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L’insegnamento di Roosevelt a 80 anni dalla sua prima elezione

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di Stefano Rizzo (*) per Keynes blog

Quando il 4 marzo del 1933 Franklin Delano Roosevelt pronunciò sulla scalinata del Campidoglio il suo primo discorso di investitura la crisi economica che da quattro anni imperversava negli Stati Uniti aveva raggiunto il suo punto più basso: la disoccupazione aveva raggiunto il 25 per cento, i prezzi erano crollati del 60 per cento, la produzione industriale si era ridotta della metà, migliaia di banche in quasi tutti gli stati erano state prese d’assalto ed erano fallite, le campagne e le città erano percorse da milioni di senza tetto, laceri e affamati. Il giorno dopo anche la Federal Reserve (la banca [centrale] federale) era stata costretta a chiudere i battenti.


Roosevelt era stato eletto quasi quattro mesi prima, l’8 novembre, ma mentre la crisi peggiorava e il presidente in carica Herbert Hoover si dimostrava incapace di reagire, anche le mani del nuovo presidente erano legate. Le bizzarre procedure elettorali americane fissavano nel 4 marzo la data dell’insediamento in ricordo del giorno in cui entrò in vigore la Costituzione, ma anche perché all’epoca (nel 1789) la condizione delle strade avrebbe reso difficile raggiungere Washington in pieno inverno. Il giuramento di Roosevelt fu l’ultimo ad avvenire il 4 marzo perché poco dopo entrò in vigore il XX emendamento della Costituzione che anticipò l’insediamento di un mese e mezzo, al 20 gennaio, e tale rimane tutt’ora.
Già nel corso della campagna elettorale Roosevelt aveva promesso al popolo americano un “New Deal”, una nuova possibilità e un nuovo patto sociale per uscire dalla crisi sempre più drammatica. Un patto che gli consentì di raccogliere intorno alla sua persona una nuova coalizione elettorale costituita da afroamericani, immigrati bianchi (italiani, irlandesi, polacchi), bianchi poveri degli stati del sud e, soprattutto, le grandi organizzazioni sindacali – che per decenni costituì quella che è stata chiamata la Coalizione del New Deal e che durò fino agli anni ’60 quando gli abitanti del Sud, contrari alle leggi per i diritti civili emanate dall’amministrazione Kennedy e Johnson, abbandonarono il partito democratico.
Nel suo discorso di insediamento quel 4 marzo di 80 anni fa Roosevelt tuonò contro l’avidità dei banchieri e del mondo della finanza e contro un capitalismo accecato dal profitto e indifferente nei confronti dell’interesse nazionale, attribuendo alla mancanza di regole e alla eccessiva concentrazione della ricchezza in poche mani la causa principale della crisi.

Pochi avrebbero potuto prevedereventi anni prima che il giovane Franklin Delano sarebbe diventato il più severo fustigatore del capitalismo senza freni. Apparteneva ad una delle famiglie più influenti dell’Est, era imparentato con importanti esponenti del mondo politico (Theodore Roosevelt era suo cugino) e degli affari: per formazione, per ricchezza e privilegi apparteneva a quel mondo
Ma divenuto presidente, di fronte ad una catastrofe non solo economica, ma anche sociale e umana senza precedenti, decise di intervenire. Sul suo repentino cambiamento certo pesò la drammaticità della situazione, ma ebbero una grande influenza gli intellettuali di cui si era circondato (per la prima volta si parlò allora di un “Brain Trust”, di un trust di cervelli tratto dal mondo accademico – un esempio seguito trenta anni dopo da John F. Kennedy), tra cui l’economista inglese John Maynard Keynes, che da anni teorizzavano la necessità dell’intervento pubblico per rilanciare l’economia in una situazione di crisi economica.

“I primi cento giorni” della nuova amministrazione (è da allora che l’espressione diventa proverbiale) furono prodigiosi. Di fronte al panico bancario e all’emorragia di liquidità che aveva provocato l’avvitamento su se stessa dell’economia Roosevelt pronunciò la famosa frase: “Non c’è nulla di cui avere paura se non della paura stessa” cercando così (e in parte riuscendoci) di rassicurare i correntisti. Seguirono subito una serie di provvedimenti a raffica, molti per decreto presidenziale, molti altri per legge, ma ratificati in brevissimo tempo grazie alla solida maggioranza di cui godeva nel Congresso. Primo fra tutti un provvedimento per mettere in sicurezza le banche con prestiti illimitati della Federal Reserve e un altro che garantisse i depositi dei risparmiatori. Poi, di fronte alla povertà dilagante, la creazione della Emergency Relief Administration per dare un minimo di sostegno ai più bisognosi. Con il Civilian Conservation Corps il governo federale creò centinaia di migliaia di posti di lavoro per giovani disoccupati facendoli lavorare nella manutenzione dei parchi, delle città, dell’ambiente. Seguirono provvedimenti per rilanciare l’economia con investimenti pubblici: ne nacque uno straordinario e mai più ripetuto programma di costruzione di strade interstatali e di ferrovie, di ponti, di dighe, di impianti idroelettrici.

