto’, come implora Tito Boeri (Lavoce.info), il quale mette in guardia anche sul pericolo di un selvaggio aumento della precarizzazione e della riduzione dei diritti dei lavoratori che deriverà, come dimostra la negativa esperienza spagnola dei ‘contractos temporales’, dall’annunciata riforma del contratto a tempo determinato; ed una riflessione, che già due anni orsono proponevo (testualmente): ‘Dovrebbe far riflettere anche un’altra notizia, secondo cui in Spagna la disoccupazione è passata al 24%, dato record che supera il precedente record del 22%. Val la pena di annotare come in quel Paese siano state già da tempo abrogate norme simili a quelle del nostro art. 18 e recentemente addirittura ancor più liberalizzati i licenziamenti: e dire, che secondo l’illuminata analisi dei soliti prof economisti -vedasi ad esempio il duo massmediatico Alasina e Giavazzi, su Corriere della Sera di qualche mese fà- l’esperienza della Spagna sarebbe la prova scientifica che eliminando l’art. 18 l’occupazione cresce!!!!

  4. Rimango su un esempio che sempre più spesso e in profondità calza con questa situazione.
    Adolf Hitler, oramai assediato nel bunker, continuava a sognare riscosse e legioni di soldati da opporre al nemico, che avrebbero rovesciato l’esito oramai fatale.
    Anche se particolarmente macabro, ci si può, alla fine, consolare che non sia caduto vittima delle congiure e degli attentati; se fossero riusciti magari adesso discuteremmo ancora su qualche “elemento positivo” del nazionalsocialismo, o su qualcosa che “può essere salvato” di quel delirio della ragione.
    Del resto, a quanto pare, siamo da un lato completamente impotenti a fare alcun che, deprivati di ogni forma di agire, eventualmente consolati solo da questo scrivere alla luna su questi blog, e dall’altro però anche completamente convinti, come tutti lo sono anche i novelli hitler, che queste riforme sono del tutto inutili, inefficaci e stupide, e l’esito finale della guerra è già scritto.
    Consoliamoci del fatto che, almeno dopo, parlare di liberismo o neoliberismo sarà la stessa cosa di parlare di nazionalsocialismo o di incesto. La vendetta della ragione contro l’illogico!

  5. L’articolo mi richiama alla mente il noto e spesso citato saggio “Prospettive economiche per i nostri nipoti” con cui Keynes avanzo’ – per un futuro non troppo lontano, più’ o meno i nostri giorni – la celebre previsione di un mondo migliore, fatto di più diffusa abbondanza, minor lavoro e più tempo libero da dedicare alle cose belle della vita. La profezia va avverando si a metà (e in un senso ben diverso da quanto previsto da Keynes): minor lavoro (disoccupazione, part-Times e precarizzazione!!) con conseguente (involontario) maggio tempo libero(!!). Al l’appello manca la prevista diffusa abbondanza, sostituita da una crescente sperequazione. Il capitalismo, nelle sue ciniche e pronte mutazioni indotte dalle ricorrenti crisi – mutazioni, oggi saldamente ancorate all’impresa te neo-liberismo – riesce sempre a trovare, nella immanente dialettica capitale/lavoro, soluzioni vantaggiose per il primo fattore e a scapito del secondo: è sconsolante come la sinistra riesca, anche ora a tradire la sua missione assecondando tale evoluzione.

  6. Io penso che a questo punto potreste anche e ragionevolmente rinominare questo blog o farne uno simile “marxblog”. Keynes era troppo moderato e ottimista, non è sufficiente a difenderci.

  7. […] Articolo pubblicato su keynesblog.com, autore José Carlos Diez  […]

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