Quando tuttavia Roosevelt provò ad intervenire direttamente sulle grandi imprese industriali per limitare la concorrenza al ribasso e le manovre speculative fu fermato dalla Corte suprema conservatrice che dichiarò la legge incostituzionale. Ciò non gli impedì di ridurre le spese militari dirottando le risorse sugli investimenti civili, di confiscare a prezzi prefissati l’oro privato per sostenere il dollaro e anche di mantenere la promessa di abolire il proibizionismo, puntando sull’aumento di gettito fiscale che la legalizzazione degli alcolici avrebbe prodotto.
Un programma vasto e coraggioso che durò ben oltre i primi 100 giorni, e che negli anni successivi riuscì a risollevare l’economia americana. Almeno fino a quando durarono gli aiuti e gli investimenti pubblici. Perché quando, sotto la pressione degli ambienti conservatori, dopo la sua seconda elezione nel 1936 Roosevelt dovette accettare di ridurre la spesa in deficit e il debito pubblico, l’economia americana ripiombò rapidamente nella crisi, dalla quale si risollevò definitivamente soltanto sei anni dopo con l’entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale.

(*) già docente di relazioni internazionali presso l’Università di Roma “La Sapienza”, è vicedirettore del GeoPec, istituto di ricerca geopolitica sulle elite contemporanee.

9 commenti su “L’insegnamento di Roosevelt a 80 anni dalla sua prima elezione

  1. Si “lo stato siamo noi”: roba buona per boccaloni. “Lo stato sono loro”, è chi ci governa e è ben distinto da chi è governato. Io non sono nè Casini nè Bersani

  2. Lavoro notevole quello di FDR, socialismo puro, ma notevole. Purtroppo, anche lui, come chi lo ha preceduto, e peggio ancora chi lo ha seguito, altro non è stato che l’ennesimo violentatore della costituzione dell’unione. Unione che non era nata per essere uguale a tutti gl altri governi centrali. Unione che all’art. 1 sezione 8 enumera 18 specifici poteri che lo stato federale avrebbe avuto. Il resto doveva rimanere nell’ambito della sovranità dei singoli stati e soprattutto dei “We the people” (10° emendamento). E non parliamo di teorie della cospirazione, ma usando le parole di James Madison “the abridgement of freedom of the people by gradual and silent encroachments”. Il popolo sta bene, il popolo si lascia andare, diventa compiacente, e senza rendersene conto, in nome di una qualche promessa sicurezza svende i propri diritti e le libertà. E lo fa perchè con le libertà personali vengono le responsabilità personali. Nell’articolo si parla di una SCOTUS conservatrice, un pò come dire che i Justice Thomas e Scalia sono originalisti/testualisti. Evidentemente non abbastanza visto che il 99% di quello che il governo federale fa è totalmente incostituzionale. E’ difficile per noi ragionare in questi termini, venendo da millenni di governi centrali. Ma gli stati uniti nacquero con intenti ben diversi. Non oso immaginare cosa penserebbero i vari Madison, Jefferson, Henry di quello che ora sono diventati. Ma probabilmente se ci fossero oggi verrebbero additati come estremisti, terroristi, ed in forza ai vari Patriot Act, NDAA e simili, non avrebbero vita facile. Altro che Grillo.

  3. COMMENTO NON MIO

    Keynes col “New Deal” c’entra molto poco. Almeno fino al 1937.
    Si chiamava ufficialmente “pianificazione autoritaria” termine poi sparito dai libri. Controllo rigido dei cambi, autarchia, blocco dei salari, protezionismo, isolazionsmo, politica deflazionistica, sussidiarietà, previdenza sociale. Circa il Reichsverband Tedesco, solo che basato meno su investimenti e più su tasse e parzialmente deficit. Nel 33 Roosevelt aveva 23% di disoccupazione e nel 37 pure era ancora al 20% (19% secondo altri). L’occupazione l’ha fatta poi con la guerra che avevano cominciato a preparare prima.
    Per spacciare alla gente perchè facevano armamenti per mezzo mondo per far produzione dopo aver giurato e stragiurato sulla pace gli hanno spiegato che quello era “l’arsenale delle democrazie” anche quello un termne poi sparito dai libri.
    (L’inventore dello slogan mi pare, a memoria, fu il solito Bernays, un genio.)
    Come è sparito dai libri che il New Deal non riguardava certo neri, braccianti, contadini, operai, emigranti, fittavoli, poveri ecc…tutti tenuti fuori. E per questo anche la disoccupazione dal 33 in poi non è che calò molto nonostante un Paese con privilegi e risorse immense.

    http://www.infoplease.com/ipa/A0104719.html

  4. fate le pulci a gente come Rooswelt o Kennedy che noi ce possiamo solo sognare.. e poi magari avete votato renzi :-)

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